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Autore: Brin    09/02/2012    2 recensioni
Non si può restare a guardare quando una mano sconosciuta porta via ciò che di più caro hai al mondo: questo è quanto Sari Kalabis sperimenta sulla propria pelle nel momento in cui uno dei pilastri della sua vita le viene strappato per sempre.
Non sa, però, che il desiderio di sapere perché la porterà su strade pericolose, lastricate di interessi a cui non dovrebbe avvicinarsi. Verso i sotterranei di un carcere da cui non si può uscire, nella pancia di un incubo folle e delirante che non dovrebbe esistere.
Genere: Fantasy, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2.
VIVERE A ROSYA



*


Suo padre la stava guardando seduto dall’altra parte del tavolo, con gli occhi che gli brillavano d’amore. Non aveva il coraggio di interrompere il racconto appassionato di Sari riguardo agli studi che lei stava conducendo, e la ascoltava parlare con un sorriso orgoglioso che le scaldava il cuore.
La guardava come se fosse il suo tesoro più prezioso, con quegli occhi scuri e profondi che esprimevano tutto l’affetto unico, speciale e indissolubile che lega un genitore alla sua unica figlia.
Lo stesso sentimento che anche la madre di Sari gli leggeva in volto.
Quel giorno Adrian era tornato a casa con una notizia che aveva messo tutta la famiglia di buon umore: aveva ricevuto una promozione. L’impegno e la dedizione che aveva sempre profuso nel lavoro avevano dato i loro frutti. Sarebbe stato trasferito ad Artika l’indomani, per raccogliere l’eredità del suo predecessore alla guida del reparto di psicologia e psichiatria del carcere. Un motivo più che sufficiente per festeggiare.
Avevano organizzato una festa piuttosto intima: solo loro tre, da soli. Non avevano bisogno d’altro per stare bene. Erano felici. Sari poi era così orgogliosa di suo padre da commuoversi. Quando aveva saputo della sua promozione era corsa a setacciare tutti i negozi assieme alla madre, alla ricerca di un regalo importante, lo stesso che stringeva tra le mani in quel momento. Era chiuso in un pacchettino luccicante, piccolo ma grazioso.
«Un pensiero per te» sorrise mentre glielo porgeva, emozionata. Lui scartò il regalo, rigirandoselo tra le mani mentre lo guardava con meraviglia: era un orologio da taschino in argento, piccolo ed elegante. Le sorrise e l’abbracciò, porgendole un bacio amorevole sulla fronte.
«Grazie bambina mia.»
«Papà, non ho più cinque anni» lo ammonì, guardandolo contrariata. L’uomo si mise a ridere.
«Hai ragione, Sari. Sono un caso irrecuperabile.»
La madre della ragazza -Emma il suo nome- guardò i due scherzare, e sorrise. Per quanto il marito si sforzasse di trattare Sari come un’adulta, ai suoi occhi sarebbe sempre rimasta la figlia fragile da tenere nel nido, al sicuro dai pericoli del mondo.
«Che cosa ti ha regalato, Adrian?»
«È un orologio, tesoro» rispose sollevando il regalo.
Guardandolo sorridere felice in compagnia della sua famiglia, Sari fu colta dalla malinconia. Dal giorno successivo l’avrebbe rivisto soltanto durante le feste e in qualche raro fine settimana. Avrebbe vissuto per la maggior parte dell’anno negli alloggi allestiti appositamente per il personale del carcere, senza di loro. Senza di lei.
Doveva ancora partire e già sentiva la sua mancanza come se le avessero strappato un pezzo di cuore.
Suo padre. Il suo modello. Il suo idolo.
Sorrise.
Un sorriso triste, di una ragazzina dodicenne costretta a separarsi dal padre tanto amato.
«Buona fortuna.»
Le immagini del sogno sfumarono, e Sari mugugnò ancora intontita dal sonno. L’orologio sul suo comodino segnava le sette della mattina: un’autentica tragedia, per lei che aveva l’assoluta necessità di alzarsi con tutta calma e prepararsi senza fretta. Schizzò giù dal letto e si precipitò in bagno, con le immagini del sogno che facevano da sfondo al martellante pensiero di essere in ritardo.
Si lavò il viso velocemente con l’acqua gelida: un contatto atroce con la pelle accaldata, che cancellò ogni traccia di sonno ancora superstite. Se si sbrigava, avrebbe potuto recuperare il ritardo e arrivare a lavoro in perfetto orario. Poteva farcela.
Corse verso la camera, così presa dalla fretta da non accorgersi dello stipite della porta, perfettamente in linea con la spalla. Quando andò a sbatterci addosso, ormai, era troppo tardi.
Represse a stento un’imprecazione. Cercò la finestra nel buio, improvvisamente più prudente.
Il dolore sordo alla spalla aveva ridimensionato la sua fretta, e il pensiero di arrivare in orario era passato improvvisamente in secondo piano. Sollevò la tapparella, e la luce inondò la camera ferendo gli occhi di Sari. L’aria fresca e pungente del mattino le solleticò piacevolmente il viso, e si concesse di indugiare sul panorama per una manciata di minuti. Giusto il tempo necessario perché la spalla smettesse di pulsare.
C’era vegetazione ovunque. Boschi rigogliosi circondavano il colle su cui si stagliava Rosya, rendendo assai piacevole il contrasto di colori tra la vegetazione e la città.
Non poteva dare torto a chi diceva che la capitale fosse la città più bella di tutta Silindril. Sarebbe bastato vederla da lontano per affermarlo; chiunque sarebbe stato d’accordo.
Ma nonostante il suo splendore, Rosya possedeva anche un lato grigio che la maggior parte delle persone si ostinava a non voler vedere. I poveri erano più numerosi dei ricchi e relegati nelle zone più esterne della città; gli umani dovevano sopportare in silenzio i soprusi dei maghi che, forti della loro ormai accertata mutazione, li trattavano con arroganza.
Nelle sue strade proliferava la criminalità e la violenza, e molti soggetti socialmente pericolosi erano nati e cresciuti proprio nella capitale.
Sari gettò una rapida occhiata al calendario: era il 10 ottobre, e ormai al compleanno di sua madre mancava una settimana. Entro sette giorni avrebbe rivisto suo padre, di ritorno da Artika per stare con la famiglia. Al solo pensiero il cuore di Sari si gonfiò di felicità.
Non lo vedeva da molto tempo. Le mancava tutto di lui, ma più di ogni altra cosa sentiva la mancanza delle lunghe chiacchierate che facevano sempre dopo cena. Lo sentiva spesso per telefono, ma non era abbastanza per compensare il vuoto che la sua lontananza aveva creato.
Ripensò al sogno con un sorriso malinconico. Il ricordo della partenza di suo padre, Adrian Kalabis, era ancora vivo nella sua memoria. Erano passati sette anni da quel giorno, ma lei lo ricordava nei minimi dettagli.
Ricordava quanto fosse leggero l’orologio da taschino che gli aveva regalato come dono d’addio, e le sembrava di rivederlo luccicare ogni volta che chiudeva gli occhi. Se glielo avessero domandato, sarebbe stata in grado di elencare tutti i piatti che sua madre aveva cucinato quella sera.
Le capitava spesso di domandarsi che cosa facesse suo padre. Probabilmente in quel momento era seduto a una scrivania in un ufficio scarnamente arredato a compilare scartoffie, o forse stava interrogando qualche carcerato. L’idea che dovesse osservare il comportamento dei detenuti le era sempre apparsa bizzarra, dal momento che il suo giudizio non avrebbe mai potuto cambiare la condanna. Ogni sentenza di reclusione era definitiva, e non venivano ammesse commutazioni di pena. C’era un solo modo per far terminare la prigionia, ed era uguale per tutti.
La morte.
Su questo la Corporazione era stata ben chiara.
Aveva immaginato molte volte come dovesse essere Artika. Tutti sapevano che si trovava a nord, nel continente di ghiaccio. Solamente poche persone conoscevano l’esatta posizione e tutte avevano a che fare con il carcere, come chi vi lavorava all’interno o chi riforniva periodicamente la prigione di viveri, medicine e vestiario.
Per ragioni di sicurezza la sua ubicazione era da sempre stata taciuta al resto della popolazione, dal momento che molti dei suoi ospiti erano ritenuti tra i più pericolosi criminali del regno.
I bene informati sostenevano che i demoni fossero quelli più numerosi. L’odio che correva tra loro e i maghi aveva giocato la sua parte e aveva contribuito a diffondere una sorta di caccia alle streghe: ogni creatura oscura scoperta nel regno doveva tassativamente venire arrestata e sparire. La stessa sorte toccava a ogni attività legata ai demoni, ritenuta clandestina.
E poi c’era la guerra.
Continuava da troppi anni, senza vincitori né vinti, e la tensione che aveva creato sarebbe potuta cessare solamente con lo sterminio di una delle due fazioni.
Ogni pretesto era buono per incarcerare un demone e condannarlo a morte, soprattutto quello della guerra. Durante le loro battaglie i maghi avevano trovato un alleato prezioso negli elfi: avevano concordato un governo comune, nel quale erano stati coinvolti anche gli esseri umani.
Era la Corporazione a governare attualmente: un consiglio composto dai più anziani e saggi esponenti della società, appartenenti alle famiglie più influenti e di antico lignaggio della regione.
Era sorta come collaborazione per promuovere una convivenza pacifica tra le razze, e ogni membro godeva di una posizione paritaria rispetto agli altri. Questo in teoria.
Sebbene nessuno dovesse prevalere in quanto a potere e influenza, in realtà le cose erano ben diverse.
La discriminazione nei confronti degli esponenti umani aleggiava nella Corporazione come un fantasma, nonostante l’etichetta imponesse un atteggiamento rispettoso, e tra tutti i membri una persona spiccava per prestigio e autorevolezza.
Amos.
Uno dei maghi più anziani, la cui ascesa verso il comando della Corporazione era stata troppo rapida.
Vera anima del consiglio, deteneva l’ultima parola in merito a ogni questione, gestiva la conduzione del carcere, ed era stato lui ad assegnare la promozione a suo padre. Lui
l’aveva mandato a lavorare a tempo indeterminato ad Artika, costringendolo a viverci.
Persino la legge che stabiliva l’impossibilità di recarsi in visita al carcere era un’altra delle assurde decisioni di Amos. E la cosa peggiore era che quegli inutili pensieri le sarebbero costati il posto di lavoro, se avesse indugiato ancora un po’ sulle insensate decisioni della Corporazione.
Indossò la prima maglia pulita che riuscì a trovare, assieme a un paio di jeans stazzonati. Afferrò la borsa e fece per uscire, quando colse con la coda dell’occhio il suo riflesso allo specchio. Sbuffò. Era sempre la solita.
Forse sarebbe il caso che ti pettinassi, Sari.
Rovistò con impazienza dentro al cassetto, ma la spazzola non c’era. Si guardò attorno in preda all’agitazione, cercando di ricordare dove l’avesse ficcata. Esultò quando la trovò nascosta sotto una pila di vestiti usati riposti sulla sedia.
Sciolse i nodi con un paio di colpi secchi, ignorando il dolore. Doveva sbrigarsi, o sarebbe arrivata in ritardo provocando il malcontento dei suoi superiori. Decisamente non era il caso.
Quando uscì di casa, per poco non inciampò sulle scale. Fu solo la sua prontezza di riflessi a salvarla, assieme al prezioso aiuto del corrimano, e in quel momento Sari divenne improvvisamente consapevole di una cosa: la giornata non stava cominciando bene.


*


Sari entrò nell’ufficio del responsabile del dipartimento di polizia con il respiro affannato. Aveva cercato di arrivare prima che poteva, senza risparmiarsi una corsa disperata dal parcheggio.
«Allora… Cosa abbiamo all’ordine del giorno?»
L’agente Silver sollevò appena lo sguardo dai documenti che stava esaminando, e sorrise divertito.
«Nulla, se prima non ti riprendi un po’.»
«Sto bene Victor.»
Il poliziotto la guardò, scettico. I capelli erano un disastro, scompigliati dal vento, e la maglia indossata al contrario suggeriva che Sari si fosse svegliata in ritardo. Ma il viso paonazzo era senz’altro la parte migliore del quadro: ebbe quasi paura di vederla svenire da un momento all’altro.
Le indicò la sedia di fronte a lui.
«Siediti.»
La ragazza guardò Silver senza troppa convinzione. Quando intuì che non le avrebbe assegnato nessun caso se non si fosse seduta, decise di accontentarlo. Era così sicura di ricevere una ramanzina per l’ennesimo ritardo, che quando Silver le allungò un fascicolo Sari rimase stupita.
«Dobbiamo interrogarlo.»
Sui documenti spiccava una fotografia. Era immortalato un uomo dall’aspetto piuttosto inquietante, con una benda nera a coprirgli l’occhio sinistro. L’altro era di una strana tonalità di grigio, tendente all’azzurro. Il suo viso era coperto dalla barba, probabilmente vecchia di tre o quattro giorni. Silver guardò Sari in attesa di un giudizio qualsiasi, ma il viso della psicologa risultava imperscrutabile.
«È un caso un po’ delicato. Non sono molto speranzoso al riguardo.»
«Di cos’è accusato?» Sari restituì il fascicolo, e quando Silver si alzò in piedi e si diresse verso l’uscita dell’ufficio, la ragazza lo seguì. Raggiunsero la stanza dello specchio, e lo vide.
L’uomo della foto era seduto al tavolo, nella stanza accanto. Teneva le mani intrecciate, con i polsi incatenati. Dietro di lui, due agenti controllavano che non tentasse la fuga.
«È accusato di uno dei più gravi crimini denunciati dal codice penale del regno. Guarda la cartella. Pagina uno» concluse Silver lasciandole la documentazione sul caso prima di uscire.
Sari non indugiò oltre. La foto che aveva visto era assicurata a un foglio, e nascondeva il nome del prigioniero. La sollevò, e ciò che lesse le fece capire subito perché quell’uomo si trovasse lì.
Volker Kramer, accusato di attentato alla Corporazione.”
Non poteva dare torto a Silver: aveva ragione quando diceva che quello era un caso senza speranze.
Il reato di cui veniva accusato era punibile con la carcerazione a vita, e gli sconti di pena non erano contemplati dalla legge. Tutto dipendeva dall’esito dell’interrogatorio, ma Sari sapeva che quell’uomo era l’ennesima persona ad avere il destino segnato. La facilità con cui si rischiava la carcerazione a vita all’inizio era sembrata a molti una cosa assurda, ma con il tempo l’abitudine aveva rimpiazzato l’indignazione con l’indifferenza. Era diventata una cosa ordinaria.
Anche quell’uomo sembrava non farci caso. Data la sua tranquillità, Sari ebbe l’impressione che non si rendesse neppure conto della gravità della situazione in cui si trovava. Si guardava attorno con curiosità, nonostante l’arredamento della stanza fosse tutt’altro che interessante.
Era piuttosto essenziale, a dire il vero. Non un soprammobile, non un quadro, nulla che donasse una nota di colore a quelle mura grigie e impersonali.
Forse quel Kramer era davvero curioso, oppure –l’opzione che Sari ritenne più probabile- era semplicemente un modo per occupare il tempo, in attesa dell’interrogatorio.
Quando l’agente Silver lo raggiunse, pochi minuti più tardi, la prima cosa che fece fu sbattere un fascicolo sul tavolo.
«Allora, signor Kramer... Suppongo sia a conoscenza di ciò di cui è accusato.»
Volker scrollò le spalle, gettando un’occhiata al plico di fogli che aveva davanti.
«Sí, diciamo che qualche idea ce l’ho.»
«Lei era in possesso di oggetti dalla sospettata natura demoniaca. È in contatto con demoni?»
Kramer guardò il poliziotto, sbalordito, e si lasciò scappare una risata sommessa.
«Io? Con i demoni? Si sbaglia, agente. Non sa quanto si sta sbagliando...»
«Però sono oggetti che hanno a che fare con la magia nera, giusto? Ed è risaputo che i demoni ricavano la magia nera dall’utilizzo dell’energia demoniaca...» obiettò scettico Silver.
«Quelli sono gingilli d’importazione piuttosto costosi» spiegò Kramer con un gesto impaziente della mano.
«Mercato nero?»
L’interrogato rise sommessamente, guardando le proprie mani.
«E i draghi? »
Volker si fece improvvisamente serio. «I... draghi? »
Silver alzò gli occhi al cielo, sbuffando esasperato.
«Non faccia finta di non sapere di cosa sto parlando, signor Kramer. Nel suo appartamento, chiamiamolo così, abbiamo trovato dei cuccioli di drago nero. Lo sa che l’allevamento di queste bestie è proibito dalla legge?! »
Kramer distolse lo sguardo, improvvisamente colpevole. Quello era il punto cruciale dell’interrogatorio, il nocciolo della questione. E lui si sentiva con le spalle al muro.
«Sí, è vero. Allevo draghi neri e li rivendo.»
«Allora lo confessa? »
«Confessare cosa? »
«Che ha partecipato all’operazione terroristica che ha colpito la sede della Corporazione la settimana scorsa.»
Volker guardò Silver, improvvisamente confuso.
«Di che cosa sta parlando, agente? Io non ho mai fatto né detto nulla contro la Corporazione!» esclamò come se fosse scandalizzato dal fatto che gli venisse mossa una tale accusa. Silver si appoggiò con entrambe le mani al tavolo, guardando Kramer dritto negli occhi.
«Eppure il rapporto dice così: la Corporazione è stata attaccata da un gruppo di draghi neri guidati da attentatori a cui lei aveva venduto gli animali» constatò indicandogli il fascicolo.
Volker lo prese tra le mani, gettando rapidamente lo sguardo tra le righe accanto alla sua fotografia. Quando li alzò, fissò sconvolto il poliziotto.
L’istante successivo era in piedi, e la sua espressione non era più placida.
«Non accetto di venir punito per qualcosa che non ho commesso!» urlò con rabbia, sbattendo le mani sul tavolo. I due agenti di scorta gli furono immediatamente addosso, afferrandolo per le braccia e allontanandolo dal tavolo. Volker tentò di opporre resistenza, continuando a urlare.
«Non ho nulla contro la Corporazione, agente! Mi creda!»
Silver non rispose, limitandosi a guardarlo. A guardare la disperazione che leggeva nei suoi occhi, mescolata al desiderio di continuare a lottare per la propria libertà. E la rabbia, perché era consapevole che non ci sarebbe riuscito: sapeva già dove sarebbe finito.
I due agenti riuscirono a portarlo con fatica fuori dalla stanza. Le sue grida erano forti, anche dal corridoio.
E facevano male.
«Agente, non voglio andare là! Sono innocente, mi creda! Non voglio andare ad Artika! AGENTE!!»
All’improvviso ci fu un tonfo sordo, e poi quello che seguì fu un silenzio lungo e pesante.
Silver intuì subito che cosa fosse successo, senza aver bisogno di vederlo con i propri occhi: i due agenti della scorta avevano agito come da protocollo in casi come quello. Un manganello e un colpo ben assestato dietro al collo erano bastati per neutralizzare il signor Kramer, per il quale non ci sarebbe stata la clemenza invocata.
Silver chiuse gli occhi, immobile con le mani ancora appoggiate sul tavolo.
Era stufo di vedere gente disperarsi per non finire ad Artika. Non ne poteva più di sentire ogni giorno quelle urla. Era così, tutte le volte. La gente cambiava, ma la disperazione nelle loro suppliche rimaneva sempre la stessa. E lui non ce la faceva più.
Pesava sulla sua anima come un macigno.



*



ANGOLO DELL'AUTRICE

Capitolo noioso ma necessario a definire meglio l'ambiente in cui si svolge la storia e a introdurre delle dinamiche essenziali. Fanciulle, portate pazienza, questo è l'ultimo capitolo lento che dovrete sorbirvi: dal prossimo entreremo nel vivo della storia e vi prometto che non ci sarà più modo di annoiarsi, parola di autrice.

Detto questo, ringrazio davvero tanto quanti hanno letto il prologo: sarà che devo prendere confidenza con i numeri che girano in questa sezione, ma siete stati uno splendido esordio. Vi ricordo che, per chi volesse, può trovarmi sul mio contatto facebook e (per spoiler e chiacchiere varie) nel gruppo facebook dedicato alle mie storie.
A giovedì prossimo,

Brin

   
 
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