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Vita Scolastica
Per
diventare parte della propria Casa era necessario vivere il suo spirito
in ogni
istante della giornata.
Per questo,
nel momento in cui il
Cappello aveva decretato le rispettive appartenenze, i loro vestiti
erano
magicamente mutati: gli indumenti che erano stati esplicitamente
richiesti
bianchi – alcune sciarpe e cravatte – ora vantavano
lucenti strisce verdi e
argentee, e su tutto il resto del vestiario si era concretizzato il
simbolo
degli Slytherin.
Su tutto.
Proprio tutto.
Queste
furono le considerazioni
di Albus quando, uscendo dalla doccia, gettò uno sguardo
sulla sua biancheria.
Poteva accettare l’emblema della Casa sulla canottiera, ma le
mutande con il
simbolo serpentino sfioravano l’eresia.
Avrebbe
voluto sapere il nome del
burlone che aveva ideato quello scherzetto. Non riusciva a conciliare
l’idea
della Mc Granitt, la loro integerrima condottiera, con quella di un
buontempone
dedito alla personalizzazione dell’intimo altrui.
Finì di asciugarsi e cominciò a
vestirsi, e lì ebbe inizio la seconda
riflessione della mattina: la tunica che avevano indossato il primo
giorno era
stata rimpiazzata da una divisa scolastica più moderna. Lo
sguardo di Nott non
era stato dei più incoraggianti quando gli aveva chiesto
perché dovessero
sostituire la veste nera. «Ci fanno indossare quelle
palandrane solo il primo
giorno. È una specie di rito, visto che per secoli i maghi
hanno vestito così.
Un tributo, per meglio dire. Ma, finita la commemorazione, ci danno le
vere
divise» gli aveva spiegato.
Albus
allacciò la fibbia dei
pantaloni e procedette nell’abbottonatura della camicia.
Secondo lui, comunque,
la tunica tenebrosa aveva tutto un altro fascino rispetto al completo
“contemporaneo”.
Stava allacciando la cravatta quando Scorpius lo
chiamò dalla stanza:
«Albus, ti stanno…»
«Spiega a questo stupido aggeggio che non sono il suo padrone, che Piton lo
strafulmini!» starnazzò
Macauley, vagamente isterico.
Albus si gettò fuori dalla porta del bagno,
incurante dei capelli ancora
umidicci che cominciavano a formare un alone scuro sul colletto.
E finalmente
capì quale fosse il
motivo dell’agitazione di Nott.
Qualcuno lo
stava chiamando al Cercapersone.
Nel mondo
dei maghi, il Cercapersone
non si limitava a squillare come un normale cellulare: quando riceveva
un
messaggio o una telefonata, il Cercapersone sguainava un paio di
gambette
metalliche e scorrazzava in giro alla ricerca del destinatario. Gli
stregoni avevano
adottato la tecnologia babbana per la sua indubbia
praticità, ma avevano voluto
aggiungere un tocco personale al tutto.
Albus si
mordicchiò l’unghia
dell’indice, imbarazzato: non aveva detto ai suoi genitori
che il suo Cercapersone
era rotolato giù per le scale. E caduto dal terrazzo. E
finito in lavatrice. In
realtà, era un miracolo che fosse sopravvissuto
all’estate: forse gli oggetti
incantati erano più tenaci di quelli comuni. Ma tutti quegli
urti non lo
avevano comunque lasciato illeso: ora il suo Cercapersone identificava
come suo
possessore la prima persona che vedeva, un po’ come le
paperelle che etichettavano
come mamma la prima cosa con le zampe rossicce che passava loro
davanti, anche
un umano in stivali da pioggia.
Quella
mattina, la “mamma” del
suo cercapersone era Macauley.
Era
piuttosto buffo vedere un
ragazzino di undici anni inerpicato su una sedia con la bacchetta
spianata e
gli occhi strabuzzati, attaccato da una temibile agendina elettronica
che
continuava a sbatacchiare sulle gambe della seggiola. Un elefante
terrorizzato
da un topo avrebbe fatto la stessa impressione.
«Scusami Macauley» Albus corse in suo
aiuto recuperando il Cercapersone,
che continuò a zampettare a vuoto nell’aria.
«Ti sei spaventato?»
«Rispondi e porta quella diavoleria lontana da
me!» sbottò lui,
rinfoderando la bacchetta. «Non ti sei asciugato bene i
capelli» lo rimproverò
nello scendere dalla sedia.
«Dovevo rispondere» replicò
Albus. Si slanciò all’improvviso in avanti
per tenere fermo il Cercapersone, ancora convinto di appartenere a
Nott. Quella
scatoletta aveva la forza di un Minotauro.
«Se ti viene il raffreddore, dovrai starmi a
dieci metri di distanza» lo
ammonì Macauley, rifugiatosi dietro la sedia per sfuggire
alla perseveranza del
diabolico marchingegno.
«Ma Macauley, siamo in stanza
insieme…»
«Dieci, ho detto!»
L’Albus mentale roteò gli occhi con
un sonoro sospiro mentre l’Albus reale
annuì e si ritirò a sedere sul suo letto per
rispondere alla chiamata.
Scorpius si era mantenuto totalmente neutrale alla
faccenda: aveva
nascosto qualunque esternazione, fosse un sorriso o una smorfia, dietro
lo
scudo di un libro, e aveva continuato la lettura tranquillo come se
nulla
stesse accadendo.
Il minore dei Potter osservò per un attimo il
colore del suo
Cercapersone. I maghi avevano voluto dare un ennesimo tocco stravagante
alla
loro rivisitazione della tecnologia; avevano riprodotto nel
Cercapersone le
funzioni di un telefono cellulare e l’estetica di
un’agendina elettronica, con
una sfiziosa novità: il coperchio metallico variava la
propria tinta in base all’umore
di chi stava chiamando. Dalla tonalità azzurra appena
intaccata da un’ametista
pallido Albus capì che il mittente era fondamentalmente
sereno, ma con una
punta di agitazione.
Sollevò il coperchio e diede inizio alla
comunicazione.
«Albus! Come è andata la prima
settimana di lezioni?»
«Mamma, mi hai chiamato ieri sera. Lo sai come
è andata» rispose
serafico lui.
L’apprensione di sua madre era da Torneo
TreMaghi, ma la dolcezza con
cui si preoccupava per lui era troppo genuina per inacidirlo: non era
mai
accaduto, nella storia della famiglia Potter, che la prole si fosse
mostrata
villana con Ginny.
«Hai dormito bene?»
«Sì.»
«Oggi hai molte lezioni?»
«Ho Trasfigurazione subito dopo mangiato. E poi
abbiamo le “Scholzioni”
nel pomeriggio» elencò Albus.
«Le cosa?»
«Difesa contro le Arti Oscure e Volo»
si riprese lui.
Dall’anno precedente, Hogwarts vantava due
professori tedeschi tra le
file dei propri docenti, i cosiddetti “fratelli
teutonici”. Poiché di cognome
facevano Scholz, gli studenti chiamavano
“Scholzioni” le loro ore, nomignolo
che si guardavano bene dall’usare in presenza dei due
insegnanti, che non
avrebbero gradito. Per meglio precisare, forse il minore si sarebbe
messo a
ridere e gli avrebbe perfino offerto una Burrobirra per la fantasia, ma
il maggiore
non avrebbe di certo apprezzato l’umorismo. Meglio essere
cauti con quel
mastino di Achill Scholz.
«Non ti sei asciugato i capelli»
notò lei.
Nott estrasse la bacchetta e, facendo uscire dalla punta
un filo di
fumo, vergò una frase nell’aria: “tua
madre è una santa”.
«Stavo per farlo quando mi hai
chiamato» si giustificò Albus.
«Allora ti saluto. Non voglio che ti
ammali.»
Macauley picchiettò due parole
perché si allontanassero tra di loro e
fece un’aggiunta nello spazio appena liberato: “tua
madre è davvero una
santa”.
Albus salutò Ginny e chiuse l’agenda,
che venne poi riposta nel cassetto
del comodino; ancora non capiva come facesse ad aprirlo da sola con
quelle
zampette microbiche.
«Perché mia madre sarebbe una
santa?» domandò, avviandosi verso il
bagno.
«Perché impedisce ai tuoi pericolosi
germi di bivaccare in questa stanza»
lo delucidò Nott.
«Non mi sono ancora ammalato!»
protestò l’altro.
«E’ meglio se ti asciughi i capelli,
Albus» intervenne Scorpius,
accompagnato dallo sfogliare del libro.
«E se i tuoi bacilli sono testardi come te,
contagerai tutta Hogwarts»
quantificò Macauley.
«Non sono testardo» si oppose Albus.
«Sì che lo sei.»
«Non lo sono.»
«Però ti ostini a negare di essere
testardo.»
«No, sono tenace nell’affermare di non
esserlo.»
«Non cambia molto.»
«La tenacia è una virtù,
la testardaggine un vizio.»
«Macauley, ha vinto lui»
sancì Scorpius, appoggiando finalmente il tomo
e sporgendosi dal letto per fissare i due contendenti.
«Rassegnati. E lascialo
andare ad asciugarsi i capelli, se proprio temi
l’epidemia.»
Nello spartito dei discorsi di Scorpius ogni tanto
apparivano delle note
discordanti. In quei sette giorni di conoscenza, Albus si era
ritagliato
un’ideale del suo compagno di stanza: si sedeva sempre
accanto a lui, a lezione
e nella Sala Principale, non si era mai mostrato scortese con nessuno e
studiava
con particolare impegno, tanto da suscitare lo spirito competitivo di
Rose.
Eppure, alcune volte quell’immagine di studente modello
vacillava, come un
equilibrista che perde l’assetto per qualche secondo. Era un
baluginio di un
istante, un tentennamento appena intravisto, prima che lo Scorpius di
sempre
riprendesse il sopravvento.
I suoi pensieri si dissiparono per un rumore di artigli
contro la
finestra. E ancor più dall’invettiva di Macauley:
«Cos’è quel mostro?»
«Il mio gufo» lo liquidò
Scorpius.
Albus fissò il rapace che attendeva al di
là del vetro: era un esemplare
piuttosto grosso, rispetto alla media, con un piumaggio bianchissimo
appena
macchiato da alcune ombre marroncine.
«Non vorrai farlo entrare?»
inorridì Nott.
«Se è arrivato fin qui, vuol dire che
ha qualcosa da consegnarmi» si
difese Scorpius, avvicinandosi alla finestra.
«Ma perché non fai come Albus e non
ti prendi un Cercapersone? Non
impazzito, possibilmente.» Albus arginò
bruscamente l’onda di simpatia che aveva
provato per Nott: era stato stupido pensare che Macauley fosse in grado
di fare
un complimento.
«Perché dovrei?»
«Perché un’agenda non perde
le piume, non porta malattie e non caccia
schifezze che gozzovigliano nel sottosuolo»
sciorinò Macauley.
«Il mio gufo è addestrato. Non fa
niente di tutto questo» ribatté
Scorpius. E aprì la finestra.
Nott corse ai ripari infilandosi prontamente la
mascherina, mentre Albus
si allungò verso il letto del compagno per vedere meglio il
rapace appollaiato
docilmente sul suo braccio.
«Di che razza è?»
s’informò, incantato dalle piume immacolate.
«E’ un gufo delle nevi»
illustrò Scorpius, solleticando un’ala
all’uccello perché l’aprisse.
«Ha il piumaggio ancora un po’ scuro
perché è un
esemplare giovane» gli indicò le imperfezioni
marroni. «Quando crescerà sarà
completamente bianco.»
«Almeno sei abbastanza civile da non far
atterrare il tuo piccione in
Sala Comune» rumoreggiò Macauley da un angolo
della stanza.
Albus strinse le labbra per soffocare un risolino: la
faccia schifata di
Nott quando gli uccelli di alcuni studenti planavano sulle tavole
imbandite
poteva essere paragonata a quella di un ogre che vede un
tutù da danza
classica. “Arma batteriologica di massa”, li aveva
definiti. Probabilmente i
nervi e le difese immunitarie dell’amico non avrebbero retto
se le abitudini
fossero rimaste immutate rispetto a venti anni prima: ormai erano
sempre di più
gli studenti che si affidavano all’elettronica e sempre meno
i pennuti che
sorvolavano le mense di Hogwarts.
«E’ un gufo, non un
piccione» si premurò di precisare Scorpius,
tirando
il nastro che legava un pacchetto alla zampa dell’uccello.
«Come mai non lo fai atterrare con tutti gli
altri?» considerò Albus.
«Perché lui non è un
troglodita» rispose in sua vece Nott. «Tuttavia, se
fosse davvero evoluto, lo farebbe
appollaiare da qualche altra parte.»
«E dove?» replicò signorile
Scorpius.
Alcuni colpi sbarazzini alla porta interruppero la loro
discussione.
«Ragazzi? Siete pronti?»
gorgheggiarono delle voci al di là del legno.
Quell’anno a Slytherin
erano
stati assegnati tre maschi e ben sette femmine; per compensare, Ravenclaw contava due deliziose
fanciulle e nove pargoli.
Le Slytherin si erano dimostrate molto
socievoli nei loro confronti e,
per cementare il legame tra le “matricole
serpentine”, avevano proposto di
scendere sempre tutti assieme per la colazione. Il rituale prevedeva
anche il
commiato della buonanotte e l’obbligo, per loro tre, di
cedere il passo alle
femmine nell’entrare in una stanza. Non era ben chiaro
perché l’ultima regola
dovesse saldare i rapporti personali, ma l’avevano accettata
con un’alzata di
spalle.
Per essere
esatti, Scorpius e
Albus avevano concordato con quel buffo galateo. Macauley si era
dimostrato un
poco recalcitrante.
«Sono di nuovo qui, quegli untori in
gonnella» si risentì infatti.
«Macauley, non essere sgarbato» lo
calmò Scorpius, aprendo la finestra
per far uscire il gufo.
«Sono obiettivo» si
giustificò lui. «Ti ficcano quelle unghie smaltate
ovunque per farti il solletico. E i baci,
poi. Quello schioccare di saliva sulle guance» Nott
buttò fuori la lingua come
per un conato, per evidenziare la sua misoginia.
«Non possiamo restare rintanati tutto il
giorno» comunicò Scorpius.
Scavalcò con le gambe il bordo del letto ed
atterrò con un tonfo smorzato sul
pavimento. «E siamo già in ritardo per la
colazione.»
Il sospiro snervato di Macauley uscì molto
simile a “stormo di
invasate”, ma si aggiunse comunque ai suoi compagni
nell’apertura della porta.
«Oh, finalmente!» li salutò
Cenerentola.
«Pensavamo non vi foste svegliati
affatto» proseguì Lentiggine.
Si sarebbero certamente infuriate se avessero saputo dei
soprannomi che
avevano loro affibbiato, ma non lo avevano fatto con cattiveria: una
settimana non
bastava per ricordarsi i nomi di tutto l’istituto. Scorpius
era quello
vagamente più fisionomista di loro tre, ed anche lui si
trovava in difficoltà;
Nott non si impegnava nemmeno: per lui erano tutte portatrici di germi.
I nomignoli
erano opera di Albus:
Cenerentola si era guadagnata il suo pseudonimo per la propensione a
raccogliere
i capelli biondi in un fiocco azzurro, e Lentiggine per le efelidi che
le
punteggiavano il nasino alla francese. Gli epiteti proposti da Nott
erano stati
scartati per ovvie ragioni.
«Albus, non ti sei asciugato i
capelli!» notò Fiamma, caratterizzata dai
capelli rossi.
L’interessato arricciò le labbra,
scuotendo il capo. Possibile che il
mondo dovesse focalizzarsi sullo stato della sua chioma?
«Oh, che carino!» cinguettò
Cenerentola, avvolgendolo in un abbraccio e
guadagnandosi così lo sdegno di Nott: il contatto fisico era
il primo veicolo
di contagio.
«Assomiglia a mio fratello minore»
pigolò Fiamma, unendosi alla stretta,
e Albus poté sperimentare l’emozione del
prosciutto pressato tra due fette di
sandwich. Per una qualche ragione a lui ignota, tutte le ragazze di Slytherin lo trovavano adorabile, e
cercavano ogni scusa possibile per coccolarlo. Avrebbe preferito che
non lo
facessero: era imbarazzante sentirsi soffocare da un abbraccio
perché la sua
statura non raggiungeva quella della maggior parte delle femmine della
sua
Casa.
«Non dovresti andare in giro così, ti
prenderai un raffreddore» si
impensierì Lentiggine.
«E’ quello che gli ho detto anche
io» si indignò Macauley.
«Oh, Nott, se anche tu vuoi un po’ di
attenzioni basta chiedere»
vocalizzò Lentiggine, avvicinandosi a lui.
«Prima che tu faccia un altro passo ricorda: ho
una bacchetta» minacciò
Macauley e, nel dirlo, infilò una mano nel mantello.
«Nott, non vorrai lanciarmi uno Schiantesimo,
vero?» si allibì lei.
«Mantieni una distanza di sicurezza»
le suggerì Macauley.
«Siamo in ritardo per la colazione»
ricordò Scorpius a tutti quanti,
prima che Lentiggine facesse un altro passo e Nott… solo il
cielo sapeva come
avrebbe potuto reagire Nott alla vicinanza di una pericolosa fonte di
agenti
patogeni.
«Andiamo» decretarono le ragazze,
portandosi via il piccolo Potter come
trofeo da viziare. Albus si voltò disperato e vide la
riprovazione di Nott e
l’enigmatico sorrisetto di Scorpius. E nessuna traccia di
cameratismo o
comprensione.
Chissà come avrebbe reagito sua madre se gli
avesse raccontato tutti i dettagli
della vita ad Hogwarts.
***
Aveva temuto seriamente di rivedere la sua colazione.
La Eeriemay aveva svolto la sua lezione di Trasfigurazione
ben fasciata
da uno dei suoi vistosi completi, inadeguati all’insegnamento
di giovani menti
che si avviavano alla tempesta ormonale.
Ma non era stato
l’abbigliamento succinto
della prof a sconvolgere il suo stomaco.
La donna
aveva portato in classe
un enorme sacco e aveva distribuito il contenuto tra gli alunni,
raggiante come
una bambina a Natale.
Albus non
pensava che una femmina
potesse toccare qualcosa di simile senza urlare. Lui
non avrebbe mai toccato qualcosa di simile senza urlare.
Ragni. La
Eeriemay aveva portato
dei grossi, enormi, pelosi, schifosi ragni.
«Cambiategli colore, ragazzi. E usate
l’immaginazione» cantilenò
zuccherosa, accavallando le gambe sulla scrivania; la parte maschile
dell’aula
fu distratta per la successiva mezz’ora, e i ragni
cominciarono ad aggirarsi in
libertà.
Albus aveva allontanato istintivamente la sedia dal banco,
finendo quasi
in braccio Rose, seduta dietro di lui. La cugina aveva immobilizzato il
suo
aracnide con un colpo di bacchetta e una freddezza micidiale,
dopodiché si era
picchiettata la punta dell’asticella sulle labbra alla
ricerca di un’idea
innovativa. Scorpius aveva tracciato un cerchio con la verga sottile
attorno al
ragno, intrappolandolo in una circonferenza argentata, e aveva
cominciato a
ripetere tra sé la formula che la professoressa aveva appena
spiegato per
testare gli accenti corretti. Nott aveva stordito la sua bestia
spruzzandole
uno spray addosso, ed il ragno si era afflosciato in uno stato comatoso
mentre
il ragazzo si muniva di maschera e guanti di lattice prima di
proseguire.
Albus aveva
passato qualche
interminabile minuto in un’imbarazzante rappresentazione in
cui lui avvicinava
le mani al ragno, quello sollevava le zampe, o le ganasce, o quello che
erano
per attaccare e lui che ritraeva le dita. Poi lui le avvicinava di
nuovo e il
copione si ripeteva.
Stava per
schiacciarlo sotto il
libro di Trasfigurazione in preda all’esasperazione e allo
schifo, quando una
bacchetta era saettata verso di lui e aveva rinchiuso
l’aracnide in una
circonferenza argentea.
«Grazie Scorpius» aveva mormorato, con
voce traballante per la nausea.
Il compagno aveva mosso appena la mano per fargli capire
di non sentirsi
in debito, e aveva ricominciato a lavorare al suo ragno.
Alla fine della lezione, ognuno aveva tentato di fare del
suo meglio. Si
potevano vedere ragni rossi, verdi, gialli, a strisce, a fiori, a pois.
Ma
restavano comunque disgustosi aracnidi ottozamputi.
I loro
sforzi avevano fruttato
una decina di punti per Ravenclaw e
venti per Slytherin: la Eeriemay
era
rimasta favorevolmente impressionata dalla tinta omogenea che erano
riusciti a
stendere magicamente sui ragni, e aveva molto gradito la fantasia a
farfalle
adottata da Rose.
Ma Albus non
era riuscito a
rallegrarsi troppo per quella vittoria: le sue guance avevano lo stesso
colore
del suo maglione, e il suo stomaco si era arrampicato in una posizione
imprecisata tra la gola e il cuore.
Non avrebbe
mai più passato un
solo secondo della sua vita in compagnia dello zio Ron quando era in
vena di
raccontargli storie dell’orrore sui ragni: era principalmente
colpa sua se era
diventato aracnofobo.
«Forse Macauley ha un
antiemetico…» valutò Scorpius quando il
pallore di
Albus si avvicinò a quello del primo stadio di rigor mortis.
Albus fece perno sul mento e roteò la testa in
cenno di diniego, per poi
schiantare la fronte sul tavolo: era bastato quel semplice movimento
per fargli
sentire sul palato il sapore della bile.
«Tu ascolti troppo le favole di mio
padre» lo rimproverò Rose. «E poi,
cosa può farti un ragno? E’ un animale stupido.
Puoi bloccarlo con un colpo di
bacchetta, o schiacciarlo con una scarpa.»
Albus sollevò un palmo in segno di resa.
«Rose, ti prego. Non vorrei sporcarti la
divisa» rantolò Albus.
«Sei senza speranza» si
rabbonì la cugina, carezzandogli affettuosa i
capelli corvini.
«Forse staresti meglio se mangiassi
qualcosa» si offrì Scorpius.
Albus mandò un lamento incomprensibile, che il
compagno interpretò come
un assenso.
«Fraternizzi ancora con lui?»
ringhiò Rose, quando Scorpius sparì oltre
lo stipite della porta.
«Ancora non ti convince?»
boccheggiò Albus.
Pensava che la cugina si fosse finalmente ricreduta su
Scorpius: era
dall’inizio della scuola che si trovavano tutti insieme a
studiare nelle aule
di lettura di Hogwarts. Tutti a parte Nott, che preferiva ripassare le
lezioni
al sicuro nella loro camera. Inoltre, quel giorno Scorpius si era
dimostrato
particolarmente altruista, aiutandolo a non rovinare per terra nel
tragitto
dall’aula alla sala studio.
Ma,
nonostante il comportamento
di Scorpius fosse irreprensibile, il muro di diffidenza della cugina
non era
ancora crollato.
«Sembra sempre che voglia nascondere
qualcosa» inquisì infatti.
«Rose, ognuno di noi ha qualcosa che non vuole
rivelare. Magari ce ne
parlerà lui stesso quando ci conosceremo meglio»
agonizzò Albus.
«Quel giorno mi ricrederò»
pontificò lei.
Albus riuscì ad appoggiare faticosamente la
testa sulle braccia
abbandonate sul tavolo.
«Dovrei farti conoscere Nott. Sono certo che
andreste d’accordo»
stramazzò lui. Li immaginava già, Macauley che
spargeva disinfettante tutto
intorno e Rose che lo fissava con sospetto da dietro la costola di un
libro.
«Non pensavo che la Eeriemay fosse
così brava con le trasfigurazioni»
ponderò a voce alta Albus, per cambiare discorso.
«Buon sangue non mente»
chiarì Rose. «E’ la nipote della nostra
preside,
dopotutto.»
La testa di Albus scattò verso
l’alto, e si accasciò il secondo
successivo: meglio non tentare manovre troppo avventate con
l’apparato
digerente in sciopero.
«La Eeriemay… nipote della
McGranitt?» tartagliò, annichilito.
«Mi pare che la preside sia la sorella di sua
madre» citò Rose,
punzecchiandosi il mento con il tappo della penna.
Era
impossibile che quelle due
avessero del sangue in comune, assolutamente impossibile. Albus non le
riusciva
a pensare neppure come vicine di posto a mensa, figurarsi come parenti!
Erano
il diavolo e l’acqua santa, il nero e il bianco, il gatto e
il cane, Lord Voldemort e suo padre!
Impiegò
qualche minuto prima che
il suo stomaco debilitato assorbisse la notizia. Se non altro aveva
capito chi gli avesse apposto il
simbolo della
Casa anche sulle mutande.
«Non è un caso se gli studenti
più anziani dicono che la Eeriemay abbia
avuto il posto grazie alle raccomandazioni»
menzionò Rose.
«A me ha fatto una buona impressione come
insegnante» s’impermalì Albus.
«Ha un abbigliamento sconveniente.»
«E’ comunque un’ottima
maga.»
«Albus, non ragionare con organi lontani dal
cervello.»
«Che intendi dire?»
Ogni possibile risposta aspra le appassì sulle
labbra: quando il cugino
la fissava con quegli occhioni verdi da cerbiatto spaurito le sue armi
retoriche si arrugginivano.
«Beata innocenza» sospirò,
assestandogli alcune pacche sulla testa e
smettendo nel momento in cui il verde sulle guance del consanguineo si
fece più
intenso. «Comunque, ha fatto solo due lezioni, e noi siamo
dei principianti. E’
troppo presto per decidere se sia una buona insegnante o meno.
Rimandiamo il
giudizio a quando la conosceremo meglio.»
«Lo farai anche con Scorpius?»
La cugina ritrasse la mano: su alcuni argomenti,
l’ipnotismo degli occhi
da cucciolo non sortiva alcun effetto.
«Lui è un discorso a parte. Non mi
dà una bella sensazione» lo stroncò
lei.
Qualunque replica venne bloccata da un forte conato quando
una mano si
abbatté senza alcun riguardo sulla sua schiena.
«Bravo! Hai fatto guadagnare dei punti a Slytherin» lo
canzonò una voce ben nota.
«James, sto per vomitare» lo
avvisò, in procinto di svenire.
Le sopracciglia del fratello disegnarono un arco sorpreso
da sopra le
lenti degli occhiali.
«Cos’è successo?»
si rivolse a Rose, poiché il consanguineo sembrava sul
punto di ributtare anche l’anima.
«Lezione con i ragni»
telegrafò lei.
«Ma sei un
cretino! Perché non hai chiesto di
saltarla?» lo riprese brusco James.
«Prima o poi
dovrò vincerlo questo… difetto»
crollò Albus.
«Devi cercare di
arrivarci vivo al giorno in
cui lo “vincerai”»
s’incaponì il fratello, tastandogli con malagrazia
la
fronte. «Hai la febbre?»
«Ho la
nausea» si lamentò Albus.
«Hai fatto
lezione con dei ragni… non c’è
proprio limite alla tua idiozia?» lo sgridò James.
«Cerca di non morire,
almeno!» sbuffò, mollandogli la testa di colpo:
Rose si tuffò come un portiere di
Quidditch per evitargli la collisione con lo spigolo del tavolo.
«Tuo fratello è più
umorale di un’elefantessa incinta»
disapprovò lei,
aiutandolo a rimettersi composto mentre James si allontanava dalla sala
studio
a grandi passi.
«Forse è sotto pressione»
biascicò Albus. «E’ responsabile anche
per me,
adesso.»
«Comunque sia…»
«Eccomi.»
Rose si ammutinò in un silenzio offeso:
detestava essere interrotta.
Specie da Scorpius.
«Ti servono un po’ di zuccheri per
rimetterti in forze. Tra qualche ora
abbiamo la prima Scholzione» annunciò Scorpius,
mettendogli davanti al naso il
frutto della sua ricerca.
Albus sentì la nausea gonfiarsi fino a fargli
quasi scoppiare l’esofago.
«Scorpius, non credo che mi vada di mangiare una
fetta di torta» esalò.
«Non preoccuparti» lo
tranquillizzò Scorpius, scoperchiando la casetta.
«Le
Torte della Strega comprendono una vasta gamma di dolciumi»
estrasse un
biscotto dalla scatola e glielo esibì davanti agli occhi: un
semplicissimo
disco di pastafrolla con qualche goccia di cioccolato ad insaporirlo.
«Alcuni
sono quasi spartani.»
Albus afferrò il biscotto e cominciò
a sgranocchiarlo come un castoro.
Il rimedio di Scorpius, sorprendentemente, riscosse successo: lo
stomaco riprese
la sua posizione nel ventre, felice di tornare alle vecchie mansioni.
Pian
piano Albus recuperò la postura corretta sulla sedia,
diventando più dritto mentre
i biscotti calavano.
«Come ti senti?» volle sapere
Scorpius, quando anche l’ultimo dolcetto
fu spazzolato.
«Meglio» garantì Albus.
Rose sollevò il libro per nascondervi lo
scetticismo che dilagò sul suo viso.
«Mangia anche la strega» lo
consigliò Scorpius.
«La strega si mangia?» si sorprese
Albus.
«E’ fatta di zucchero»
affermò Scorpius. «Devi mangiarla prima che
cominci a sparire. E, se apri la bocca subito dopo averla inghiottita,
sentirai
le ultime parole che vuole dirti.»
Albus allungò la mano alla piccola
fattucchiera, che vi saltò
prontamente sopra.
Quella volta fu una specie di druida grassoccia vestita di
foglie a
raccontargli la novella del giorno:
«La magia orientale è più
esoterica di quella occidentale: in Oriente il
legame con gli spiriti è più forte, e le pratiche
magiche assomigliano ai riti
religiosi, con invocazioni delle divinità e controllo del
loro potere.»
Non appena l’incantatrice ebbe finito di
parlare, Albus se la rovesciò
in bocca.
Attese che la strega si sciogliesse prima di inghiottire e
socchiudere
le labbra come gli aveva detto di fare Scorpius.
«Questo ragazzino è un gran
maleducato!» una voce così acuta da sfiorare
gli ultrasuoni gli uscì dalla bocca, che Albus
tappò immediatamente nell’udire
quelle tonalità stridule e adirate.
«Di solito sono contrariate, quando
parlano» si scusò Scorpius. «Del resto,
le hai appena mangiate.»
La testa di Rose sobbalzò dal contorno del tomo
che stava leggendo, in
un contenimento assai povero di una risata fragorosa: sentire il cugino
parlare
con quella vocetta da gallina l’avrebbe rallegrata per i
prossimi cento anni.
«La prossima volta la faccio
dissolvere» decise Albus, accartocciando la
scatola per buttarla via.
***
Il banco slittò all’indietro di un
centimetro scarso prima che
l’occhiataccia del professore lo freddasse sul posto.
Non era del
tutto sicuro che
Achill Scholz lo avesse effettivamente fissato con riprovazione, ma il
cruccio
solidificato sul viso del docente rendeva impossibile decifrarne le
emozioni.
Achill
Scholz sembrava nato per
insegnare una materia inquietante come Difesa contro le Arti Oscure:
era una
delle persone più spaventose che avessero mai visto nella
loro vita, un gigante
nordico con il volto deturpato da spesse cicatrici e dal grugno
immusonito, e
un paio di mani che avrebbero ribaltato la scrivania di noce di
quell’aula come
uno stampo per budini. Marciava inamidato in un’uniforme
marziale munita di
pesanti stivali con la suola rinforzata, e gli occhi stessi sembravano
pietrificati da una rigida disciplina; quasi non batteva le ciglia nel
parlare.
«Cosa voi sapere di
“golem”?» la classe impiegò
mezzo minuto per capire
che aveva detto “golem” e non
“kolam”.
Rose ebbe modo di sfoggiare le sue conoscenze.
«I golem sono un tipo di evocazione di livello
medio-alto. I punti di
forza e di debolezza della creatura variano in base
all’elemento da cui il mago
ha deciso di plasmarlo» esacerbò.
«Ja,
è questo che insegnano
vostri libri di testo» annuì Scholz, con quel suo
accento che storpiava
“questo” in “kvesto” e
“vostri” in “fostri”.
Albus vide Nott schizzare verso il soffitto e lui stesso
rischiò di
saltare al collo della cugina quando Scholz abbatté i magli
che aveva come
pugni sulla cattedra.
«Nein! In che
era preistorica è
fermo vostro sistema scolastico? Con nozioni così antiquate
primo mago nero che
vede voi vi trasforma in zerbino! E vi usa per lustrarsi
stivali!»
«Ora gli scoppia la carotide» previde
Nott, allarmato dalla ragnatela di
vene pulsanti sul collo teso del professore.
«Tu, forza, in piedi!»
sberciò Scholz in direzione di Albus.
Per un attimo, il ragazzo ebbe l’impressione che
il professore avrebbe
messo in pratica quanto detto precedentemente sui maghi oscuri, e che
lo avrebbe
usato per lucidarsi gli anfibi.
«Tu ti chiama Malfoy?» volle sapere il
docente.
«No signore» lo contraddisse titubante
Albus, aggrappandosi alla sua
bacchetta.
Una “V” seccata si disegnò
tra le sopracciglia del prof quando Scholz
aggrottò la fronte e attaccò:
«E come ti chiama, allora?»
«Potter, signore. Albus Severus
Potter» riferì in un bisbiglio atterrito.
«Tuo nome troppo lungo! Se un alleato in
difficoltà prova a chiamare tu,
tempo di pronunciare tuo primo nome e lui già
morto!» lo redarguì il
professore.
Albus morsicò le labbra, non sapendo bene cosa
rispondere. Non poteva
cambiare il suo nome in ASP solo per salvaguardare eventuali colleghi
moribondi. Sua madre lo avrebbe portato dallo psichiatra se avesse
avanzato una
simile richiesta.
«Dove è Malfoy?»
abbaiò di colpo.
«Sono qui, professore» Scorpius
alzò anche la mano per rendersi più visibile.
«Muove tue secche gambette e viene
qui!» ordinò il docente, puntando il
dito verso i suoi piedi.
Scorpius, a dispetto del tono minaccioso di Scholz,
obbedì tranquillo,
sfilando quasi per raggiungere la cattedra.
La classe
trattenne il respiro per
timore di cosa sarebbe capitato a quei due poveretti, uno arpionato
alla bacchetta
e l’altro che spazzolava metodico la verga con i polpastrelli.
«Cosa sapete voi di golem?»
domandò di nuovo il professore. La prima fila
sobbalzò nel vedere l’insegnante chinarsi ed
estrarre l’asta magica dalla
fondina dentro lo stivale.
«Quello che ha detto Rose Weasley,
signore.»
Quella risposta ottenne il biasimo del professore,
espresso in una
bacchettata sulla testa.
«Impara a pensare con tua
zucca vuota, o presto vedrai fiori da parte di radici»
s’inasprì Scholz mentre
Albus si massaggiava il principio di bernoccolo.
«Ma è così, professore,
sul nostro libro non c’è scritto altro»
Scorpius
arretrò con il collo quando la bacchetta di Scholz gli si
agitò davanti al
naso.
«Se non c’è scritto altro,
allora tu deve cercare altra fonte! Non
limitatevi a studio accademico, ragazzi: il mondo cambia, e i libri
colgono
cambiamenti solo fino a data di loro pubblicazione, poi più!
Non basate vostre
conoscenze solo su biblioteche: imparate da vita!»
A giudicare dall’arricciamento del naso, Rose
non condivideva
quell’opinione: lei era una bibliofila, una di quelle ragazze
che, oltre che
leggere e memorizzare i libri, vi tuffava il naso per sentirne il
profumo. Era
scontato che non approvasse l’avversione del professore per
la carta stampata.
«Magia è cambiata. In bene e in male.
Ora io vi insegna alcune formule
di incantesimi elementali, e voi usa contro golem.»
«Ma le magie elementali sono programma del
terzo…»
«E se enorme golem arriva per mangiare tu? Tu
cosa dici? “Mi spiace,
passi di nuovo tra due anni”? Mostro non aspetta, mostro
mangia!» lo incalzò
Scholz, puntandogli la bacchetta al petto. Albus non osò
nemmeno respirare per
paura di quale incantesimo si sarebbe inciso sul suo sterno al minimo
fiato.
«Ora voi fate attenzione» due possenti
pacche sulle spalle li
costrinsero ad avvicinarsi al professore, che si abbassò
dall’alto dei suoi due
metri per istruirli: «Queste sono
formule…»
Scholz passò loro gli incantesimi con il tono
sottile della spia, e, per
quanto la classe tendesse le orecchie, nessuno riuscì a
carpire nemmeno una
sillaba.
«Ora voi fate vedere che avete
imparato» la bacchetta del prof si mosse
veloce: tracciò un otto dall’alto verso il basso e
puntò esattamente a metà
dello spazio vuoto tra i due studenti: «Golem!»
invocò Scholz.
Albus richiamò tutto il sangue evaporato dallo
sgomento e raddrizzò la
bacchetta per affrontare la bestia che si stava formando davanti a
loro: un
ammasso di roccia emerso dal nulla stava dando vita ad una creatura
umanoide, e
guizzanti lingue di fuoco ruggivano sulle sue braccia.
«Magia moderna fa queste combinazioni: due
elementi su uno stesso golem»
Scholz si accomodò dietro la sua scrivania, e
augurò: «Buona fortuna, ragazzi.»
Albus fece schioccare la lingua contro il palato secco,
cercando di
sfruttare i secondi che ancora li separavano dalla nascita completa
della
creatura. Le sue braccia erano di fuoco, quindi l’elemento
contrario era
l’acqua. E la formula per l’incantesimo
d’acqua…
«Piscis Marinis!»
recitò,
puntando la bacchetta contro il mostro ormai formato. Dalla punta di
legno si
sprigionò un crepitio e, in un lampo bluastro, da essa
scaturì…
«Che diavolo è quella
cosa?» esclamò Rose.
Albus fissò il risultato della sua magia,
trasecolato: un enorme pesce
dalle squame verdognole annaspava sul pavimento dell’aula,
sbatacchiando le
pinne nella misera pozza d’acqua in cui si era materializzato.
«Professore!» si allarmò
Albus, i capelli quasi ritti dallo spavento.
«Se tua magia non funziona, tu usa
testa» il docente si picchiettò una
tempia per rendere più chiaro il concetto.
Ma… ma gli aveva detto lui
che
formula usare, non più di cinque minuti prima!
Non ebbe tempo di maledire l’insegnante,
poiché una lunga lingua di
fiamme gli passò rombando sopra la testa, e Albus dovette
gettarsi a terra per
evitarla.
Con un
muggito atroce, la bestia
calò su di lui entrambi gli arti incendiari; Albus fece
appena in tempo a
rotolare di lato per evitarli: le fiamme gli lambirono appena il
maglione,
effondendo un odore di lana bruciata.
«Così li ammazza!»
strillò Rose.
Albus non riuscì ad udire la replica del prof:
il golem lo aveva preso
in antipatia e continuava a mulinare le braccia nella sua direzione,
mugghiando
come il mare in tempesta.
Il ragazzo
continuò ad arretrare,
alla frenetica ricerca di una strategia da usare contro il mostro,
finché il
muro non sbarrò la sua ritirata.
La bestia spalancò la bocca rocciosa in un
boato assordante, e levò ambo
le braccia come mannaie.
Albus ebbe la certezza, in quel momento, che il golem
ruggente sarebbe
stata l’ultima cosa che avrebbe visto.
Ma il secondogenito dei Potter non ebbe una fine
così ingloriosa.
«Disintegra Mineralia!»
Il golem ebbe un guizzo e si bloccò come se
qualcuno avesse spento il
suo interruttore. Un piede pietroso slittò in avanti, e una
minuscola frana gli
fece crollare gli abbozzati lineamenti del viso. Una dopo
l’altra, le pietre
che lo componevano si sbriciolarono in sassi, che a loro volta si
polverizzarono nel toccare il suolo.
Il petto scosso dalla respirazione accelerata,
accartocciato a terra
poiché le ginocchia erano diventate burro fuso, Albus
fissò con occhi spiritati
la lenta disfatta del golem di cui non rimasero che alcune pietruzze
annerite
dal fuoco.
«Molto bene, Malfoy!» si
complimentò Scholz, rialzandosi dalla cattedra.
«Anche se golem fatto di tanti elementi, basta mirare a
quello centrale per
distruggere lui! Venti punti a Slytherin»
si rigirò di colpo e grugnì: «Ma
ricordate che io vi ha fatti combattere con
golem di basso livello. E molto più piccolo di veri golem.
Un golem serio non
entrerebbe in questa aula!»
Scorpius accettò la stramba lode con un sorriso
e un inchino appena accennato.
Si diresse verso Albus e gli tese la mano.
«Tutto bene?» si premurò,
tirando per sollevarlo in piedi.
Albus annuì, la bocca troppo riarsa per
articolare parola.
«Accidenti, Scorpius!»
enfatizzò Macauley, quando i due si rimisero a
sedere. «Meno male che il prof ti ha insegnato quella
formula!»
Albus aprì il libro e vi annegò con
lo sguardo, imbarazzato.
Non se la
sentiva di dire che, in
realtà, il prof non aveva spiegato loro
quell’incantesimo. Come faceva Scorpius
a conoscerlo?
Sfogliò
una pagina, cercando di
distrarsi, ma la voce della cugina gli risuonò nelle
orecchie.
Come posso fidarmi di chi non
è
sincero?
***
Si portò le ginocchia al petto,
raggomitolandosi sotto le coperte.
Dopo la prima Scholzione, il resto della giornata era
trascorso
pacificamente: la lezione di volo con Barthold Scholz, il minore dei
due, era
giunta a termine senza incidenti, e la cena nella Sala Principale era
stata
piacevole e tranquilla.
Albus sorrise contro il cuscino, accarezzando il piccolo
tesoro che
stringeva al petto. Tornando nella camera, aveva trovato sul letto una
confezione di the e un braccialetto contro la nausea, poggiati su un
foglio
ripiegato. Aveva aperto il biglietto e l’immagine
tridimensionale di un James
assai scontento gli aveva fatto la paternale.
Ricordava
ancora le parole
esatte: “Visto che sei piccolo e sei uno Slytherin
sei stupido, quindi hai bisogno che tuo fratello maggiore Gryffindor ti faccia da balia. Usa il
braccialetto e fatti un the
la prossima volta. Se muori, sarò io a dover raccogliere i
tuoi resti con un
cucchiaino e riportarli a casa!”. Il foglietto si era
autodistrutto non appena
James aveva finito di predicare, stracciandosi in un mucchietto di
coriandoli
che Albus aveva conservato nel cassetto: erano rare le occasioni in cui
l’acido
fratello gli dimostrava un minimo di interessamento, e quelle poche
volte
dovevano essere conservate con cura.
Sorrise
ancora di più,
appallottolandosi sul bottino che premeva sul cuore. Era bello sapere
che
qualcuno vigilava su di lui, anche se era quello scorbutico di James.
«Albus?»
Il ragazzo sollevò la testa dal guanciale,
incerto.
«Albus?» chiamarono ancora.
Accertatosi quel bisbiglio non fosse frutto della sua
immaginazione, il
giovane rispose:
«Sono qui.»
«Sali un attimo.»
«Salire? E come faccio?»
«Metti i piedi sul materasso e aggrappati alle
sbarre» lo istruì
Scorpius.
Perplesso, Albus emerse dalle coperte e vi
appoggiò sopra le preziose
reliquie. Seguendo le istruzioni dell’amico e cercando di non
svegliare Nott
con le sue manovre, riuscì ad inerpicarsi sul secondo piano
del letto a
castello.
«Che c’è?»
chiese, gattonando sulle coltri.
Scorpius sollevò le lenzuola e lo
invitò ad entrare. Impacciato, Albus
zampettò sul letto fino a riuscire a stendersi sotto le
coperte.
Scorpius
afferrò le coltri e
strattonò perché li coprissero fin sopra le
orecchie e solo allora cominciò a
parlare.
«Cosa ne pensi della Scholzione?»
Albus strizzò gli occhi, ma, anche
così, il volto dell’amico rimase una
sagoma fuligginosa, di cui distingueva appena i contorni su cui si
appoggiavano
le coperte.
«E’ andata bene. Nessuno è
caduto dalla scopa» vagliò.
«No, dicevo la prima»
specificò Scorpius.
Albus rabbrividì. Sentiva che una nuova fobia
si era aggiunta a quella
per i ragni: la
braccia-di-golem-infuriato-che-ti-passano-a-un-millimetro-dalla-testa-fobia.
«Mi hai salvato» stabilì
Albus.
«Non ti è sembrato…
strano, quell’incantesimo?» Scorpius
tentennò appena
un secondo prima di affibbiare un aggettivo alla sua magia. Ma Albus
coniò una
definizione migliore:
«Più che strano, direi
provvidenziale. Altrimenti, a quest’ora sarei un
mucchietto di cenere. Con gli occhi verdi e i capelli scuri»
completò.
«Che orrore!» Scorpius si finse
stomacato, ma nella sua voce c’era un
eco di risata troppo distinguibile perché la farsa reggesse.
Ridacchiarono
entrambi sull’idea
di un mucchio di polvere semovente e parlante con un ciuffo di capelli
corvini
e due globi verdi per occhi, ma lo fecero a labbra strette per non
svegliare
Nott.
Scorpius
passò un dito sotto
l’occhio per asciugare una goccia di risata e
respirò a fondo per riprendersi.
Rimase qualche istante in silenzio, il sorriso che pian piano
svaporava. Poi
confessò a voce bassa
«E’ stato il primo incantesimo che ho
visto fare a mio padre.»
«Davvero?»
s’incuriosì Albus.
Le coperte si tesero in sincrono con l’annuire
di Scorpius.
«Avevo… quattro o cinque anni
all’epoca» conteggiò Scorpius.
«E mi era
sembrata una magia strabiliante. Così ho voluto
provarla» si avvicinò, con una
mano a lato della bocca, per sussurrare in direzione del suo orecchio:
«Non
c’era un singolo sasso nel giardino di casa Malfoy,
perché li frantumavo tutti
quanti.»
«Usavi le bacchette MiniMago?»
s’interessò Albus.
Il Ministero della Magia, una decina di anni prima, aveva
approvato il
commercio di queste verghe per il settore dell’infanzia:
erano riproduzioni in
miniatura di una vera bacchetta, tarate in modo da non permettere
l’afflusso di
magia entro un certo limite. Era una misura necessaria per garantire la
sicurezza del piccino e della sua famiglia, e per evitare che lattanti
troppo
dotati appiccassero il fuoco alle loro stesse abitazioni.
«Proprio quelle» comprovò
Scorpius. «Non avevo mai distrutto qualcosa di
più grande di un sasso» ammise, sistemando dietro
l’orecchio un ciuffo biondo
troppo cresciuto. «Ma oggi… penso che lo spavento
abbia fatto da carburante.»
Scese di
nuovo un velo di
silenzio imbarazzato, strappato per la seconda volta da Scorpius.
«Grazie per non aver detto agli altri che il
professore non ci aveva
insegnato quella magia.»
«Perché mi ringrazi?»
Scorpius masticò il proprio labbro e
gettò fuori, riluttante:
«Sai quello che si dice della mia
famiglia…»
Sì, lo sapeva. Tutti lo sapevano. Se Harry
Potter era il sole del mondo
magico, Draco Malfoy era l’eclisse,
nell’immaginario comune. “Tale padre tale
figlio”, “un albero cattivo non può fare
frutti buoni” e altri proverbi simili
avevano fatto in modo che la fama del padre trasmigrasse nel figlio.
A casa
Potter, però, si
raccontava una storia diversa: durante le riunioni di famiglia, anche
se zio
Ron calcava la mano su “quanto era snob Draco
Malfoy”, zia Hermione, da
consumata avvocatessa che era stata, ne prendeva le difese: era vero
che Malfoy
era stato un Mangiamorte, ma solo perché si era trovato
incastrato in un
meccanismo più grande di lui, e non era riuscito ad uscirne.
Albus non se
la sentiva di condannare
del tutto l’operato di Draco: il padre era un seguace del
Signore Oscuro, per
cui lui stesso si era ritrovato in quelle schiere infernali. E, una
volta lì,
si era mosso per salvare la propria vita e quella della sua famiglia.
Non lo
vedeva come un personaggio negativo: diventato Mangiamorte per
costrizione,
aveva cercato di difendere quello che poteva.
Non lo
accusava di vigliaccheria
come molti facevano con leggerezza: doveva amare la sua vita
più dellidea di
andare ad ingrossare la lista di caduti per mano di Voldemort. Come
biasimarlo?
Forse lui avrebbe fatto lo stesso.
«Io penso che tuo padre non abbia agito
male» dichiarò.
Gli occhi grigi di Scorpius scintillarono
nell’oscurità, alzandosi su di
lui.
«Davvero?»
Albus annuì. A suo parere, Malfoy non era un
traditore spietato, ma un
eroe frainteso.
Il silenzio
si gonfiò di nuovo
tra di loro, e questa volta fu Albus a spezzarlo:
«Comunque, se ripenso al prof Scholz,
quel… quel terrorista! Voleva
ammazzarci per caso?» sibilò irato: sarebbero
passati eoni prima che riuscisse
a perdonare il professore di averlo fatto quasi uccidere da una
bestiaccia di
fuoco e fango. «Giuro che non scenderò
più a lezione di Difesa prima di essermi
letto tutti i libri!»
«Ma le biblioteche non ti insegnano nulla, non
lo sai?» lo prese in giro
Scorpus.
«Tu no impara da libri, impara da
vita!» sillabò Albus, scimmiottando il
duro accento del prof. «Così io prossima volta ti
fa evocare girino contro
licantropo, ja!»
Affogarono
entrambi nel cuscino
per controllare l’accesso di riso che gli agitava le spalle e
gli inumidiva gli
occhi.
«Hai talento per le imitazioni»
annaspò Scorpius, sopravvissuto
all’attacco di ilarità. Albus impiegò
qualche secondo in più a sistemare la
mascella in sede.
«Voglio farti vedere una cosa»
esordì di colpo Scorpius. Strisciò fuori
dal tunnel di coperte, trafficò per un attimo sulla mensola
accanto al letto e
scivolò di nuovo nell’intrico di lenzuola con una
scatola quadrata tra le dita.
«Che cos’è?»
chiese Albus.
Con gesti da prestigiatore, Albus sciolse il nastro e
scoperchiò la
confezione. Una distesa fragrante di cioccolatini variegati si
scoprì in un
effluvio di aromi speziati.
«Che tipo di cioccolata è?»
investigò: non aveva dimenticato
l’esperienza con l’unicorno.
«Semplice cioccolata babbana» lo
tranquillizzò Scorpius. «Non posso
farla arrivare in Sala Principale. Sai le pernacchie se si scopre che
un Malfoy
è ghiotto di pasticceria comune?»
In effetti,
nonno e papà Malfoy
erano stati convinti assertori della necessità di mantenere
il sangue magico
puro. Chissà che shock
quando avevano
scoperto che al loro successore scintillavano gli occhi davanti ai
negozi
dolciari babbani.
«Me ne spediscono solo una scatola
all’anno» disse infatti Scorpius,
mordendosi le guance per non ridere. Ricordava ancora la scena in cui,
per la
prima volta, aveva chiesto al padre di comprargli un po’ di
cioccolato. Draco era
diventato quasi viola mentre cercava di forzarsi ad entrare in un
negozio
gestito da babbani. Poi si era arreso e, con uno sbuffo, aveva chiesto
alla
moglie di assecondare il pupo. Non poteva dimenticare la contrizione
del padre
mentre attendeva con il figlio fuori dalla pasticceria: aveva scritto
in faccia
a chiare lettere “dove ho sbagliato
nell’educarlo?”. E non poteva dimenticare
nemmeno il baluginio di sorriso che gli aveva rilassato il volto quando
aveva
visto il suo erede assaggiare un cioccolatino tutto festante.
Non era
facile capire suo padre,
e suo padre non riusciva a capire del tutto il figlio. Ma entrambi
compivano
sforzi nella direzione dell’altro, e questo bastava.
«Assaggiane uno» lo incitò,
allungandogli la scatola.
«Ma hai detto che te li spediscono solo una
volta all’anno…» si
sottrasse Albus. «E poi mi sono già lavato i
denti…»
«Non ti marciranno i denti per un cioccolatino.
Coraggio» lo incalzò
l’altro.
Di nuovo
quel tono che discordava
con l’aspetto da damerino di Scorpius.
Albus
cedette all’amico, e si
servì di un dolcetto cosparso di granella di nocciole.
Capì subito perché a
Scorpius piacessero tanto: la mano del pasticcere esperto era
rintracciabile
nella consistenza morbida del cioccolato e nel gusto ricco del ripieno
che si
spandeva sulla lingua.
«Sono squisiti!» gioì,
gustandosi gli ultimi echi della leccornia.
«Sono i migliori» trionfò
Scorpius, assaggiandone uno a sua volta.
«Grazie» mormorò Albus.
Attese che anche l’amico avesse finito di
masticare e stabilì: «Dovrei tornare a letto,
credo.»
Scavarono entrambi per tornare in superficie, e Albus si
districò dalle
lenzuola mentre Scorpius riponeva il cofanetto.
«Buonanotte, Scorpius»
augurò Albus, scendendo nel suo giaciglio.
«A domani» lo salutò
l’altro.
Si infilò sotto le sue coperte, soddisfatto
della prelibatezza di cioccolato
e del dialogo con l’amico.
La cugina
aveva torto: Scorpius
era un bravo ragazzo, come pensava lui.
Si
accoccolò sul materasso e
chiuse gli occhi in attesa del sonno.
Li
riaprì quasi immediatamente:
un tonfo sordo e un pesante fruscio, come di un corpo trascinato, lo
destarono.
Appoggiò i gomiti sul cuscino e protese il capo verso il
soffitto, in attesa.
L’indecifrabile rumore si ripeté e, sforzandosi al
massimo, riuscì a captare
uno spiaccichio sommesso di sottofondo e un raspare di gola, una specie
di
basso ringhio animalesco.
«Scorpius?» lo chiamò,
allarmato. «Scorpius, hai sentito?»
Dal letto superiore non venne suono. Il piccolo Malfoy
aveva meno
problemi di lui a combattere l’insonnia.
Restò ancora sollevato, in allerta, pronto a
scattare al minimo rumore.
Solo dopo un prolungato silenzio i suoi muscoli cominciarono a
rilassarsi, e
gli fu possibile tornare a stendersi sotto le coperte.
Stese un braccio al di fuori delle coltri e
afferrò la bacchetta, che
nascose sotto il cuscino.
Qualunque cosa avesse udito, non lo avrebbe trovato
impreparato. Restò a
lungo sotto le coperte, stringendo spasmodicamente la bacchetta, i
nervi
tremanti per l’agitazione. Dopo un lungo ed estenuante turno
di vigilanza lo
stress e la stanchezza ebbero il sopravvento, ed un sonno profondo lo
avviluppò
nelle sue spire.
Albus avrebbe dormito sonni tranquilli.
Per quella notte, almeno.
E dal prossimo capitol cominciano i guai xD
Il Cercapersone e Achill Scholz sono anche loro prodotti made in RedDiablo ^^
Grazie a tutti<3<3<3
Red