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Autore: HamletRedDiablo    16/02/2012    3 recensioni
Al primo anno di Hogwarts, Albus Severus Potter aveva sperato in una tranquilla vita scolastica.
Al quarto anno, la sua utopia si era incrinata. Al settimo, era crollata definitivamente.
Ognuno sarà chiamato a combattere per evitare il definitivo crollo dei pilastri del mondo magico. Chi per riscattare il nome del casato, chi per non disonorare la famiglia, chi per dare prova del proprio coraggio: mille bacchette si leveranno sotto un unico simbolo.
Tuttavia...
"Non era necessario cercare nemici epocali per finire invischiati in un mare di guai. Bastava innamorarsi."
[AlbusScorpius, RoseNuovoPersonaggio]
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Albus Severus Potter, Nuovo personaggio, Rose Weasley, Scorpius Malfoy | Coppie: Albus Severus Potter/Scorpius Malfoy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione, Da Epilogo alternativo
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2

Vita Scolastica

 

 

 

   Per diventare parte della propria Casa era necessario vivere il suo spirito in ogni istante della giornata.

Per questo, nel momento in cui il Cappello aveva decretato le rispettive appartenenze, i loro vestiti erano magicamente mutati: gli indumenti che erano stati esplicitamente richiesti bianchi – alcune sciarpe e cravatte – ora vantavano lucenti strisce verdi e argentee, e su tutto il resto del vestiario si era concretizzato il simbolo degli Slytherin.

Su tutto. Proprio tutto.

Queste furono le considerazioni di Albus quando, uscendo dalla doccia, gettò uno sguardo sulla sua biancheria. Poteva accettare l’emblema della Casa sulla canottiera, ma le mutande con il simbolo serpentino sfioravano l’eresia.

Avrebbe voluto sapere il nome del burlone che aveva ideato quello scherzetto. Non riusciva a conciliare l’idea della Mc Granitt, la loro integerrima condottiera, con quella di un buontempone dedito alla personalizzazione dell’intimo altrui.

   Finì di asciugarsi e cominciò a vestirsi, e lì ebbe inizio la seconda riflessione della mattina: la tunica che avevano indossato il primo giorno era stata rimpiazzata da una divisa scolastica più moderna. Lo sguardo di Nott non era stato dei più incoraggianti quando gli aveva chiesto perché dovessero sostituire la veste nera. «Ci fanno indossare quelle palandrane solo il primo giorno. È una specie di rito, visto che per secoli i maghi hanno vestito così. Un tributo, per meglio dire. Ma, finita la commemorazione, ci danno le vere divise» gli aveva spiegato.

Albus allacciò la fibbia dei pantaloni e procedette nell’abbottonatura della camicia. Secondo lui, comunque, la tunica tenebrosa aveva tutto un altro fascino rispetto al completo “contemporaneo”.

   Stava allacciando la cravatta quando Scorpius lo chiamò dalla stanza:

   «Albus, ti stanno…»

   «Spiega a questo stupido aggeggio che non sono il suo padrone, che Piton lo strafulmini!» starnazzò Macauley, vagamente isterico.

   Albus si gettò fuori dalla porta del bagno, incurante dei capelli ancora umidicci che cominciavano a formare un alone scuro sul colletto.

E finalmente capì quale fosse il motivo dell’agitazione di Nott.

Qualcuno lo stava chiamando al Cercapersone.

Nel mondo dei maghi, il Cercapersone non si limitava a squillare come un normale cellulare: quando riceveva un messaggio o una telefonata, il Cercapersone sguainava un paio di gambette metalliche e scorrazzava in giro alla ricerca del destinatario. Gli stregoni avevano adottato la tecnologia babbana per la sua indubbia praticità, ma avevano voluto aggiungere un tocco personale al tutto.

Albus si mordicchiò l’unghia dell’indice, imbarazzato: non aveva detto ai suoi genitori che il suo Cercapersone era rotolato giù per le scale. E caduto dal terrazzo. E finito in lavatrice. In realtà, era un miracolo che fosse sopravvissuto all’estate: forse gli oggetti incantati erano più tenaci di quelli comuni. Ma tutti quegli urti non lo avevano comunque lasciato illeso: ora il suo Cercapersone identificava come suo possessore la prima persona che vedeva, un po’ come le paperelle che etichettavano come mamma la prima cosa con le zampe rossicce che passava loro davanti, anche un umano in stivali da pioggia.

Quella mattina, la “mamma” del suo cercapersone era Macauley.

Era piuttosto buffo vedere un ragazzino di undici anni inerpicato su una sedia con la bacchetta spianata e gli occhi strabuzzati, attaccato da una temibile agendina elettronica che continuava a sbatacchiare sulle gambe della seggiola. Un elefante terrorizzato da un topo avrebbe fatto la stessa impressione.

   «Scusami Macauley» Albus corse in suo aiuto recuperando il Cercapersone, che continuò a zampettare a vuoto nell’aria. «Ti sei spaventato?»

   «Rispondi e porta quella diavoleria lontana da me!» sbottò lui, rinfoderando la bacchetta. «Non ti sei asciugato bene i capelli» lo rimproverò nello scendere dalla sedia.

   «Dovevo rispondere» replicò Albus. Si slanciò all’improvviso in avanti per tenere fermo il Cercapersone, ancora convinto di appartenere a Nott. Quella scatoletta aveva la forza di un Minotauro.

   «Se ti viene il raffreddore, dovrai starmi a dieci metri di distanza» lo ammonì Macauley, rifugiatosi dietro la sedia per sfuggire alla perseveranza del diabolico marchingegno.

   «Ma Macauley, siamo in stanza insieme…»

   «Dieci, ho detto!»

   L’Albus mentale roteò gli occhi con un sonoro sospiro mentre l’Albus reale annuì e si ritirò a sedere sul suo letto per rispondere alla chiamata.

   Scorpius si era mantenuto totalmente neutrale alla faccenda: aveva nascosto qualunque esternazione, fosse un sorriso o una smorfia, dietro lo scudo di un libro, e aveva continuato la lettura tranquillo come se nulla stesse accadendo.

   Il minore dei Potter osservò per un attimo il colore del suo Cercapersone. I maghi avevano voluto dare un ennesimo tocco stravagante alla loro rivisitazione della tecnologia; avevano riprodotto nel Cercapersone le funzioni di un telefono cellulare e l’estetica di un’agendina elettronica, con una sfiziosa novità: il coperchio metallico variava la propria tinta in base all’umore di chi stava chiamando. Dalla tonalità azzurra appena intaccata da un’ametista pallido Albus capì che il mittente era fondamentalmente sereno, ma con una punta di agitazione.

   Sollevò il coperchio e diede inizio alla comunicazione.

   «Albus! Come è andata la prima settimana di lezioni?»

   «Mamma, mi hai chiamato ieri sera. Lo sai come è andata» rispose serafico lui.

   L’apprensione di sua madre era da Torneo TreMaghi, ma la dolcezza con cui si preoccupava per lui era troppo genuina per inacidirlo: non era mai accaduto, nella storia della famiglia Potter, che la prole si fosse mostrata villana con Ginny.

   «Hai dormito bene?»

   «Sì.»

   «Oggi hai molte lezioni?»

   «Ho Trasfigurazione subito dopo mangiato. E poi abbiamo le “Scholzioni” nel pomeriggio» elencò Albus.

   «Le cosa?»

   «Difesa contro le Arti Oscure e Volo» si riprese lui.

   Dall’anno precedente, Hogwarts vantava due professori tedeschi tra le file dei propri docenti, i cosiddetti “fratelli teutonici”. Poiché di cognome facevano Scholz, gli studenti chiamavano “Scholzioni” le loro ore, nomignolo che si guardavano bene dall’usare in presenza dei due insegnanti, che non avrebbero gradito. Per meglio precisare, forse il minore si sarebbe messo a ridere e gli avrebbe perfino offerto una Burrobirra per la fantasia, ma il maggiore non avrebbe di certo apprezzato l’umorismo. Meglio essere cauti con quel mastino di Achill Scholz.

   «Non ti sei asciugato i capelli» notò lei.

   Nott estrasse la bacchetta e, facendo uscire dalla punta un filo di fumo, vergò una frase nell’aria: “tua madre è una santa”.

   «Stavo per farlo quando mi hai chiamato» si giustificò Albus.

   «Allora ti saluto. Non voglio che ti ammali.»

   Macauley picchiettò due parole perché si allontanassero tra di loro e fece un’aggiunta nello spazio appena liberato: “tua madre è davvero una santa”.

   Albus salutò Ginny e chiuse l’agenda, che venne poi riposta nel cassetto del comodino; ancora non capiva come facesse ad aprirlo da sola con quelle zampette microbiche.

   «Perché mia madre sarebbe una santa?» domandò, avviandosi verso il bagno.

   «Perché impedisce ai tuoi pericolosi germi di bivaccare in questa stanza» lo delucidò Nott.

   «Non mi sono ancora ammalato!» protestò l’altro.

   «E’ meglio se ti asciughi i capelli, Albus» intervenne Scorpius, accompagnato dallo sfogliare del libro.

   «E se i tuoi bacilli sono testardi come te, contagerai tutta Hogwarts» quantificò Macauley.

   «Non sono testardo» si oppose Albus.

   «Sì che lo sei.»

   «Non lo sono.»

   «Però ti ostini a negare di essere testardo.»

   «No, sono tenace nell’affermare di non esserlo.»

   «Non cambia molto.»

   «La tenacia è una virtù, la testardaggine un vizio.»

   «Macauley, ha vinto lui» sancì Scorpius, appoggiando finalmente il tomo e sporgendosi dal letto per fissare i due contendenti. «Rassegnati. E lascialo andare ad asciugarsi i capelli, se proprio temi l’epidemia.»

   Nello spartito dei discorsi di Scorpius ogni tanto apparivano delle note discordanti. In quei sette giorni di conoscenza, Albus si era ritagliato un’ideale del suo compagno di stanza: si sedeva sempre accanto a lui, a lezione e nella Sala Principale, non si era mai mostrato scortese con nessuno e studiava con particolare impegno, tanto da suscitare lo spirito competitivo di Rose. Eppure, alcune volte quell’immagine di studente modello vacillava, come un equilibrista che perde l’assetto per qualche secondo. Era un baluginio di un istante, un tentennamento appena intravisto, prima che lo Scorpius di sempre riprendesse il sopravvento.

   I suoi pensieri si dissiparono per un rumore di artigli contro la finestra. E ancor più dall’invettiva di Macauley:

   «Cos’è quel mostro

   «Il mio gufo» lo liquidò Scorpius.

   Albus fissò il rapace che attendeva al di là del vetro: era un esemplare piuttosto grosso, rispetto alla media, con un piumaggio bianchissimo appena macchiato da alcune ombre marroncine.

   «Non vorrai farlo entrare?» inorridì Nott.

   «Se è arrivato fin qui, vuol dire che ha qualcosa da consegnarmi» si difese Scorpius, avvicinandosi alla finestra.

   «Ma perché non fai come Albus e non ti prendi un Cercapersone? Non impazzito, possibilmente.» Albus arginò bruscamente l’onda di simpatia che aveva provato per Nott: era stato stupido pensare che Macauley fosse in grado di fare un complimento.

   «Perché dovrei?»

   «Perché un’agenda non perde le piume, non porta malattie e non caccia schifezze che gozzovigliano nel sottosuolo» sciorinò Macauley.

   «Il mio gufo è addestrato. Non fa niente di tutto questo» ribatté Scorpius. E aprì la finestra.

   Nott corse ai ripari infilandosi prontamente la mascherina, mentre Albus si allungò verso il letto del compagno per vedere meglio il rapace appollaiato docilmente sul suo braccio.

   «Di che razza è?» s’informò, incantato dalle piume immacolate.

   «E’ un gufo delle nevi» illustrò Scorpius, solleticando un’ala all’uccello perché l’aprisse. «Ha il piumaggio ancora un po’ scuro perché è un esemplare giovane» gli indicò le imperfezioni marroni. «Quando crescerà sarà completamente bianco.»

   «Almeno sei abbastanza civile da non far atterrare il tuo piccione in Sala Comune» rumoreggiò Macauley da un angolo della stanza.

   Albus strinse le labbra per soffocare un risolino: la faccia schifata di Nott quando gli uccelli di alcuni studenti planavano sulle tavole imbandite poteva essere paragonata a quella di un ogre che vede un tutù da danza classica. “Arma batteriologica di massa”, li aveva definiti. Probabilmente i nervi e le difese immunitarie dell’amico non avrebbero retto se le abitudini fossero rimaste immutate rispetto a venti anni prima: ormai erano sempre di più gli studenti che si affidavano all’elettronica e sempre meno i pennuti che sorvolavano le mense di Hogwarts.

   «E’ un gufo, non un piccione» si premurò di precisare Scorpius, tirando il nastro che legava un pacchetto alla zampa dell’uccello.

   «Come mai non lo fai atterrare con tutti gli altri?» considerò Albus.

   «Perché lui non è un troglodita» rispose in sua vece Nott. «Tuttavia, se fosse davvero evoluto, lo farebbe appollaiare da qualche altra parte.»

   «E dove?» replicò signorile Scorpius.

   Alcuni colpi sbarazzini alla porta interruppero la loro discussione.

   «Ragazzi? Siete pronti?» gorgheggiarono delle voci al di là del legno.

   Quell’anno a Slytherin erano stati assegnati tre maschi e ben sette femmine; per compensare, Ravenclaw contava due deliziose fanciulle e nove pargoli.

Le Slytherin si erano dimostrate molto socievoli nei loro confronti e, per cementare il legame tra le “matricole serpentine”, avevano proposto di scendere sempre tutti assieme per la colazione. Il rituale prevedeva anche il commiato della buonanotte e l’obbligo, per loro tre, di cedere il passo alle femmine nell’entrare in una stanza. Non era ben chiaro perché l’ultima regola dovesse saldare i rapporti personali, ma l’avevano accettata con un’alzata di spalle.

Per essere esatti, Scorpius e Albus avevano concordato con quel buffo galateo. Macauley si era dimostrato un poco recalcitrante.

   «Sono di nuovo qui, quegli untori in gonnella» si risentì infatti.

   «Macauley, non essere sgarbato» lo calmò Scorpius, aprendo la finestra per far uscire il gufo.

   «Sono obiettivo» si giustificò lui. «Ti ficcano quelle unghie smaltate ovunque per farti il solletico. E i baci, poi. Quello schioccare di saliva sulle guance» Nott buttò fuori la lingua come per un conato, per evidenziare la sua misoginia.

   «Non possiamo restare rintanati tutto il giorno» comunicò Scorpius. Scavalcò con le gambe il bordo del letto ed atterrò con un tonfo smorzato sul pavimento. «E siamo già in ritardo per la colazione.»

   Il sospiro snervato di Macauley uscì molto simile a “stormo di invasate”, ma si aggiunse comunque ai suoi compagni nell’apertura della porta.

   «Oh, finalmente!» li salutò Cenerentola.

   «Pensavamo non vi foste svegliati affatto» proseguì Lentiggine.

   Si sarebbero certamente infuriate se avessero saputo dei soprannomi che avevano loro affibbiato, ma non lo avevano fatto con cattiveria: una settimana non bastava per ricordarsi i nomi di tutto l’istituto. Scorpius era quello vagamente più fisionomista di loro tre, ed anche lui si trovava in difficoltà; Nott non si impegnava nemmeno: per lui erano tutte portatrici di germi.

I nomignoli erano opera di Albus: Cenerentola si era guadagnata il suo pseudonimo per la propensione a raccogliere i capelli biondi in un fiocco azzurro, e Lentiggine per le efelidi che le punteggiavano il nasino alla francese. Gli epiteti proposti da Nott erano stati scartati per ovvie ragioni.

   «Albus, non ti sei asciugato i capelli!» notò Fiamma, caratterizzata dai capelli rossi.

   L’interessato arricciò le labbra, scuotendo il capo. Possibile che il mondo dovesse focalizzarsi sullo stato della sua chioma?

   «Oh, che carino!» cinguettò Cenerentola, avvolgendolo in un abbraccio e guadagnandosi così lo sdegno di Nott: il contatto fisico era il primo veicolo di contagio.

   «Assomiglia a mio fratello minore» pigolò Fiamma, unendosi alla stretta, e Albus poté sperimentare l’emozione del prosciutto pressato tra due fette di sandwich. Per una qualche ragione a lui ignota, tutte le ragazze di Slytherin lo trovavano adorabile, e cercavano ogni scusa possibile per coccolarlo. Avrebbe preferito che non lo facessero: era imbarazzante sentirsi soffocare da un abbraccio perché la sua statura non raggiungeva quella della maggior parte delle femmine della sua Casa.

   «Non dovresti andare in giro così, ti prenderai un raffreddore» si impensierì Lentiggine.

   «E’ quello che gli ho detto anche io» si indignò Macauley.

   «Oh, Nott, se anche tu vuoi un po’ di attenzioni basta chiedere» vocalizzò Lentiggine, avvicinandosi a lui.

   «Prima che tu faccia un altro passo ricorda: ho una bacchetta» minacciò Macauley e, nel dirlo, infilò una mano nel mantello.

   «Nott, non vorrai lanciarmi uno Schiantesimo, vero?» si allibì lei.

   «Mantieni una distanza di sicurezza» le suggerì Macauley.

   «Siamo in ritardo per la colazione» ricordò Scorpius a tutti quanti, prima che Lentiggine facesse un altro passo e Nott… solo il cielo sapeva come avrebbe potuto reagire Nott alla vicinanza di una pericolosa fonte di agenti patogeni.

   «Andiamo» decretarono le ragazze, portandosi via il piccolo Potter come trofeo da viziare. Albus si voltò disperato e vide la riprovazione di Nott e l’enigmatico sorrisetto di Scorpius. E nessuna traccia di cameratismo o comprensione.

   Chissà come avrebbe reagito sua madre se gli avesse raccontato tutti i dettagli della vita ad Hogwarts.

 

***

 

   Aveva temuto seriamente di rivedere la sua colazione.

   La Eeriemay aveva svolto la sua lezione di Trasfigurazione ben fasciata da uno dei suoi vistosi completi, inadeguati all’insegnamento di giovani menti che si avviavano alla tempesta ormonale.

 Ma non era stato l’abbigliamento succinto della prof a sconvolgere il suo stomaco.

La donna aveva portato in classe un enorme sacco e aveva distribuito il contenuto tra gli alunni, raggiante come una bambina a Natale.

Albus non pensava che una femmina potesse toccare qualcosa di simile senza urlare. Lui non avrebbe mai toccato qualcosa di simile senza urlare.

Ragni. La Eeriemay aveva portato dei grossi, enormi, pelosi, schifosi ragni.

   «Cambiategli colore, ragazzi. E usate l’immaginazione» cantilenò zuccherosa, accavallando le gambe sulla scrivania; la parte maschile dell’aula fu distratta per la successiva mezz’ora, e i ragni cominciarono ad aggirarsi in libertà.

   Albus aveva allontanato istintivamente la sedia dal banco, finendo quasi in braccio Rose, seduta dietro di lui. La cugina aveva immobilizzato il suo aracnide con un colpo di bacchetta e una freddezza micidiale, dopodiché si era picchiettata la punta dell’asticella sulle labbra alla ricerca di un’idea innovativa. Scorpius aveva tracciato un cerchio con la verga sottile attorno al ragno, intrappolandolo in una circonferenza argentata, e aveva cominciato a ripetere tra sé la formula che la professoressa aveva appena spiegato per testare gli accenti corretti. Nott aveva stordito la sua bestia spruzzandole uno spray addosso, ed il ragno si era afflosciato in uno stato comatoso mentre il ragazzo si muniva di maschera e guanti di lattice prima di proseguire.

Albus aveva passato qualche interminabile minuto in un’imbarazzante rappresentazione in cui lui avvicinava le mani al ragno, quello sollevava le zampe, o le ganasce, o quello che erano per attaccare e lui che ritraeva le dita. Poi lui le avvicinava di nuovo e il copione si ripeteva.

Stava per schiacciarlo sotto il libro di Trasfigurazione in preda all’esasperazione e allo schifo, quando una bacchetta era saettata verso di lui e aveva rinchiuso l’aracnide in una circonferenza argentea.

   «Grazie Scorpius» aveva mormorato, con voce traballante per la nausea.

   Il compagno aveva mosso appena la mano per fargli capire di non sentirsi in debito, e aveva ricominciato a lavorare al suo ragno.

   Alla fine della lezione, ognuno aveva tentato di fare del suo meglio. Si potevano vedere ragni rossi, verdi, gialli, a strisce, a fiori, a pois. Ma restavano comunque disgustosi aracnidi ottozamputi.

I loro sforzi avevano fruttato una decina di punti per Ravenclaw e venti per Slytherin: la Eeriemay era rimasta favorevolmente impressionata dalla tinta omogenea che erano riusciti a stendere magicamente sui ragni, e aveva molto gradito la fantasia a farfalle adottata da Rose.

Ma Albus non era riuscito a rallegrarsi troppo per quella vittoria: le sue guance avevano lo stesso colore del suo maglione, e il suo stomaco si era arrampicato in una posizione imprecisata tra la gola e il cuore.

Non avrebbe mai più passato un solo secondo della sua vita in compagnia dello zio Ron quando era in vena di raccontargli storie dell’orrore sui ragni: era principalmente colpa sua se era diventato aracnofobo.

   «Forse Macauley ha un antiemetico…» valutò Scorpius quando il pallore di Albus si avvicinò a quello del primo stadio di rigor mortis.

   Albus fece perno sul mento e roteò la testa in cenno di diniego, per poi schiantare la fronte sul tavolo: era bastato quel semplice movimento per fargli sentire sul palato il sapore della bile.

   «Tu ascolti troppo le favole di mio padre» lo rimproverò Rose. «E poi, cosa può farti un ragno? E’ un animale stupido. Puoi bloccarlo con un colpo di bacchetta, o schiacciarlo con una scarpa.»

   Albus sollevò un palmo in segno di resa.

   «Rose, ti prego. Non vorrei sporcarti la divisa» rantolò Albus.

   «Sei senza speranza» si rabbonì la cugina, carezzandogli affettuosa i capelli corvini.

   «Forse staresti meglio se mangiassi qualcosa» si offrì Scorpius.

   Albus mandò un lamento incomprensibile, che il compagno interpretò come un assenso.

   «Fraternizzi ancora con lui?» ringhiò Rose, quando Scorpius sparì oltre lo stipite della porta.

   «Ancora non ti convince?» boccheggiò Albus.

   Pensava che la cugina si fosse finalmente ricreduta su Scorpius: era dall’inizio della scuola che si trovavano tutti insieme a studiare nelle aule di lettura di Hogwarts. Tutti a parte Nott, che preferiva ripassare le lezioni al sicuro nella loro camera. Inoltre, quel giorno Scorpius si era dimostrato particolarmente altruista, aiutandolo a non rovinare per terra nel tragitto dall’aula alla sala studio.

Ma, nonostante il comportamento di Scorpius fosse irreprensibile, il muro di diffidenza della cugina non era ancora crollato.

   «Sembra sempre che voglia nascondere qualcosa» inquisì infatti.

   «Rose, ognuno di noi ha qualcosa che non vuole rivelare. Magari ce ne parlerà lui stesso quando ci conosceremo meglio» agonizzò Albus.

   «Quel giorno mi ricrederò» pontificò lei.

   Albus riuscì ad appoggiare faticosamente la testa sulle braccia abbandonate sul tavolo.

   «Dovrei farti conoscere Nott. Sono certo che andreste d’accordo» stramazzò lui. Li immaginava già, Macauley che spargeva disinfettante tutto intorno e Rose che lo fissava con sospetto da dietro la costola di un libro.

   «Non pensavo che la Eeriemay fosse così brava con le trasfigurazioni» ponderò a voce alta Albus, per cambiare discorso.

   «Buon sangue non mente» chiarì Rose. «E’ la nipote della nostra preside, dopotutto.»

   La testa di Albus scattò verso l’alto, e si accasciò il secondo successivo: meglio non tentare manovre troppo avventate con l’apparato digerente in sciopero.

   «La Eeriemay… nipote della McGranitt?» tartagliò, annichilito.

   «Mi pare che la preside sia la sorella di sua madre» citò Rose, punzecchiandosi il mento con il tappo della penna.

Era impossibile che quelle due avessero del sangue in comune, assolutamente impossibile. Albus non le riusciva a pensare neppure come vicine di posto a mensa, figurarsi come parenti! Erano il diavolo e l’acqua santa, il nero e il bianco, il gatto e il cane, Lord Voldemort e suo padre!

Impiegò qualche minuto prima che il suo stomaco debilitato assorbisse la notizia. Se non altro aveva capito chi gli avesse apposto il simbolo della Casa anche sulle mutande.

   «Non è un caso se gli studenti più anziani dicono che la Eeriemay abbia avuto il posto grazie alle raccomandazioni» menzionò Rose.

   «A me ha fatto una buona impressione come insegnante» s’impermalì Albus.

   «Ha un abbigliamento sconveniente.»

   «E’ comunque un’ottima maga.»

   «Albus, non ragionare con organi lontani dal cervello.»

   «Che intendi dire?»

   Ogni possibile risposta aspra le appassì sulle labbra: quando il cugino la fissava con quegli occhioni verdi da cerbiatto spaurito le sue armi retoriche si arrugginivano.

   «Beata innocenza» sospirò, assestandogli alcune pacche sulla testa e smettendo nel momento in cui il verde sulle guance del consanguineo si fece più intenso. «Comunque, ha fatto solo due lezioni, e noi siamo dei principianti. E’ troppo presto per decidere se sia una buona insegnante o meno. Rimandiamo il giudizio a quando la conosceremo meglio.»

   «Lo farai anche con Scorpius?»

   La cugina ritrasse la mano: su alcuni argomenti, l’ipnotismo degli occhi da cucciolo non sortiva alcun effetto.

   «Lui è un discorso a parte. Non mi dà una bella sensazione» lo stroncò lei.

   Qualunque replica venne bloccata da un forte conato quando una mano si abbatté senza alcun riguardo sulla sua schiena.

   «Bravo! Hai fatto guadagnare dei punti a Slytherin» lo canzonò una voce ben nota.

   «James, sto per vomitare» lo avvisò, in procinto di svenire.

   Le sopracciglia del fratello disegnarono un arco sorpreso da sopra le lenti degli occhiali.

   «Cos’è successo?» si rivolse a Rose, poiché il consanguineo sembrava sul punto di ributtare anche l’anima.

   «Lezione con i ragni» telegrafò lei.

  «Ma sei un cretino! Perché non hai chiesto di saltarla?» lo riprese brusco James.

  «Prima o poi dovrò vincerlo questo… difetto» crollò Albus.

  «Devi cercare di arrivarci vivo al giorno in cui lo “vincerai”» s’incaponì il fratello, tastandogli con malagrazia la fronte. «Hai la febbre?»

  «Ho la nausea» si lamentò Albus.

  «Hai fatto lezione con dei ragni… non c’è proprio limite alla tua idiozia?» lo sgridò James. «Cerca di non morire, almeno!» sbuffò, mollandogli la testa di colpo: Rose si tuffò come un portiere di Quidditch per evitargli la collisione con lo spigolo del tavolo.

   «Tuo fratello è più umorale di un’elefantessa incinta» disapprovò lei, aiutandolo a rimettersi composto mentre James si allontanava dalla sala studio a grandi passi.

   «Forse è sotto pressione» biascicò Albus. «E’ responsabile anche per me, adesso.»

   «Comunque sia…»

   «Eccomi.»

   Rose si ammutinò in un silenzio offeso: detestava essere interrotta. Specie da Scorpius.

   «Ti servono un po’ di zuccheri per rimetterti in forze. Tra qualche ora abbiamo la prima Scholzione» annunciò Scorpius, mettendogli davanti al naso il frutto della sua ricerca.

   Albus sentì la nausea gonfiarsi fino a fargli quasi scoppiare l’esofago.

   «Scorpius, non credo che mi vada di mangiare una fetta di torta» esalò.

   «Non preoccuparti» lo tranquillizzò Scorpius, scoperchiando la casetta. «Le Torte della Strega comprendono una vasta gamma di dolciumi» estrasse un biscotto dalla scatola e glielo esibì davanti agli occhi: un semplicissimo disco di pastafrolla con qualche goccia di cioccolato ad insaporirlo. «Alcuni sono quasi spartani.»

   Albus afferrò il biscotto e cominciò a sgranocchiarlo come un castoro. Il rimedio di Scorpius, sorprendentemente, riscosse successo: lo stomaco riprese la sua posizione nel ventre, felice di tornare alle vecchie mansioni. Pian piano Albus recuperò la postura corretta sulla sedia, diventando più dritto mentre i biscotti calavano.

   «Come ti senti?» volle sapere Scorpius, quando anche l’ultimo dolcetto fu spazzolato.

   «Meglio» garantì Albus. Rose sollevò il libro per nascondervi lo scetticismo che dilagò sul suo viso.

   «Mangia anche la strega» lo consigliò Scorpius.

   «La strega si mangia?» si sorprese Albus.

   «E’ fatta di zucchero» affermò Scorpius. «Devi mangiarla prima che cominci a sparire. E, se apri la bocca subito dopo averla inghiottita, sentirai le ultime parole che vuole dirti.»

   Albus allungò la mano alla piccola fattucchiera, che vi saltò prontamente sopra.

   Quella volta fu una specie di druida grassoccia vestita di foglie a raccontargli la novella del giorno:

   «La magia orientale è più esoterica di quella occidentale: in Oriente il legame con gli spiriti è più forte, e le pratiche magiche assomigliano ai riti religiosi, con invocazioni delle divinità e controllo del loro potere.»

   Non appena l’incantatrice ebbe finito di parlare, Albus se la rovesciò in bocca.

   Attese che la strega si sciogliesse prima di inghiottire e socchiudere le labbra come gli aveva detto di fare Scorpius.

   «Questo ragazzino è un gran maleducato!» una voce così acuta da sfiorare gli ultrasuoni gli uscì dalla bocca, che Albus tappò immediatamente nell’udire quelle tonalità stridule e adirate.

   «Di solito sono contrariate, quando parlano» si scusò Scorpius. «Del resto, le hai appena mangiate.»

   La testa di Rose sobbalzò dal contorno del tomo che stava leggendo, in un contenimento assai povero di una risata fragorosa: sentire il cugino parlare con quella vocetta da gallina l’avrebbe rallegrata per i prossimi cento anni.

   «La prossima volta la faccio dissolvere» decise Albus, accartocciando la scatola per buttarla via.

 

***

 

   Il banco slittò all’indietro di un centimetro scarso prima che l’occhiataccia del professore lo freddasse sul posto.

Non era del tutto sicuro che Achill Scholz lo avesse effettivamente fissato con riprovazione, ma il cruccio solidificato sul viso del docente rendeva impossibile decifrarne le emozioni.

Achill Scholz sembrava nato per insegnare una materia inquietante come Difesa contro le Arti Oscure: era una delle persone più spaventose che avessero mai visto nella loro vita, un gigante nordico con il volto deturpato da spesse cicatrici e dal grugno immusonito, e un paio di mani che avrebbero ribaltato la scrivania di noce di quell’aula come uno stampo per budini. Marciava inamidato in un’uniforme marziale munita di pesanti stivali con la suola rinforzata, e gli occhi stessi sembravano pietrificati da una rigida disciplina; quasi non batteva le ciglia nel parlare.

   «Cosa voi sapere di “golem”?» la classe impiegò mezzo minuto per capire che aveva detto “golem” e non “kolam”.

   Rose ebbe modo di sfoggiare le sue conoscenze.

   «I golem sono un tipo di evocazione di livello medio-alto. I punti di forza e di debolezza della creatura variano in base all’elemento da cui il mago ha deciso di plasmarlo» esacerbò.

   «Ja, è questo che insegnano vostri libri di testo» annuì Scholz, con quel suo accento che storpiava “questo” in “kvesto” e “vostri” in “fostri”.

   Albus vide Nott schizzare verso il soffitto e lui stesso rischiò di saltare al collo della cugina quando Scholz abbatté i magli che aveva come pugni sulla cattedra.

   «Nein! In che era preistorica è fermo vostro sistema scolastico? Con nozioni così antiquate primo mago nero che vede voi vi trasforma in zerbino! E vi usa per lustrarsi stivali!»

   «Ora gli scoppia la carotide» previde Nott, allarmato dalla ragnatela di vene pulsanti sul collo teso del professore.

   «Tu, forza, in piedi!» sberciò Scholz in direzione di Albus.

   Per un attimo, il ragazzo ebbe l’impressione che il professore avrebbe messo in pratica quanto detto precedentemente sui maghi oscuri, e che lo avrebbe usato per lucidarsi gli anfibi.

   «Tu ti chiama Malfoy?» volle sapere il docente.

   «No signore» lo contraddisse titubante Albus, aggrappandosi alla sua bacchetta.

   Una “V” seccata si disegnò tra le sopracciglia del prof quando Scholz aggrottò la fronte e attaccò:

   «E come ti chiama, allora?»

   «Potter, signore. Albus Severus Potter» riferì in un bisbiglio atterrito.

   «Tuo nome troppo lungo! Se un alleato in difficoltà prova a chiamare tu, tempo di pronunciare tuo primo nome e lui già morto!» lo redarguì il professore.

   Albus morsicò le labbra, non sapendo bene cosa rispondere. Non poteva cambiare il suo nome in ASP solo per salvaguardare eventuali colleghi moribondi. Sua madre lo avrebbe portato dallo psichiatra se avesse avanzato una simile richiesta.

   «Dove è Malfoy?» abbaiò di colpo.

   «Sono qui, professore» Scorpius alzò anche la mano per rendersi più visibile.

   «Muove tue secche gambette e viene qui!» ordinò il docente, puntando il dito verso i suoi piedi.

   Scorpius, a dispetto del tono minaccioso di Scholz, obbedì tranquillo, sfilando quasi per raggiungere la cattedra.

La classe trattenne il respiro per timore di cosa sarebbe capitato a quei due poveretti, uno arpionato alla bacchetta e l’altro che spazzolava metodico la verga con i polpastrelli.

   «Cosa sapete voi di golem?» domandò di nuovo il professore. La prima fila sobbalzò nel vedere l’insegnante chinarsi ed estrarre l’asta magica dalla fondina dentro lo stivale.

   «Quello che ha detto Rose Weasley, signore.»

   Quella risposta ottenne il biasimo del professore, espresso in una bacchettata sulla testa.

   «Impara a pensare con tua zucca vuota, o presto vedrai fiori da parte di radici» s’inasprì Scholz mentre Albus si massaggiava il principio di bernoccolo.

   «Ma è così, professore, sul nostro libro non c’è scritto altro» Scorpius arretrò con il collo quando la bacchetta di Scholz gli si agitò davanti al naso.

   «Se non c’è scritto altro, allora tu deve cercare altra fonte! Non limitatevi a studio accademico, ragazzi: il mondo cambia, e i libri colgono cambiamenti solo fino a data di loro pubblicazione, poi più! Non basate vostre conoscenze solo su biblioteche: imparate da vita!»

   A giudicare dall’arricciamento del naso, Rose non condivideva quell’opinione: lei era una bibliofila, una di quelle ragazze che, oltre che leggere e memorizzare i libri, vi tuffava il naso per sentirne il profumo. Era scontato che non approvasse l’avversione del professore per la carta stampata.

   «Magia è cambiata. In bene e in male. Ora io vi insegna alcune formule di incantesimi elementali, e voi usa contro golem.»

   «Ma le magie elementali sono programma del terzo…»

   «E se enorme golem arriva per mangiare tu? Tu cosa dici? “Mi spiace, passi di nuovo tra due anni”? Mostro non aspetta, mostro mangia!» lo incalzò Scholz, puntandogli la bacchetta al petto. Albus non osò nemmeno respirare per paura di quale incantesimo si sarebbe inciso sul suo sterno al minimo fiato.

   «Ora voi fate attenzione» due possenti pacche sulle spalle li costrinsero ad avvicinarsi al professore, che si abbassò dall’alto dei suoi due metri per istruirli: «Queste sono formule…»

   Scholz passò loro gli incantesimi con il tono sottile della spia, e, per quanto la classe tendesse le orecchie, nessuno riuscì a carpire nemmeno una sillaba.

   «Ora voi fate vedere che avete imparato» la bacchetta del prof si mosse veloce: tracciò un otto dall’alto verso il basso e puntò esattamente a metà dello spazio vuoto tra i due studenti: «Golem!» invocò Scholz.

   Albus richiamò tutto il sangue evaporato dallo sgomento e raddrizzò la bacchetta per affrontare la bestia che si stava formando davanti a loro: un ammasso di roccia emerso dal nulla stava dando vita ad una creatura umanoide, e guizzanti lingue di fuoco ruggivano sulle sue braccia.

   «Magia moderna fa queste combinazioni: due elementi su uno stesso golem» Scholz si accomodò dietro la sua scrivania, e augurò: «Buona fortuna, ragazzi.»

   Albus fece schioccare la lingua contro il palato secco, cercando di sfruttare i secondi che ancora li separavano dalla nascita completa della creatura. Le sue braccia erano di fuoco, quindi l’elemento contrario era l’acqua. E la formula per l’incantesimo d’acqua…

   «Piscis Marinis!» recitò, puntando la bacchetta contro il mostro ormai formato. Dalla punta di legno si sprigionò un crepitio e, in un lampo bluastro, da essa scaturì…

   «Che diavolo è quella cosa?» esclamò Rose.

   Albus fissò il risultato della sua magia, trasecolato: un enorme pesce dalle squame verdognole annaspava sul pavimento dell’aula, sbatacchiando le pinne nella misera pozza d’acqua in cui si era materializzato.

   «Professore!» si allarmò Albus, i capelli quasi ritti dallo spavento.

   «Se tua magia non funziona, tu usa testa» il docente si picchiettò una tempia per rendere più chiaro il concetto.

   Ma… ma gli aveva detto lui che formula usare, non più di cinque minuti prima!

   Non ebbe tempo di maledire l’insegnante, poiché una lunga lingua di fiamme gli passò rombando sopra la testa, e Albus dovette gettarsi a terra per evitarla.

Con un muggito atroce, la bestia calò su di lui entrambi gli arti incendiari; Albus fece appena in tempo a rotolare di lato per evitarli: le fiamme gli lambirono appena il maglione, effondendo un odore di lana bruciata.

   «Così li ammazza!» strillò Rose.

   Albus non riuscì ad udire la replica del prof: il golem lo aveva preso in antipatia e continuava a mulinare le braccia nella sua direzione, mugghiando come il mare in tempesta.

Il ragazzo continuò ad arretrare, alla frenetica ricerca di una strategia da usare contro il mostro, finché il muro non sbarrò la sua ritirata.

   La bestia spalancò la bocca rocciosa in un boato assordante, e levò ambo le braccia come mannaie.

   Albus ebbe la certezza, in quel momento, che il golem ruggente sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe visto.

   Ma il secondogenito dei Potter non ebbe una fine così ingloriosa.

   «Disintegra Mineralia!»

   Il golem ebbe un guizzo e si bloccò come se qualcuno avesse spento il suo interruttore. Un piede pietroso slittò in avanti, e una minuscola frana gli fece crollare gli abbozzati lineamenti del viso. Una dopo l’altra, le pietre che lo componevano si sbriciolarono in sassi, che a loro volta si polverizzarono nel toccare il suolo.

   Il petto scosso dalla respirazione accelerata, accartocciato a terra poiché le ginocchia erano diventate burro fuso, Albus fissò con occhi spiritati la lenta disfatta del golem di cui non rimasero che alcune pietruzze annerite dal fuoco.

   «Molto bene, Malfoy!» si complimentò Scholz, rialzandosi dalla cattedra. «Anche se golem fatto di tanti elementi, basta mirare a quello centrale per distruggere lui! Venti punti a Slytherin» si rigirò di colpo e grugnì: «Ma ricordate che io vi ha fatti combattere con golem di basso livello. E molto più piccolo di veri golem. Un golem serio non entrerebbe in questa aula!»

   Scorpius accettò la stramba lode con un sorriso e un inchino appena accennato. Si diresse verso Albus e gli tese la mano.

   «Tutto bene?» si premurò, tirando per sollevarlo in piedi.

   Albus annuì, la bocca troppo riarsa per articolare parola.

   «Accidenti, Scorpius!» enfatizzò Macauley, quando i due si rimisero a sedere. «Meno male che il prof ti ha insegnato quella formula!»

   Albus aprì il libro e vi annegò con lo sguardo, imbarazzato.

Non se la sentiva di dire che, in realtà, il prof non aveva spiegato loro quell’incantesimo. Come faceva Scorpius a conoscerlo?

   Sfogliò una pagina, cercando di distrarsi, ma la voce della cugina gli risuonò nelle orecchie.

   Come posso fidarmi di chi non è sincero?

 

***

 

   Si portò le ginocchia al petto, raggomitolandosi sotto le coperte.

   Dopo la prima Scholzione, il resto della giornata era trascorso pacificamente: la lezione di volo con Barthold Scholz, il minore dei due, era giunta a termine senza incidenti, e la cena nella Sala Principale era stata piacevole e tranquilla.

   Albus sorrise contro il cuscino, accarezzando il piccolo tesoro che stringeva al petto. Tornando nella camera, aveva trovato sul letto una confezione di the e un braccialetto contro la nausea, poggiati su un foglio ripiegato. Aveva aperto il biglietto e l’immagine tridimensionale di un James assai scontento gli aveva fatto la paternale.

Ricordava ancora le parole esatte: “Visto che sei piccolo e sei uno Slytherin sei stupido, quindi hai bisogno che tuo fratello maggiore Gryffindor ti faccia da balia. Usa il braccialetto e fatti un the la prossima volta. Se muori, sarò io a dover raccogliere i tuoi resti con un cucchiaino e riportarli a casa!”. Il foglietto si era autodistrutto non appena James aveva finito di predicare, stracciandosi in un mucchietto di coriandoli che Albus aveva conservato nel cassetto: erano rare le occasioni in cui l’acido fratello gli dimostrava un minimo di interessamento, e quelle poche volte dovevano essere conservate con cura.

Sorrise ancora di più, appallottolandosi sul bottino che premeva sul cuore. Era bello sapere che qualcuno vigilava su di lui, anche se era quello scorbutico di James.

   «Albus?»

   Il ragazzo sollevò la testa dal guanciale, incerto.

   «Albus?» chiamarono ancora.

   Accertatosi quel bisbiglio non fosse frutto della sua immaginazione, il giovane rispose:

   «Sono qui.»

   «Sali un attimo.»

   «Salire? E come faccio?»

   «Metti i piedi sul materasso e aggrappati alle sbarre» lo istruì Scorpius.

   Perplesso, Albus emerse dalle coperte e vi appoggiò sopra le preziose reliquie. Seguendo le istruzioni dell’amico e cercando di non svegliare Nott con le sue manovre, riuscì ad inerpicarsi sul secondo piano del letto a castello.

   «Che c’è?» chiese, gattonando sulle coltri.

   Scorpius sollevò le lenzuola e lo invitò ad entrare. Impacciato, Albus zampettò sul letto fino a riuscire a stendersi sotto le coperte.

Scorpius afferrò le coltri e strattonò perché li coprissero fin sopra le orecchie e solo allora cominciò a parlare.

   «Cosa ne pensi della Scholzione?»

   Albus strizzò gli occhi, ma, anche così, il volto dell’amico rimase una sagoma fuligginosa, di cui distingueva appena i contorni su cui si appoggiavano le coperte.

   «E’ andata bene. Nessuno è caduto dalla scopa» vagliò.

   «No, dicevo la prima» specificò Scorpius.

   Albus rabbrividì. Sentiva che una nuova fobia si era aggiunta a quella per i ragni: la braccia-di-golem-infuriato-che-ti-passano-a-un-millimetro-dalla-testa-fobia.

   «Mi hai salvato» stabilì Albus.

   «Non ti è sembrato… strano, quell’incantesimo?» Scorpius tentennò appena un secondo prima di affibbiare un aggettivo alla sua magia. Ma Albus coniò una definizione migliore:

   «Più che strano, direi provvidenziale. Altrimenti, a quest’ora sarei un mucchietto di cenere. Con gli occhi verdi e i capelli scuri» completò.

   «Che orrore!» Scorpius si finse stomacato, ma nella sua voce c’era un eco di risata troppo distinguibile perché la farsa reggesse.

Ridacchiarono entrambi sull’idea di un mucchio di polvere semovente e parlante con un ciuffo di capelli corvini e due globi verdi per occhi, ma lo fecero a labbra strette per non svegliare Nott.

Scorpius passò un dito sotto l’occhio per asciugare una goccia di risata e respirò a fondo per riprendersi. Rimase qualche istante in silenzio, il sorriso che pian piano svaporava. Poi confessò a voce bassa

   «E’ stato il primo incantesimo che ho visto fare a mio padre.»

   «Davvero?» s’incuriosì Albus.

   Le coperte si tesero in sincrono con l’annuire di Scorpius.

   «Avevo… quattro o cinque anni all’epoca» conteggiò Scorpius. «E mi era sembrata una magia strabiliante. Così ho voluto provarla» si avvicinò, con una mano a lato della bocca, per sussurrare in direzione del suo orecchio: «Non c’era un singolo sasso nel giardino di casa Malfoy, perché li frantumavo tutti quanti.»

   «Usavi le bacchette MiniMago?» s’interessò Albus.

   Il Ministero della Magia, una decina di anni prima, aveva approvato il commercio di queste verghe per il settore dell’infanzia: erano riproduzioni in miniatura di una vera bacchetta, tarate in modo da non permettere l’afflusso di magia entro un certo limite. Era una misura necessaria per garantire la sicurezza del piccino e della sua famiglia, e per evitare che lattanti troppo dotati appiccassero il fuoco alle loro stesse abitazioni.

   «Proprio quelle» comprovò Scorpius. «Non avevo mai distrutto qualcosa di più grande di un sasso» ammise, sistemando dietro l’orecchio un ciuffo biondo troppo cresciuto. «Ma oggi… penso che lo spavento abbia fatto da carburante.»

Scese di nuovo un velo di silenzio imbarazzato, strappato per la seconda volta da Scorpius.

   «Grazie per non aver detto agli altri che il professore non ci aveva insegnato quella magia.»

   «Perché mi ringrazi?»

   Scorpius masticò il proprio labbro e gettò fuori, riluttante:

   «Sai quello che si dice della mia famiglia…»

   Sì, lo sapeva. Tutti lo sapevano. Se Harry Potter era il sole del mondo magico, Draco Malfoy era l’eclisse, nell’immaginario comune. “Tale padre tale figlio”, “un albero cattivo non può fare frutti buoni” e altri proverbi simili avevano fatto in modo che la fama del padre trasmigrasse nel figlio.

A casa Potter, però, si raccontava una storia diversa: durante le riunioni di famiglia, anche se zio Ron calcava la mano su “quanto era snob Draco Malfoy”, zia Hermione, da consumata avvocatessa che era stata, ne prendeva le difese: era vero che Malfoy era stato un Mangiamorte, ma solo perché si era trovato incastrato in un meccanismo più grande di lui, e non era riuscito ad uscirne.

Albus non se la sentiva di condannare del tutto l’operato di Draco: il padre era un seguace del Signore Oscuro, per cui lui stesso si era ritrovato in quelle schiere infernali. E, una volta lì, si era mosso per salvare la propria vita e quella della sua famiglia. Non lo vedeva come un personaggio negativo: diventato Mangiamorte per costrizione, aveva cercato di difendere quello che poteva.

Non lo accusava di vigliaccheria come molti facevano con leggerezza: doveva amare la sua vita più dell’idea di andare ad ingrossare la lista di caduti per mano di Voldemort. Come biasimarlo? Forse lui avrebbe fatto lo stesso.

   «Io penso che tuo padre non abbia agito male» dichiarò.

   Gli occhi grigi di Scorpius scintillarono nell’oscurità, alzandosi su di lui.

   «Davvero?»

   Albus annuì. A suo parere, Malfoy non era un traditore spietato, ma un eroe frainteso.

Il silenzio si gonfiò di nuovo tra di loro, e questa volta fu Albus a spezzarlo:

   «Comunque, se ripenso al prof Scholz, quel… quel terrorista! Voleva ammazzarci per caso?» sibilò irato: sarebbero passati eoni prima che riuscisse a perdonare il professore di averlo fatto quasi uccidere da una bestiaccia di fuoco e fango. «Giuro che non scenderò più a lezione di Difesa prima di essermi letto tutti i libri!»

   «Ma le biblioteche non ti insegnano nulla, non lo sai?» lo prese in giro Scorpus.

   «Tu no impara da libri, impara da vita!» sillabò Albus, scimmiottando il duro accento del prof. «Così io prossima volta ti fa evocare girino contro licantropo, ja!»

Affogarono entrambi nel cuscino per controllare l’accesso di riso che gli agitava le spalle e gli inumidiva gli occhi.

   «Hai talento per le imitazioni» annaspò Scorpius, sopravvissuto all’attacco di ilarità. Albus impiegò qualche secondo in più a sistemare la mascella in sede.

   «Voglio farti vedere una cosa» esordì di colpo Scorpius. Strisciò fuori dal tunnel di coperte, trafficò per un attimo sulla mensola accanto al letto e scivolò di nuovo nell’intrico di lenzuola con una scatola quadrata tra le dita.

   «Che cos’è?» chiese Albus.

   Con gesti da prestigiatore, Albus sciolse il nastro e scoperchiò la confezione. Una distesa fragrante di cioccolatini variegati si scoprì in un effluvio di aromi speziati.

   «Che tipo di cioccolata è?» investigò: non aveva dimenticato l’esperienza con l’unicorno.

   «Semplice cioccolata babbana» lo tranquillizzò Scorpius. «Non posso farla arrivare in Sala Principale. Sai le pernacchie se si scopre che un Malfoy è ghiotto di pasticceria comune

In effetti, nonno e papà Malfoy erano stati convinti assertori della necessità di mantenere il sangue magico puro. Chissà che shock quando avevano scoperto che al loro successore scintillavano gli occhi davanti ai negozi dolciari babbani.

   «Me ne spediscono solo una scatola all’anno» disse infatti Scorpius, mordendosi le guance per non ridere. Ricordava ancora la scena in cui, per la prima volta, aveva chiesto al padre di comprargli un po’ di cioccolato. Draco era diventato quasi viola mentre cercava di forzarsi ad entrare in un negozio gestito da babbani. Poi si era arreso e, con uno sbuffo, aveva chiesto alla moglie di assecondare il pupo. Non poteva dimenticare la contrizione del padre mentre attendeva con il figlio fuori dalla pasticceria: aveva scritto in faccia a chiare lettere “dove ho sbagliato nell’educarlo?”. E non poteva dimenticare nemmeno il baluginio di sorriso che gli aveva rilassato il volto quando aveva visto il suo erede assaggiare un cioccolatino tutto festante.

Non era facile capire suo padre, e suo padre non riusciva a capire del tutto il figlio. Ma entrambi compivano sforzi nella direzione dell’altro, e questo bastava.

   «Assaggiane uno» lo incitò, allungandogli la scatola.

   «Ma hai detto che te li spediscono solo una volta all’anno…» si sottrasse Albus. «E poi mi sono già lavato i denti…»

   «Non ti marciranno i denti per un cioccolatino. Coraggio» lo incalzò l’altro.

Di nuovo quel tono che discordava con l’aspetto da damerino di Scorpius.

Albus cedette all’amico, e si servì di un dolcetto cosparso di granella di nocciole. Capì subito perché a Scorpius piacessero tanto: la mano del pasticcere esperto era rintracciabile nella consistenza morbida del cioccolato e nel gusto ricco del ripieno che si spandeva sulla lingua.

   «Sono squisiti!» gioì, gustandosi gli ultimi echi della leccornia.

   «Sono i migliori» trionfò Scorpius, assaggiandone uno a sua volta.

   «Grazie» mormorò Albus. Attese che anche l’amico avesse finito di masticare e stabilì: «Dovrei tornare a letto, credo.»

   Scavarono entrambi per tornare in superficie, e Albus si districò dalle lenzuola mentre Scorpius riponeva il cofanetto.

   «Buonanotte, Scorpius» augurò Albus, scendendo nel suo giaciglio.

   «A domani» lo salutò l’altro.

   Si infilò sotto le sue coperte, soddisfatto della prelibatezza di cioccolato e del dialogo con l’amico.

La cugina aveva torto: Scorpius era un bravo ragazzo, come pensava lui.

Si accoccolò sul materasso e chiuse gli occhi in attesa del sonno.

Li riaprì quasi immediatamente: un tonfo sordo e un pesante fruscio, come di un corpo trascinato, lo destarono. Appoggiò i gomiti sul cuscino e protese il capo verso il soffitto, in attesa. L’indecifrabile rumore si ripeté e, sforzandosi al massimo, riuscì a captare uno spiaccichio sommesso di sottofondo e un raspare di gola, una specie di basso ringhio animalesco.

   «Scorpius?» lo chiamò, allarmato. «Scorpius, hai sentito?»

   Dal letto superiore non venne suono. Il piccolo Malfoy aveva meno problemi di lui a combattere l’insonnia.

   Restò ancora sollevato, in allerta, pronto a scattare al minimo rumore. Solo dopo un prolungato silenzio i suoi muscoli cominciarono a rilassarsi, e gli fu possibile tornare a stendersi sotto le coperte.

   Stese un braccio al di fuori delle coltri e afferrò la bacchetta, che nascose sotto il cuscino.

   Qualunque cosa avesse udito, non lo avrebbe trovato impreparato. Restò a lungo sotto le coperte, stringendo spasmodicamente la bacchetta, i nervi tremanti per l’agitazione. Dopo un lungo ed estenuante turno di vigilanza lo stress e la stanchezza ebbero il sopravvento, ed un sonno profondo lo avviluppò nelle sue spire.

   Albus avrebbe dormito sonni tranquilli.

   Per quella notte, almeno.

E dal prossimo capitol cominciano i guai xD

Il Cercapersone e Achill Scholz sono anche loro prodotti made in RedDiablo ^^

Grazie a tutti<3<3<3

Red

   
 
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