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Autore: Darkry    16/02/2012    4 recensioni
L'amore a volte fa male, soprattutto perchè è pericoloso. A volte ci si innamora della persona sbagliata nel momento meno opportuno. E questo, è un guaio.
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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4. IN MILLE PEZZI

 
 
 

Il freddo le attraversava le fibre del corpo.
Quando riaprì gli occhi era sera e il suo corpo era quasi del tutto immerso nella neve. Sbatté le ciglia, confusa.
I piccolissimi fiocchi gliele avevano brinate conferendole un aspetto spettrale.
È tutto un sogno … mormorava una voce dentro di sé, ma Angela sapeva che non era affatto vero, sapeva di aver sbagliato tutto, quella volta.
Ripensare al volto di Ryan la faceva star male.
Rivedeva la sua mascella contratta, il naso arricciato e le lacrime che gli velavano gli occhi, prepotenti.
IO gli ho fatto questo. Io l’ho fatto soffrire.
Speravo tanto di non diventare un mostro, ma la verità è che lo sono.
Nel mio orgoglio e nel mio dolore ho pensato solo a fargli del male, a sfogarmi, a ripudiarlo dal mio cuore.
Ma come faccio a ripudiare una cosa così bella?
Così massiccia e delicata allo stesso tempo?
È vero ha commesso troppi sbagli.
Mi ha trasformato, è scappato, ma è anche ritornato, mi ha baciata e mi ha amata. Ora mi chiedo se tutto sia rimasto immutato o se a causa mia la sua rabbia e il suo dolore offuscheranno l’amore che mi ha dichiarato con tanto ardore.
Con tanta passione e dolore.
 Io ho commesso più sbagli di lui.
Mi giudico e mi giudicano una persona responsabile tra gli umani.
Una persona che sa prendere le decisioni con calma e che non si fa intralciare dall’odio o da altre cose così stupide, come credevo.
Ma da quando sono rinata, da quando sono stata morsa è tutto diverso.
Io sono diversa.
Il mondo lo è.
Tutto è più grande, più vasto e in qualche modo più reale, più concreto.
L’odio che prima credevo un futile sentimento dell’animo umano è ora tutto per me e per la mia razza.
La rabbia mi pervade l’animo, corrodendomi dall’interno, aspettando il momento meno opportuno per esplodere e lasciandomi sola a masticare i miei sbagli.
Odio.
A causa di esso ho rinnegato Ryan.
 E mi dispiace.
Mi dispiace terribilmente.
 
Angela si portò le mani alla testa, massaggiandosi le tempie.
Pensare a Ryan le provocava delle orribili fitte alla testa.
Voleva trovarlo e chiedergli scusa per tutto.
Aveva sbagliato, tanto, e se ne rendeva conto.
Le faceva male, le dispiaceva troppo, era stata egoista e aveva pensato solamente a se stessa.
Non alle persone che rischiavano di morire ingiustamente.
Né a fare del male a Ryan.
Si odiava.
Si accorse di non avere più lacrime da versare.
Era stata troppo tempo immobile, ora doveva preoccuparsi di trovarlo e di aiutarlo. Un’immagine le invase la mente.
Sembrava una visione, ma in realtà era un ricordo, uno dei più bei ricordi che serbava di quando era bambina.
 
Si rivide a cinque anni, le gambette che penzolavano dall’alto sgabello in ferro battuto, su cui si arrampicava sempre per raggiungere il tavolo.
Davanti a lei, una scacchiera, con tanto di pedoni, torri, cavalli, re  e regine.
E dall’altro lato del tavolo, suo padre, già stempiato, gli occhialetti dorati che gli ricadevano sul naso ossuto e un paio di occhi verdi e intelligenti che la scrutavano intensamente.
– Pensa, Angela. Pensa e ragiona, angioletto mio. Un tuo soldatino, può sconfiggere uno mio. Ragiona. Cosa puoi fare?- le chiedeva con voce calda e rassicurante.
Dalla cucina, sua madre urlava divertita – Lasciala in pace, Ruggiero!! È solo una bambina! Cosa vuoi che gliene importi della guerra?
-Oh, cara, ma sai benissimo anche tu che gli scacchi servono ad Angela per diventare la bambina più intelligente del mondo e togliersi fuori dai pasticci quando sarà più grande. Vero, piccola mia?- le chiedeva poi, sorridendole.
Angela ricordava che gli scacchi le piacevano terribilmente quand’era piccola.
Le piaceva vedere suo padre prendere la scacchiera e disporre i suoi pezzi bianchi e profumati da un lato.
Le piaceva guardare le immagini intagliate dei cavalli e della regina e sfiorarle estasiata con i polpastrelli delle dita.
Le piaceva quando riusciva a sorprendere suo padre con una mossa piuttosto astuta.
 E rideva sempre quando gli mangiava un alfiere.
Le piaceva vedere i suoi genitori che si abbracciavano e che le davano in premio un pezzetto di cioccolata.
Ma la cosa che le piaceva di più erano i baci che le davano quando si incapricciava perché non riusciva a capire un accidenti del gioco.
Aveva imparato a giocare a scacchi prima ancora di saper leggere o scrivere.
E le era mancato terribilmente quando avevano dovuto interrompere per via della malattia della madre.
Sospirò.
“Pensa Angela, pensa e ragiona angioletto mio. Ragiona. Cosa puoi fare?” Le parole le rimbombavano nella testa.
Oh, papà. Grazie per tutto. Lo farò.
Angela si alzò in piedi.
La prima cosa da fare era cacciare.
Mangiare.
Bere, bere molto.
Per mantenersi in forze.
Dopo di che avrebbe avuto la mente più lucida e avrebbe potuto ragionare con più freddezza e spostare la pedina giusta.
E fare, la mossa giusta.
Questa volta.
 Inspirò ed espirò lentamente.
Anche se il gesto non le serviva più a niente, riusciva ugualmente a tranquillizzarla come un tempo.
Entrò in casa e si cambiò i vestiti.
A lei potevano non fare né caldo né freddo, ma andarsene in giro con  gli indumenti completamente infradiciati, era pura pazzia tra gli esseri normali.
Mise dei pantaloni neri aderenti e indossò gli stivali alti sino al ginocchio.
Poi si mise una camicia bianca e da sopra una felpa pesante.
La stoffa morbida le scivolava addosso senza lasciare traccia della sua freschezza. Uscì e in poco tempo raggiunse il bosco.
Di Ryan nessuna traccia.
Cercava di non pensarci, almeno per il momento, ma il suo pensiero correva automatico a lui.
Tutto glielo ricordava.
Tutto glielo riportava teneramente alla memoria.
E lei non poteva fare niente per scacciarlo.
Né voleva farlo ancora, anche se solo dai suoi ricordi.
Anche se questi la facevano sentire terribilmente male.
Perché sapeva di meritarsi tutto quel dolore e forse anzi, sicuramente, anche di più.
I piedi si muovevano veloci nel terreno, spostando polvere di neve che si mischiava ai minuscoli fiocchi in discesa dal cielo.
Angela si fermò un attimo.
Gli animali erano tutti nascosti per il maltempo ma lei non aveva tempo di aspettare il disgelo per  cacciare.
Era necessario che si procurasse del cibo in quel momento.
Dilatò le narici in cerca di una qualche pista da seguire, ma non ne trovò.
La neve attutiva il suo olfatto.
Forse era anche per quel motivo che non riusciva a percepire l’essenza di Ryan nell’aria intorno a lei.
Comunque, la neve costituiva un problema.
Si addentrò nel bosco  più che poteva.
 Qualcosa l’avrebbe trovata.
Per forza.
La zona era nuova.
Gli alberi erano più alti e robusti.
E altri più piccoli erano stati abbattuti e giacevano a terra contorti e mezzo sepolti dalla neve.
Vi si avvicinò, studiando il tronco fibroso e, spazzolando via la neve, notò delle incisioni verticali alla base.
Un orso!
Pensò allontanandosi bruscamente dall’albero e guardandosi intorno.
Probabilmente non sarebbe uscito dalla sua tana a causa della neve, ma gli orsi di quella zona erano imprevedibili oltre che aggressivi.
Non ne aveva mai affrontato uno e anche se rappresentava una preda piuttosto succulenta, non era sicura che sarebbe riuscita a competere con la mole massiccia di un orso bruno.
Una folata di aria calda e umidiccia, le colpì la nuca, facendole volare i capelli in avanti.
Esitante, si voltò.
Sapeva già cosa si sarebbe trovata davanti ma realizzarlo fu ancora più spaventoso. Una pelliccia scura la sovrastava in tutta la sua immensità.
I peli bruni della creatura, rilucevano di un’affascinante argento che richiamava la natura selvatica dell’animale.
Angela lo guardò terrorizzata.
A scuola aveva studiato gli orsi, come difendersi e come cacciarli.
Di cosa si nutrivano e qual era la loro altezza.
Bene.
L’esemplare che si trovava davanti, era un orso bruno maschio alto e grosso quanto un armadio a due ante.
A occhio e croce doveva avvicinarsi ai tre metri di altezza e la sovrastava in tutta la sua immensità.
Angela non osava nemmeno respirare.
Quell’essere avrebbe potuto staccarle la testa con una sola zampata.
L’orso si sollevò sulle zampe posteriori e agitò le anteriori nel vano tentativo di spaventare la preda.
Era il suo segnale di attacco.
Aprì la bocca, rivelando una serie di denti aguzzi e affilatissimi, mentre un rivolo di bava calda gli colava giù dalle mascelle.
Il ringhio risuonò per la foresta silenziosa, facendo rabbrividire Angela.
Il momento era arrivato.
Con una poderosa zampa artigliata, l’orso cercò di buttare a terra Angela, ma la vampira si spostò velocemente, riuscendo a schivare gli artigli lunghi quindici centimetri, che l’avrebbero certamente sventrata.
Con movimenti fluidi ed eleganti, Angela si portò alle spalle della creatura abbracciandola il più forte possibile.
Sentiva la pelle dell’animale gonfiarsi sotto la sua presa potente e strinse più forte.
Le sue braccia non riuscivano a circondare l’intera mole dell’orso, cosa che la intralciava ancora di più nello stritolamento, senza contare che anche con i suoi poteri, stritolare un orso così, su due piedi, era un’impresa a dir poco impossibile oltre che altamente improbabile.
Il lardo che aveva ingerito durante l’estate le impediva di sopraffarlo, c’era troppa carne robusta da schiacciare per poter arrivare alle ossa dell’animale.
L’orso indietreggiò di poche zampate e si lasciò cadere sulla schiena, lanciando un lungo gemito.
Angela si spostò appena in tempo, lasciando la presa sull’orso che aveva intenzione di schiacciarla con i suoi 1100 kilogrammi di robustezza.
Non riuscì a sfuggire del tutto, però.
Una gamba rimase incastrata e Angela urlò di dolore quando l’orso la schiacciò tra il suo corpo e un tronco caduto.
Mille fitte acute le trapassarono il corpo facendole tremare la spina dorsale.
Era insopportabile.
Affondò i denti nelle guance, cercando di trattenere altre urla di dolore e strizzò gli occhi fino a farsi male.
Il sapore del sangue le fece pulsare le tempie e, poco dopo, le invase la bocca e per poco non si strozzò.
Tossì e sputò un grumo di saliva rossa, che sapeva di cenere.
Le zanne spuntarono quasi subito.
Nemmeno se ne accorse.
L’istinto ebbe il sopravvento e Angela affondò i denti macchiati di sangue nella pelliccia dell’orso.
I peli robusti le solleticavano il palato, mentre un fiume di sangue caldo le si riversava nella gola, rigenerante.
Succhiò e succhiò, mentre i gemiti dell’animale si facevano più acuti e strazianti.
Le veniva quasi da piangere.
Sentiva le zanne dilaniare la pelle dell’animale e lacerarla fino all’osso, le sentiva affondare nella carne, a primo impatto un po’ dura, ma più sotto resa tenera e viva, dal  liquido che le faceva perdere la testa.
L’odore caldo ed inebriante del sangue, la faceva sentire ubriaca, facendole perdere il controllo di sé e la sciandole attiva solo una minima parte della sua coscienza che si richiudeva a riccio, schifata dal suo nuovo comportamento.
In un disperato tentativo di difesa, l’orso le si buttò contro, facendo brillare gli artigli alla pallida luce lunare, ma Angela lo sollevò e lo scaraventò contro un albero.
Il sangue caldo e vivo le aveva fatto acquistare energia e ora, i suoi occhi brillavano più rossi che mai nell’oscurità della notte.
I lunghi capelli neri le incorniciavano il volto pallido e teso in un sorriso sinistro, illuminato da un paio di iridi dello stesso colore dell’inferno.
Le labbra erano sporche di sangue fresco, che le colava a rivoletti scuri lungo il mento.
Le zanne brillavano bianchissime, macchiate di amaranto liquido alla punta e premevano contro le morbide labbra.
Tutto sembrava un incanto infernale, avvolto nella pura coperta bianca della neve e nel silenzio di una foresta addormentata.
Quasi non sentì i muscoli scattare velocissimi mentre correva.
Percorse in un istante la distanza che la separava dall’orso e, arrivatagli alle spalle, gli prese la testa tonda tra le mani.  
Le dita affondarono nella folta pelliccia calda e profumata di pino e i polpastrelli si arpionarono saldi intorno ad essa.
Con un movimento asciutto delle braccia, accompagnato dallo schiocco secco e sonoro dell’osso che si spezzava, Angela spaccò l’osso del collo all’animale, che si accasciò nella neve immobile.
Lì dove Angela lo aveva morso per la prima volta,  si apriva un largo squarcio da cui fuoriusciva il sangue, quasi nero.
Quello cadeva e si spargeva sulla neve fredda, mescolandosi ad essa.
Adesso anche il puro manto bianco era stato intaccato dall’inferno.
Bianco e rosso, freddo e caldo, morte e vita, puro e sporco, acqua e carne, paradiso e inferno.
Tutto si mescolava, rosso su bianco e viceversa.
Angela guardò il pasto e si chinò sopra, finendo l’opera.
Era una sensazione magnifica.
La carne fresca e cruda era l’unico cibo che riusciva a mangiare a quanto pareva.
Si sentiva più forte e più sveglia.
La vista era più acuta e l’udito si era fatto ancora più fine.
Poteva sentire il fruscio del vento nella foresta e i suoi gemiti silenziosi.
E poteva percepire il tocco dei pallidi fiocchi di neve sul manto erboso.
Era strano.
Si sentiva invincibile.
Mise le mani nella neve e se ne gettò una manciata sulla faccia, strofinandosela, per pulire i residui di sangue.
La neve era alta, così vi immerse la faccia dentro e affondò le zanne dentro, per pulirle.
Il ghiaccio le penetrò nei canini duri, ghiacciandole ancora di più le gengive.
I granuli di neve le finirono sulla lingua, sciogliendosi in una strana sensazione solleticante.
Si alzò, lanciando un’ultima occhiata addolorata e famelica in direzione del corpo che giaceva a terra privo di vita e con passo leggero si allontanò in direzione della foresta. Voleva raggiungere la solita radura, forse Ryan la attendeva lì dopotutto.
O forse le aveva lasciato un indizio su dove farsi trovare o come farsi rintracciare.
Sì, come no … pensò tra sé.
E magari mi ha anche lasciato un bigliettino con su scritto indirizzo, residenza e data di nascita.
Ma quanto posso essere stupida da uno a dieci?!? Mille?
L’ultima volta che l’ho visto gli ho praticamente urlato contro che l’averi ucciso. Non penso che l’idea lo allettasse più di tanto.
Tuttavia, raggiunse la radura.
Doveva pur cominciare da qualche parte.
Il piccolo spiazzo era quasi irriconoscibile.
La neve aveva ricoperto del tutto il manto erboso e ora regnava incontrastata su ogni cosa.
Di Ryan nessuna traccia.
Non si aspettava certo di trovarlo lì, ma era sparito senza lasciare alcun segno di sé e questo la irritava.
Doveva pur aver lasciato un indizio da qualche parte!
Era impossibile che fosse scomparso nel nulla!
La frustrazione la fece tremare dalla testa ai piedi.
Si sedete su un masso, passandosi le mani tra i capelli mentre le lacrime le scivolavano ghiacciate lungo le guance.
Non poteva averla abbandonata!
Non era da lui!
O forse sì?
Lo conosceva così bene come credeva?
Per niente.
Non lo conosceva affatto.
Non poteva prevedere i suoi comportamenti, i suoi pensieri, i suoi spostamenti. Doveva colpirla, come fece la prima volta nella foresta.
Doveva obbligarla a ragionare!
E invece l’aveva abbandonata a sé stessa, proprio come aveva promesso.
“Affronterò da solo quell’esercito per la salvezza di anime innocenti e per impedire che avvenga quello che è successo ad Alaway, mentre tu te ne starai qui da sola a crogiolarti nei tuoi stupidi problemucci infantili. Cresci!”
Le parole erano chiare, anzi limpide.
Affronterò DA SOLO quell’esercito … da solo.
Quelle due parole si ingigantivano.
A ripensarci sembrava quasi che gliele avesse urlate in faccia, sputate addosso, incise nella carne, marchiate sulla pelle con il fuoco e incatenate nel suo cuore.
Ondate di sconforto la travolsero.
L’aveva deluso e ne era consapevole.
Fu attraversata da spaventosi tremori.
Si era ripromessa di essere forte, di resistere, mantenere la lucidità e trovare una soluzione.
 Ma soluzioni non ne trovava!
Strizzò gli occhi, nella speranza di trovare un appiglio e trattenere le lacrime.
Il cellulare squillò, spezzando il silenzio che l’aveva accompagnata per tutto il suo viaggio.
Sembrava quasi di profanare un luogo sacro.
Il suono che spezzava l’incantato silenzio della foresta, le sembrava qualcosa di altamente irrispettoso.
Non ricordava di aver preso il telefono con sé.
Si affrettò a rispondere mentre le mani iniziavano a tremarle per l’emozione.
Chi poteva essere a quell’ora?
Ryan?
E come aveva avuto il suo numero di cellulare?
Guardò il display e corrugò la fronte schiacciando il tasto di risposta.
-Papà? Dimmi.
-Oh Angela!- esclamò il padre con voce spezzata.
-Dimmi tutto. Che succede? La mamma sta bene?- scattò lei, preoccupata.
-Sì … almeno per il momento. Il dottore ha detto che ha … ha avuto un deperimento del, dell’encefalo credo, o una cosa del genere!- la voce distrutta del padre le spezzava il cuore.
La vista le si appannò per le lacrime e il corpo le si immobilizzò, rifiutando di muoversi in alcun modo.
Tirò su col naso.
-D – devi venire, Angela. Non so quanto ancora potrà resistere. M - mando una macchina a casa e ti faccio venire a prendere. Io rimango qui.-
Il padre riattaccò e il silenzio innaturale della foresta la avvolse nuovamente.
Con passi strascicati prese a percorrere la strada di ritorno, come un automa.
 Non aveva forza per pensare, né niente.
Il cervello era vuoto come il suo cuore.
Il paesaggio le scorreva tutto intorno, totalmente indifferente alla sua sfera emotiva. Niente riusciva a consolarla.
Niente riusciva a distrarla.
Sembrava tutto totalmente immobile.
Anche le lacrime si erano fermate e rifiutavano di scendere.
Ryan non c’era più e sua madre era in punto di morte.
 Cosa poteva fare?
Cosa DOVEVA fare?
Di sfuggita si accorse di aver raggiunto la porta di casa.
Vi entrò e si accasciò sul divano, immobile.
Aveva un certo talento a far deperire tutto ciò che di bello c’era intorno a sé.
Non sapeva far crescere le piante, sciupava i fiori, sebbene le piacessero molto, quando cucinava faceva bruciare il cibo, uccideva gli animali, cacciava via il ragazzo della sua vita riducendolo ad uno straccio che stava per suicidarsi e, infine, faceva morire sua madre.
Forse … forse la colpa non era la sua.
Forse doveva andare così e basta, forse la mamma si sarebbe ammalata anche se lei non fosse stata così dannatamente ribelle, in un certo senso.
Ma erano giorni che non si faceva sentire.
E probabilmente ora sarebbe tutto finito.
Era un Mostro.
Un Mostro.
Niente di più.
Soltanto un inutile Mostro.
Non sapeva quanto tempo stesse passando.
I minuti scorrevano infinitamente lenti, propagandosi in un tempo immensamente vuoto e insignificante per i suoi nuovi canoni.
Ma era ugualmente terribile.
Per lei i secondi non potevano più avere un effetto logorante, ma Dio solo sa cosa può succedere in un secondo.
Di tutto.
Sua madre poteva morire.
Ryan poteva morire.
E lei sarebbe stata la ad aspettare in eterno che un’inutilissima e fottutissima macchina arrivasse per portarla in un ospedale fuori città.
Voleva urlare.
Gridare quanto fosse arrabbiata al mondo, scaraventare via il tavolo, rompere un vaso di porcellana in mille pezzi.
E invece no.
Rimaneva lì, immobile, come se nulla al mondo la scalfisse minimamente.
Si teneva tutto dentro e reprimeva, reprimeva, reprimeva.
La stanza intorno a sé perse a poco a poco significato.
Il divano non era più un divano, la sedia non era più una sedia e la porta non era una porta.
Erano semplicemente nulla.
Nulla.
Non le servivano tutte queste cose per vivere.
Chissà quanto tempo sarebbe riuscita a resistere se  avesse digiunato.
 Giorni?
Mesi?
Anni?
No, forse anni no.
Sarebbe morta poco a poco, si sarebbe decomposta dentro, morendo nel suo bellissimo corpo da sedicenne.
Cos’erano le stelle, ora?
Quando era umana le piaceva stare ad osservarle per ore ed ore.
Erano il suo mondo, il suo paradiso, in cui vivere felici, dispersi nelle polveri galattiche.
Ma ora le sembravano talmente vuote e distanti.
Erano solo delle enormi palle di aria calda fatte di idrogeno che fluttuavano lontane e distaccate da ogni cosa.
Niente paradiso.
Niente pace e serenità.
O almeno non per lei.
Lei non avrebbe mai visto il paradiso.
Ora tutto aveva perso il suo significato.
Cercava inutilmente di ricordare a cosa servisse quel calice di vetro posto sul tavolo. Niente.
Ora di una sola cosa le importava.
Della vita.
La sentiva pulsare energica intorno a sé, oltre i muri delle case, per le strade e ancora più lontano.  
Un mondo che non le era mai appartenuto veramente e che non le sarebbe mai appartenuto.
Un tesoro che non era destinato a quelli come lei.
Quelli che per vivere, uccidevano.
I Non-morti che recavano morte ai vivi.
Voleva che Ryan rimanesse in vita, anche se era morto, in realtà.
Voleva che la sua mamma potesse guarire.
E continuare a vivere come faceva un tempo.
Felice, al fianco di suo padre.
Sapeva che sarebbe arrivato quel momento.
Lo sapeva da quando i suoi genitori la fecero sedere e le spiegarono che la mamma aveva una bruttissima malattia incurabile.
Lo sapeva.
Eppure non si era mai abituata all’idea di perderla.
In quegli ultimi periodi erano state molto lontane, separate dalle distanze e dal mondo.
Ma le bastava saperla viva per farla sorridere.
Tutti gli altri problemi erano così sciocchi, ora.
Il clacson di un’automobile penetrò nella sua recinzione mentale e Angela si costrinse a Vedere ciò che aveva intorno.
Raggiunse la porta di casa e uscì.
L’auto nera e lucida l’attendeva, il motore in folle.
La macchina le rimandava l’immagine di se stessa distorta e deforme.
Aprì la portiera e salì in macchina.
I sedili erano rivestiti in pelle chiara e morbida e profumavano di buono.
Angela si abbandonò completamente sul sedile posteriore e si fece cullare dal rombo silenzioso del motore.
L’autista partì e la ragazza vide scorrersi davanti agli occhi un paesaggio dalla bellezza immortale.
La neve ricopriva ogni cosa, rendendo tutto di un unico colore, un bianco puro sopra ogni cosa.
Vaghe macchioline di colore rendevano quella bellezza imperfetta, stagliandosi vistose contro il cielo nero.
Aveva smesso di nevicare già da un pezzo ma la temperatura rimaneva bassa. L’autista aveva acceso il riscaldamento e ora aria sofficemente calda soffiava  delicatamente sul volto di Angela, spandendole il tepore lungo il viso ghiacciato.
I suoi occhi continuavano a scrutare il cielo e il paesaggio circostante, che correva via veloce, come se volesse sfuggirle.
Dopo la caccia i suoi occhi si erano scuriti e ora il rosso scuro delle iridi, assomigliava vagamente al colore del pelo dell’orso di cui si era cibata.
Il vetro del finestrino aderiva perfettamente alla sua guancia pallida.
Gli occhi vagavano inquieti nel buio della notte e si soffermavano sul cielo scuro.
Lì, a tratti, riusciva a scorgere il volto di Ryan, gli occhi verdi che spiccavano nell’immensa oscurità.
Erano pieni di lacrime.
Eppure non poteva fare a meno di stare a guardarli.
Nella loro infinita tristezza.
Aveva la pelle d’oca.
Voleva averlo lì, baciarlo, consolarlo, scusarsi con lui e baciarlo ancora.
E desiderava con tutta se stessa che lui la tenesse tra le sue belle e possenti braccia, avvolta nel suo abbraccio protettivo e profumato.
E che le sussurrasse che  non era accaduto niente.
Che lui sarebbe rimasto per sempre lì con lei.
Per Sempre.
A poco a poco il suo volto sbiadì, lasciandola nuovamente sola a se stessa.
Il viaggio sembrò durare secoli.
Quando finalmente la macchina si fermò, Angela era nervosa.
Le mani le tremavano ed era spaventata.
Molto.
L’ospedale era gigantesco e odorava di disinfettanti.
L’odore le penetrava costantemente il cervello, stordendola.
Appena entrata, le orecchie di Angela sembrarono esplodere.
Migliaia di voci le giungevano ai padiglioni, soffocandola con urla, grida, pianti e risate.
Le parole si accavallavano diverse l’una all’altra, creando un ronzio fastidiosissimo. Tutt’intorno a sé avvertiva i battiti lenti e regolari della vita, le deboli pulsazioni di chi sta per morire e un’enorme, profonda tristezza.
Senza contare l’odore del sangue.
Era dappertutto.
Permeava l’ambiente in un’essenza bassa e continua di sale e ruggine.
Se non fosse stato per il pasto abbondante dubitava che sarebbe riuscita a resistere al richiamo.
Si avvicinò titubante al bancone delle informazioni e chiese ad un’infermiera dove fosse la stanza della madre.
Quella le diede poche indicazioni essenziali, per poi rivolgersi ad un paziente.
Senza aspettare oltre, Angela raggiunse il quarto piano e svoltò in numerosi corridoi prima di trovare la porta giusta.
Girò la maniglia, esitante.
Eccola.
Era lì, stesa su un lettino con dei tubicini che le entravano nelle braccia.
Aveva gli occhi semichiusi e accanto a lei c’era una macchina che lanciava ticchettii acuti per ogni battito del cuore.
Angela non aveva bisogno di quel macchinario per sentire le pulsazioni sotto le vene di sua madre.
I battiti erano lenti e deboli.
Vide una figura curva sul lettino.
Suo padre.
Era scosso da violenti singulti e faceva di tutto per trattenersi senza riuscirvi.
Angela si fece coraggio e mosse qualche passo in avanti, facendo scivolare la porta dietro di sé.
Al tonfo della porta che si chiudeva, Ruggiero si voltò.
Aveva gli occhi rossi e lucidissimi e le lacrime gli avevano lasciato delle profonde striature secche sul volto.
Appena vide la figlia, Ruggiero balzò in piedi e si passò una mano sulle guance, strofinandosele forte. 
– Sei qui. - mormorò in un flebile sussurro arrochito.
Angela annuì.
Le risultava difficile parlare con suo padre negli ultimi periodi.
Si erano distaccati troppo e sapevano entrambi a cosa andavano incontro e questo li aveva fatti allontanare ancora di più.
Senza dire una parola il padre uscì dalla stanza lasciandole un po’ di intimità con Margherita, la madre.
Angela si avvicinò al lettino.
Si sedette alla sedia su cui poco prima stava accasciato il padre e prese la mano della madre tra le sue.
Margherita aprì gli occhi e le rivolse uno sguardo lontano.
Aprì la bocca e dalle labbra secche e sciupate si levò un sussurro flebile e tremolante quanto il vento.
– Angela - disse.
Il sussurro giunse alle orecchie della ragazza come se fosse stata una parola urlata e non una sussurrata in punto di morte.
– Sì. Sì mamma sono qui.- mormorò iniziando a piangere.
Si portò la mano della madre al volto e la baciò, una, due, tre volte.
Margherita si sforzava di parlare e le parole erano talvolta incoerenti e difficili da capire.
La malattia le aveva provocato alcuni danni che le creavano difficoltà nell’ articolare parole.
Tuttavia Angela riusciva a capirla.
Non si lasciava sfuggire una sola parola di tutto ciò che la madre le sussurrava. Nemmeno una.
Era stata lontana da lei troppo tempo e, sebbene in quelle condizioni, voleva sentire il suono della sua voce, voleva capire i suoi pensieri, tutto.
Tutto.
– Sei … sei diventata bell … issima.- le mormorò.
La ragazza socchiuse gli occhi e tra le ciglia imperlate di lacrime mormorò alcune parole all’immagine offuscata della madre.
– Oh, mamma. Io … io non voglio perderti. Io ti voglio qui con me. Ti prego non andare via! Non andare in un posto dove io non potrò mai raggiungerti!-
Ad Angela parve che la madre le stesse sorridendo.
Un sorriso triste e dolce al tempo stesso.
– Bambina mia … tutti moriremo un gio ... r … no. A … anche tu. E all … l … ora ci rivedre … dremo.
-Ma se non fosse così?- disse Angela disperata.
– Se io non dovessi mai morire? Oh, mamma … io … -
Margherita la interruppe con una lieve pressione della mano.
-Amore. È così.
-Se … se io potessi … se tu potessi guarire e non morire mai più … ti piacerebbe?- le chiese Angela in un sussurro. 
Le lacrime le appannarono gli occhi ma riuscì ugualmente a scorgere lo sguardo mezzo sbigottito e dolce della madre.
-Io non vorrei mai un dono si … simil … e. Sareb … be terribile. Ogni cosa nasce, c … cresce e … muore. E io voglio essere tra ques … te. Nessun ess … sere normale potrebbe vivere così a lungo.
-Ma … mamma potresti smettere di soffrire! Vivresti per sempre e la morte non sarebbe più un problema!
-La mor … te è sempre un proble … ma. A te piacerebbe vi … vivere per sempre? Vedere le cose  ca … cambiare men … tre tu non puoi … fa … re niente per opporti? Vedere le per … sone accanto a te morire mentre tu sei destina … to a vivere per sempre? Sarebbe un’esi … stenza dann … nata. Solo un mos … tro. Solo un mostro accettere … be di vivere così.
Angela iniziò a singhiozzare sommessamente.
 Nemmeno sua madre la voleva.
Nemmeno lei riconosceva la sua essenza.
E aveva rifiutato il suo dono.
-Se … s se tu potresti sce … glie … re, vorres … ti mai essere un tal … e mostro?- le chiese la madre.
Angela scosse violentemente la testa, mentre alcune lacrime volavano via dal suo volto.
A quella risposta la madre parve più serena.
Ma lei non poteva smettere di tormentarsi.
Lei non l’avrebbe scelto ma lo era.
Non lo avrebbe scelto ma lo aveva proposto a sua madre.
E in parte se ne vergognava.
Avrebbe dovuto prevedere la risposta della mamma.
Eppure aveva voluto tentare ugualmente.
Forse se la trasformo si accorgerebbe che, sì è difficile vivere così, ma non impossibile. Forse le piacerà. Pensò.
Ma poi ricordò quegli ultimi giorni.
Erano stati  troppo confusi, troppo dannatamente orribili da sopportare.
Tranne per quando era con Ryan.
Forse la madre non avrebbe accettato come sarebbe diventata e si sarebbe comunque tolta la vita.
Doveva rispettare la sua decisione, come avrebbe voluto lei se glielo avessero chiesto.
Non ce la faceva più.
Non poteva continuare a stare lì.
Non con una madre che probabilmente l’avrebbe giudicata un mostro se avesse saputo la sua vera natura in quel momento.
Non con tutte quelle lacrime che le solcavano il volto, ghiacciate e penetranti come spilli.
Non ce la faceva.
Eppure doveva.
Doveva perché sua madre era lì, dopotutto.
Era lì e lei doveva starle a fianco almeno per una volta.
– Angela.- una voce flebile la chiamò.
La ragazza si costrinse ad aprire gli occhi e ad abbassare lo sguardo sulla madre.
La sua stretta nella sua mano si faceva sempre più flebile e la luce nei suoi occhi sempre più spenta.
– Mamma!- la chiamò.
-Prenditi cura di papà. - le disse mentre le parole si facevano sempre più basse e inconsistenti.
Angela annuì stringendo ancora più forte la presa sulla mano della madre, per non farla scivolare via.
Si fermò solo quando sentì le ossa scricchiolare.
Margherita le rivolse un ultimo sguardo spento.
– Ti voglio bene. – le disse prima di chiudere gli occhi.
– Mamma no … mamma ti prego non andare … - disse la ragazza mentre le parole le si accavallavano sulla lingua, formulando solo un pensiero confuso e privo di significato.
Seppe che se n’era andata ancora prima che la macchina iniziasse ad emettere il lungo fischio acuto.
Non c’era più vita in lei.
Il sangue si era fermato appena il cuore aveva cessato di battere.
– Mamma … - sussurrò terrorizzata.
Una lacrima le scivolò via, lungo la guancia e cadde sulla mano della madre che si faceva pian piano sempre più fredda.
Qualcosa le esplose dentro e insieme all’esplosione, le uscì fuori anche l’urlo più disperato che avesse mai emesso.
Era colmo di dolore, traboccante di disperazione e solitudine.
Nella stanza si riversarono un fiume di infermieri e dottori che la circondarono e le implorarono di calmarsi.
Era entrato anche il padre.
Ma rimaneva fermo sulla soglia, immobile, e fissava la figura della moglie stesa nel lettino in assoluto silenzio.
Angela cessò di dibattersi e uscì fuori dalla stanza, urtando violentemente il padre che non si mosse di un passo.
Percorse velocemente tutti i corridoi, le scale e finalmente fu fuori, l’aria della notte che la avvolgeva e in lontananza il profumo della città.
Non aspettò niente.
Non si assicurò che non ci fosse nessuno nei paraggi.
Le gambe scattarono come molle e tutto il corpo fremette di agitazione ed adrenalina mentre correva.
Dentro le si riversava un fiume di sensazioni diverse, incomprensibili e spaventose. Correva, correva, correva.
 E basta.
Nel petto aveva un’enorme voragine che sembrava volesse risucchiarla da un momento all’altro.
In quei giorni aveva conosciuto fin troppo bene la morte.
Le aveva strappato tutto.
Le sembrava quasi di esserci andata a passeggio e di averci fatto una bella chiacchierata.
La morte aveva strappato la vita a Ryan, la persona più importante della sua vita.
Le aveva strappato la SUA vita.
Aveva tolto migliaia di anime a tutte le persone innocenti della città di Alaway e le aveva strappato la dignità.
E ora anche una madre.
Le gambe mulinavano veloci, le sembrava quasi di volare, talmente veloce correva. Le sembrava quasi che le gambe non toccassero mai il suolo, eppure sentiva i piedi sollevarsi senza sosta, instancabili.
Un lento e fastidioso pulsare alle tempie si fece strada mentre un fiume di pensieri ben organizzati le invadevano la mente, ripetitivi.
“Io sono un Mostro.
Ryan, mi dispiace.
Devo trovare un modo per andare avanti.
Devo trovare Ryan.
Chiedergli scusa.
Farmi perdonare.
Spiegargli che lo amo e che sono un Mostro.
Che è tutta colpa mia.
Aiutare la gente indifesa.
Uccidere quella Donna.
Aiutare mio padre.
Sono sola.
Devo ritrovare me stessa.
Ti voglio bene anch’io mamma.
Addio.
Addio ….”
 
 
Ciao a tutti!! mi scuso per avervi fatto attendere tanto il 4 capitolo ma spero che la sua lunghezza possa compensarvi dell’attesa. Ditemi tutto quello che pensate, e cosa avete provato mentre leggevate questo capitolo, se vorrete lasciarmi una recensione e sarò felicissima di rispondervi! Un bacio con il cuore spero che Angela possa regalarvi emozioni intense. qui sopra troverete 3 video della stessa canzone. ero indecisa su quale fosse il più bello così li ho messi tutti e 3. buona visione e buona lettura!!
PS: per la mia amica che mi ha ispirato questa storia, che legge ogni capitolo e chenzone. ero indecisa su quale fosse i ogni volta si premura di dirmi cosa ne pensa. <3 grazie! E ricordati di attaccarti ad un termosifone mentre leggi!! ;) un bacione a tutti.
Darkry
                                                                                    

     
  
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