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Autore: Marguerite Tyreen    19/02/2012    0 recensioni
[Lindsay Anderson]
Devono essere passati quasi due mesi da quando abbiamo girato quella scena, ma il suono caldo delle tue parole non mi abbandona. Mi segue come un'ombra, ogni volta che tento di ascoltare il rumore dei miei pensieri. Soffoca i loro discorsi, come una macchia d'olio soffoca la limpidezza del mare.
Sento come se, lentamente, troppe cose di te avessero sostituito quello che credevo certo. Come se avessero occupato talmente tanto spazio da non riuscire a respirare, né standoti accanto né rimanendo lontano.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Pianosequenza'
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Premessa:

Dai diari che il regista inglese Lindsay Anderson (1923/1994 – qui la biografia) ha compilato quasi costantemente per tutta la sua vita, particolarmente interessanti risultano le parti in cui egli parla del legame tra il cinema e la propria esistenza.
Più precisamente, di notevole impatto sono le pagine riguardanti la lavorazione del suo film d'esordio “This Sporting Life” (1962) e la accidentata collaborazione con l'attore irlandese Richard Harris (1930/2002). Anderson, incline all'introspezione, ha affidato alla carta la frustrazione di un'attrazione non corrisposta, la difficoltà di reprimere i propri sentimenti e il tormento per un rapporto controverso di amore e odio. ( Qui uno dei passaggi più significativi del diario).
A quanto pare, l'interesse del regista non si è mai tradotto in nulla che andasse oltre la consumazione di un desiderio detto/non detto, tuttavia, alcune delle sue riflessioni rispecchiano una sensibilità tale, un intreccio di arte e vita, di amore e di immedesimazione illusoria che non ho potuto non scrivervi sopra questo brano.

Dovrebbe assomigliare ad un omaggio, o qualcosa di simile. Spero di non aver rovinato nulla. Che Lindsay mi perdoni!
E grazie di cuore a chi avesse la voglia o la pazienza di leggere.
Un caro saluto,

Marguerite.

P.S. Quando viene citata la canzone “Here in my heart” si tratta di uno dei pezzi che fanno da colonna sonora a “This sporting life”. “Margaret” e “Frank” sono invece i nomi dei due protagonisti del film suddetto.

P.P.S. Probabilmente ho sbagliato sezione. Sì? No? Boh, finchè non esisterà quella “registi” rimarrò col dubbio ^^


Con questa mia storia, pubblicata senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere delle persone citate, né offenderle in alcun modo. Al contrario, il mio vuole essere solo un modesto e deferente omaggio.


 

Dedicarti questa storia non cambierà nulla.
Ma non lo farà nemmeno il celarti dietro un senhal.

 

 

Come ci si può aspettare che io gli resista?
Sia che egli mi abbracci […]
o mi ordini di mettermi in ginocchio,
io sono al suo completo servizio”
(L. Anderson, Diario – 23 aprile 1962)

 

 

Completely Helpless

 

 

Giugno 1962.

Sapevo che prima o poi mi sarebbe successo, eppure non vi ero preparato. Scriverlo non cambierà le cose, se non nella minima parte in cui mi costringerà a sbattere la testa nella realtà.
Nell'inevitabile constatazione che ti voglio.
Nell'inevitabile consumazione di ogni mia speranza, perchè non posso averti.
Ci sono stati giorni – settimane? - in cui ho creduto che fosse tutta una suggestione: il tranello della mia Musa, che gioca a dipingere te delle mille incerte, vibranti sfumature del personaggio che interpreti. Che fosse il gioco di lenti, di obiettivi della mia macchina da presa ad avermi ingannato, ad averti fatto apparire sotto la luce di quello che non dovresti essere, che non dovresti significare per me.
Che fosse questo stato di grazia, che concede alle opere di nascere, ad avermi confuso le idee, ad avermi fatto scivolare nell'errore in cui cadono spesso gli artisti, di innamorarsi della loro creatura, del loro protagonista e di tutto quello che egli rappresenta.
Ecco, l'ho detto: innamorarmi. Mi tremano le mani nello scrivere questa parola e la carta diventa uno scoglio insormontabile.
Succede, a volte, come nei peggiori e scontati romanzi di appendice, come nei drammi alla radio, come nelle pagine scandalistiche: il regista e la sua primadonna.
Credo che ai giornali sarebbe piaciuto chiacchierare di me e non solo per questo film. Credo che avrei potuto permettermelo, se davvero ci fosse stata, quella primadonna.
Ma qui si tratta di te e mi è impossibile osservarmi allo specchio, sostenere il mio sguardo e ammettere di avere perduto il sonno e la ragione per un paio di occhi azzurri che sono i tuoi, per la fluida morbidezza di un corpo che è il tuo. Per la tua voce che, nella mia memoria, intona le note di Here in my heart.
Devono essere passati quasi due mesi da quando abbiamo girato quella scena del night, ma il suono caldo delle tue parole non mi abbandona. Mi segue come un'ombra, ogni volta che tento di ascoltare il rumore dei miei pensieri. Soffoca i loro discorsi, come una macchia d'olio soffoca la limpidezza del mare.
Sento come se, lentamente, troppe cose di te avessero sostituito quello che credevo certo. Come se avessero occupato talmente tanto spazio da non riuscire a respirare, né standoti accanto né rimanendo lontano.
Il giorno, sul set, ti sfuggirei. Fuggirei dalle tue mani, quando mi trattieni per il braccio, all'improvviso. Quando fingi di ingaggiare con me una rissa, io che non ho nemmeno la passione delle discussioni verbali e tu, così spavaldo, così ingenuamente orgoglioso e insicuro.
Fuggirei quando mi abbracci, dopo un ciak ben riuscito, quando mi sussurri all'orecchio con il tuo accento di ragazzo irlandese che sono un genio, che scriverò la storia, ed io ho l'impressione di sprofondare in qualcosa di caldo e allo stesso tempo distruttivo. Di sprofondare nel baratro della mia insana passione.
Eppoi la notte ti verrei a cercare. Girerei per le vie come un gatto randagio, come un ubriaco, come un pazzo per ritrovarti in un caffè, per bussare alla porta della tua camera d'albergo. Per rivederti, per accertarmi che esisti per essere sicuro che c'è una ragione a quello che mi si agita dentro.
Per sfiorare i tuoi capelli, forse.
Per chiederti da dove vieni, da quale parte della mia anima, da quale oscuro sogno, paura, desiderio.
O per altri pensieri meno casti che io non oso.
No, non so che cosa sia. Non chiedermelo. Mi faresti solo del male.
Non so se sia amore, inganno, illusione. Non so se sia l'arte che si intreccia ai nostri giorni, alla mia realtà, alla mia vita e fonde il vero con la finzione, la miseria della nostra esperienza umana con la patina lucida del girato in una assurda pellicola di cui non riesco ad intuire la fine.
O forse sì e i titoli di coda scorreranno sulla mia solitudine, come hanno fatto quelli di testa.
Ripartirai, chissà per dove, chissà con chi, su un piroscafo che non porta alcuna insegna se non la tua. Ed io, come una puttana di porto che ha svenduto tutto di sè, non potrò fare altro che guardarti dalla banchina mentre ti allontani, senza nemmeno la consolazione di poterti salutare. Tanto tu non mi vedresti.
E'inconcepibile, vero? Mostrare sullo schermo quello che non siamo, farci chiamare “gli arrabbiati”, la generazione ribelle eppoi non riuscire a fare i conti con le nostre debolezze, a riflettori spenti.
Non riuscire a gridarti che sono le tue mani che voglio, che è la tua bocca che mi tormenta.
Non riuscire ad ammettere che – guardami! – mi consumo per un uomo. Per te. Dio! Sì, per te.
Non riuscire ad affrontare il rifiuto che ne riceverei e preferire, vigliaccamente, di tacere e consegnare a queste pagine la mia angoscia.
Eppoi, che dovrei dirti? Sai già tutto. Te ne sei accorto.
Già, con la tua sensibilità di artista devi averlo compreso. Devi averlo visto, il modo in cui ti tengo gli occhi puntati addosso più di quanto non faccia con il mio obiettivo. Il modo in cui perdo ogni distacco, ogni freddezza, ogni controllo quando si tratta di te.
E con la crudeltà di chi è troppo amato senza esserne coinvolto, con una mano mi accarezzi e con l'altra stringi forte i fili che reggono la mia dignità.
Sfrutti il tuo potere con consapevolezza: sai di potermi sabotare con la tua volontà, col tuo tepore, prima, con la tua indifferenza, poi. Approfitti della vicinanza fisica per insinuarti maggiormente nel mio cuore, passando attraverso la pelle.
Percepisco la tua forza che potrebbe demolirmi non appena mi mostrassi incapace di resisterti.
Sto distruggendo, a poco a poco, ognuna delle teorie, degli studi che tenevano in piedi questo film. Non è più in mio comando, perchè ogni inquadratura si piega in funzione della tua espressione, del tuo umore momentaneo, della luce che colpisce il tuo viso, che sia quella artificiale delle lampade o quella azimutale degli esterni limpidi.
Eppure, mai come ora, lo sento mio. Lo sento nostro. Sta avvenendo quel momento in cui tutto si amalgama - vita, cinema, pensiero, azione, immagine, sentimento – rendendo questo piccolo segmento di tempo irripetibile e terreno fertile per l'arte.
Immedesimazione. Giochiamo a chiamarla così. Diamole la colpa dacchè siamo in tempo.
Dovresti sapere bene come funziona: non ti ho mai visto recitare tanto divinamente come adesso.
Dovresti sapere cosa significa essere un altro, una creatura di carta, due righe su un copione a cui dare persino il proprio respiro.
Io sono quello che non potrò essere. Sono io Margaret, la fragile vedova che il tuo protagonista sovrasta. Quella che si infila nel suo letto e si lascia sporcare nonostante la sua testarda purezza. Quella che si piega sotto le sue mani.
Quello che vorrebbe essere sotto le tue mani.
Ed io spero davvero, per quel Metodo che tanto padroneggi, che sia il tuo personaggio, che sia Frank, ad agire per te. Non voglio credere che tu mi tenga sotto l'incantesimo del tuo fascino insinuante ed aggressivo.
Ti ho già donato questo film, questo esordio, tutto ciò che significa per me. Cos'altro vuoi prenderti?
Cos'altro potresti prenderti, che non ti abbia già dato? La mia Arte, tutto quello che possiedo di più alto, ha finito per appartenerti.
Prenditi questo corpo, allora! Sbattimi contro un muro, sul tuo letto, su questo tavolo.
Toglimi ciò che mi rimane di mio.
Fammi tuo, completamente.
O prendimi con delicatezza, lo meriterei dopo tanta devozione.
Dimmi che resti, che possiamo mandare al diavolo tutto, la stampa, questo tempo ingrato, questa paura. O dimmi che te ne vai, quando le riprese saranno finite.
Stringimi. Fammi vedere il confine a cui può condurmi il desiderio. Perchè dovrei resisterti?
Scacciami. Lasciami scivolare nella compassione che ho per me stesso.
Risollevami o lascia che sprofondi.
Scegli. Imprimi la tua volontà sulla mia anima. Ma scegli.
Sono alla tua mercè, totalmente indifeso.
Amami o disprezzami, ma permettimi di tornare a respirare.
Risparmia la mia dignità. Lasciami libero.
Concedimi di gridarti il mio sentimento o il mio odio. Concedimi di gridare. Perchè ora ho nella gola solo un rantolo soffocato, un tentativo inutile di nascondermi.
Non lasciarmi sospeso in quest'incertezza. Non togliermi la speranza a poco a poco. Piuttosto uccidila adesso.
Un'ora soltanto, avrei bisogno di un'ora soltanto, per togliermi questo peso che mi opprime.
Un'ora nelle tue coltri o una vita senza di te.
Eppoi passerei i miei giorni a voler maledire la mia ispirazione e il gioco crudele che essa infligge alle anime fragili di noi artisti. O ad adorarla, nonostante tutto, questa ispirazione che sfuoca la tua immagine e la sovrappone ad una qualche proiezione di me stesso in celluloide, all'ologramma delle storie che sto raccontando...
Non è amore, questo. È ossessione. È una chimera.
È la voglia di un qualcosa che non può realizzarsi ma che ci eleva da questa miseria soltanto con la tensione ad esso.
È arte, in qualche assurdo modo.
Vattene. Insegui il tuo successo. Mostra a tutti dov'è arrivato il figlio della pioggia e dell'erba di Limerick.
Mostra a me l'orgoglio che mi resta. Mostrami che amare senza essere riamati non è eroico. Che non mi stimerò di più solo perchè mi sono consumato il cuore senza ottenere nulla. Che nessuno avrà compassione di me per questo, se non me stesso.
Sbattimi in faccia la verità che non è devoto affetto ma fissazione sterile. Incrina anche la più piccola certezza che mi tiene aggrappato a te.
Poni fine a questa agonia: io non ne sono capace.
Non darmi modo di credere che sia Amore, altrimenti non lo sopporterei.
Non voltarti, quando te ne andrai.
Mi renderei conto che continueresti a guidare la mia Musa. Che continuerei ad essere guidato da te.
Che non ho fatto altro che struggermi per tentare di sfiorare un lembo del tuo cielo, di immortalarti e sottrarti al passare dei giorni senza alcuna ricompensa se non questa condanna.
O guardami. Guardami, sì, con quegli insostenibili specchi troppo azzurri. Lascia che comprenda che nessuna opera avrà mai lo stesso valore di questa. Che le pagine più belle che ho scritto, le immagini più chiare che ho rubato al tempo sono merito tuo.
Lasciami intravvedere che è questa la mia unica consolazione, dietro al dolore. Tutto quello che mi resta. Tutto quello che mi concedi.
Guardami, perchè non ne sarei pentito.
Credimi, Richard, non ne sarei pentito.

L.

   
 
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