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Autore: AgnesDayle    22/02/2012    12 recensioni
Tra i quartieri alternativi di Brixton, Shoreditch e Camden Town la vita di Agnes Dayle è destinata a legarsi ad un gruppo rock emergente, e in particolare a due dei suoi componenti: Ian e Colin. Due giovani londinesi molto diversi tra loro che in comune hanno solo una passione, quella per la musica, e un certo interesse per Agnes.
Accompagnata dalle migliori canzoni rock di sempre, Agnes sarà catapultata in un mondo senza tempo fatto di concerti, feste sfrenate e personaggi eccentrici.
DAL PROLOGO:
"Quando verranno a chiederti del nostro amore, un amore così lungo tu non darglielo in fretta." Un ingorgo di parole premeva sulle labbra serrate ma quella promessa, almeno quella, l'avrebbe mantenuta. Non avrebbe omesso nulla. Avrebbe parlato della grande passione che li aveva uniti, dell'abisso nero e profondo in cui era stato facile perdersi e di un legame, d'affetto e d'amore, l'unica luce che non sarebbe mai andata via.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sutcliffe' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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A Mia Sorella,
A chi mi rende reale



Lord knows it would be the first time




─ Buonasera, Miss Dayle. Prego, di qua troverà il suo posto.

Dopo che l'ebbe accompagnata a sedersi, l'hostess prese gentilmente il suo bagaglio e lo posizionò nell'apposito scompartimento.
─ Per qualsiasi cosa, non esiti a chiamarci,─ si congedò sorridente.
Agnes si sistemò sul comodo sedile della prima classe. Lasciò scorrere la mano sinistra lungo il collo teso e sospirò stanca.
E nonostante le fosse sembrato di aver atteso un'eternità, in realtà l'aereo partì dal JFK di New York  puntuale. L'arrivo era previsto per le nove di mattina, secondo il fuso di Londra.
Al pensiero della capitale inglese, Agnes chiuse gli occhi e fece un profondo respiro.
Stava tornando a casa. E poco importava se nei mesi precedenti aveva più volte raggiunto Londra per motivi di lavoro. Come le aveva ripetuto Astrid in quelle occasioni, quella non era la sua città, ma solo un posto come un altro dove sfilare o fare servizi fotografici. Ciò nonostante, durante quei giorni di permanenza, aveva sempre programmato tutti i suoi spostamenti con massima attenzione, in modo da evitare incontri difficili.
Adesso, invece, tornava a casa. E non tanto perché non aveva con sé il biglietto di ritorno. No, quello aveva poco a che fare con quel miscuglio di ansia e tepore che l'aveva presa nel momento stesso in cui aveva deciso di partire. Stava tornando da Colin, la persona che nonostante tutto aveva sempre significato casa e conforto.
Non era affatto sicura di quella scelta.
Quel lontano novembre in cui aveva lasciato l'appartamento di Brixton, aveva rinunciato ad entrambi. Da un lato sentiva di non poter stare con Ian,  non dopo averlo visto trattare in quel modo odioso il loro amico; dall'altro aveva dovuto tagliare ogni rapporto con Colin. Era assurdo, illogico sicuramente, ma sentiva che il suo venir meno alla promessa fatta a Ian sarebbe stato ancora più grave se non avesse rinunciato anche a Colin.
E così, per diversi mesi, non aveva risposto alle sue telefonate ed era arrivata a cambiare numero; anche Astrid, pur non condividendo la sua decisione, aveva evitato di parlare con Colin e vietato ad ogni reception di  passare loro qualsiasi telefonata.
─ Miss Dayle, vorrebbe cenare?
Una voce cortese la distrasse per un attimo dai suoi pensieri. Agnes annuì rivolgendo un breve sorriso all'hostess, che subito le porse il menù.
─ Preferisce carne o pesce?

Dicembre

"Agnes, vuoi carne o pesce?" Una voce aspra, ma non meno ansiosa le stava parlando. Poteva sentirla chiaramente nonostante avesse il cuscino sopra la testa.
"Ho già mangiato" mormorò sistemandosi meglio il cuscino per rendere chiaro il suo bisogno di dormire.
"Non abbastanza" replicò Astrid infastidita. Un attimo dopo con un gesto brusco le tolse le coperte e il cuscino, lasciandola sguarnita di ogni protezione.
"E va bene..." sbuffò guardandola di sbieco. “Decidi tu, per me è lo stesso."
L'altra annuì e, mentre si allontanava per chiedere il servizio in camera, le ordinò di alzarsi e vestirsi.
Per un momento Agnes ebbe voglia di fare quello che le aveva detto l'amica. Sì, avrebbe fatto una doccia, si sarebbe truccata e avrebbe scelto con cura i vestiti da indossare. Poi sarebbe uscita per un motivo che non fosse il lavoro, così...per il gusto di fare una passeggiata.
Ma il momento dopo questo slancio sfumò rapidamente. Scosse la testa e tornò a distendersi. Quando ebbe sistemato su di sé anche l'ultima coperta, chiuse gli occhi.
Dei brividi, che non avevano nulla a che fare con il freddo, la percorsero lungo le gambe, la schiena e le braccia: sentiva il suo corpo intorpidirsi, qualcosa dentro di lei farsi sempre più piccolo. Ad occhi chiusi riusciva a vedersi dentro, a vedere la sua fragilità esposta al mondo esterno. Senza nessuna protezione.

L'hostess tornò con la sua cena a base di carne. La ringraziò con un ampio sorriso, silenziosamente grata per averla distratta da quel ricordo spiacevole.
─ Ha fatto una buona scelta.
Si voltò alla sua destra e notò per la prima volta la donna che le sedeva accanto: le rivolgeva un sorriso cortese e luminoso.
─ Non che il pesce sia brutto; ma vede...─ si avvicinò appena in segno di complicità,─ sa di tutto fuorché di pesce!
Agnes si ritrovò a ridacchiare.
─ Piacere, Adina Marshall.─ si presentò porgendole la mano. La pelle ambrata, gli occhi scuri e dalla forma particolare, così come la leggera difficoltà con cui aveva pronunciato il suo cognome suggerirono ad Agnes che non si trattava della classica donna inglese.
─ Piacere, io...
─ Agnes Dayle, ovviamente.─ la interruppe l'altra.  ─ L'ho vista praticamente tutti i giorni, nelle ultime settimane.
Agnes trascorse la mezzora successiva ad annuire educatamente mentre la donna le raccontava la sua vita. Adina aveva origini brasiliane, aveva avuto un discreto successo come modella, ma aveva abbandonato le passerelle quando un giovane Lord inglese le aveva proposto di sposarlo.
Agnes finse di ignorare la nota malinconica che aveva adombrato gli occhi di Adina quando le aveva raccontato che durante le sfilate anziché guardare i begli abiti, si perdeva ad osservare le modelle, le loro espressioni e i loro gesti.
─ Va a Londra per motivi di lavoro?─  le domandò guardandola con occhi curiosi e vitali.

Maggio
"Ciao, Agy."
Quando sentì la voce di Colin, la tenerezza con cui aveva pronunciato il suo nome, gli occhi si inumidirono e portò una mano alla bocca per bloccare la commozione, come se se ne vergognasse.
"Non parli?" insistette lui. E Agnes immaginò il sorriso che doveva illuminargli il volto mentre pronunciava quelle parole.
"Così non vale: se mi chiami così, non posso non piangere," cercò di scherzare mentre con l'indice cacciava via le lacrime dagli occhi.
"E' quello che meriti dopo tutto questo silenzio."
"Colin, io..."iniziò a scusarsi, ma lui la interruppe subito.
"Agnes, sto scherzando. Non ti nascondo che in questi mesi ho provato anche rabbia nei tuoi confronti. Ma adesso...Non voglio nessuna spiegazione." concluse calmo e rassicurante.
Lei rimase in silenzio nel tentativo di calmarsi e non farsi prendere dall'emozione.
Poi parlarono e ad Agnes sembrò di essere seduta sul vecchio divano di casa o su una panchina di Hyde Park. Certo, c'era quel confine che non doveva mai essere superato: dovevano stare attenti a non parlare di ciò che li aveva divisi per tanto tempo. Ma fu più facile del previsto: Colin le raccontò delle riprese, degli attori e di Chuck Royce; lei parlò delle città che aveva visto, di eccentrici fotografi e di simpatici episodi che l'avevano interessata.
Una parte di lei ammirava la facilità con cui avevano recuperato la loro complicità. Ma c'era anche quell'altra parte, quella che si sentiva in colpa per tutta la felicità che le stava regalando quel momento insieme a Colin.
Era la stessa parte che l'aveva spinta a rinunciare all'amico, una parte che in ogni caso aveva messo a tacere quando aveva deciso di telefonargli.
Nel corso dei mesi l'aveva osservato da lontano, grazie agli articoli di giornale e alle interviste; e, nonostante le critiche e le domande insinuanti, questo le aveva permesso di assistere al suo lento cambiamento: Colin non si nascondeva più dietro battute spiritose e frasi strampalate; era serio e con le sue risposte trasmetteva un equilibrio tutto nuovo.
Quella sera, nell'appartamento che aveva affittato lì a Parigi, Agnes aveva guardato in tv l'ennesima intervista di Colin e, non appena la giornalista aveva nominato lei e Ian, era rimasta disarmata davanti al sorriso tirato e allo sguardo malinconico dell'amico. E si era arresa.
"Mi piacerebbe essere presente la sera della prima."
Per una volta fu Colin a tacere in difficoltà.
"Piacerebbe anche a me." mormorò dopo un po' di tempo.
"Ci sarò! Tra qualche giorno andrò a New York per alcune sfilate di Ferragamo. Sarò impegnata fino ai primi di luglio. Ma il 20 sarò lì con te, promesso."


Grazie ad Adina il tempo sembrò scorrere più rapidamente. Era una persona molto loquace e allegra, ma affatto invadente; rispettava i suoi silenzi e la distraeva dai pensieri più tristi. Guardarono un film e lo commentarono ampiamente dopo che fu finito.
A un certo punto, però, Adina si assopì e Agnes, fin troppo sveglia, controllò l'ora: erano ancora le due di mattina, secondo il fuso di New York. Poiché mancavano ancora due ore di viaggio, cercò qualcosa per impiegare il tempo e lo trovò proprio sul tavolino davanti al sedile di Adina. Allungò la mano e prese la rivista.
Appena ebbe sfogliato le prime pagine, però, rimpianse la sua scelta: c'era un intero articolo dedicato a Ian.
Come tutte le volte, non poté impedirsi di leggere nella speranza di scoprire qualcosa di lui. Ma le bastarono alcuni righi e le immagini per comprendere ancora una volta che non c'era traccia del suo Ian.
L'articolo parlava di un esibizionista pronto a tutto pur di fare scalpore; di un musicista che sprecava il suo potenziale con droghe e alcol; di denunce e arresti per lesioni e, infine, di una tournée andata complessivamente bene ma senza l'entusiasmo che aveva contraddistinto le prime esibizioni dei Fifth Beatle.
Il rapporto tra Ian e i giornalisti si era fatto ancora più teso e complicato: i fotografi gli stavano sempre con il fiato sul collo, perennemente pronti a ritrarlo in atteggiamenti scandalosi e mortificanti; lui, invece, era del tutto imprevedibile: c'erano volte in cui sembrava cercarli per dare il peggio di sé, cosa che aveva fatto quando nel corso di una festa aveva aperto le finestre e, insieme ad altri uomini visibilmente ubriachi, aveva quasi buttato dal primo piano una ragazza; e c'erano volte in cui si mostrava insofferente a qualsiasi attenzione, chiudendosi in un silenzio carico di tensione e arrivando in certi casi a picchiare quei fotografi particolarmente insistenti.
Agnes odiava gli articoli dedicati a Ian, perché ogni volta la illudevano di poterlo ritrovare, anche per un solo momento; odiava quelle fotografie, perché ritraevano un guscio vuoto e uno sguardo vacuo; e ancora di più sentiva di odiare i giornalisti e i fotografi, colpevoli, con la loro inopportuna invadenza, di accelerare l'inesorabile caduta di cui lei era stata la vera responsabile.
Agnes lo sapeva ormai da tempo: era colpa sua.

Febbraio

"Agnes, per favore..."
"Cosa c'è adesso?" domandò infastidita senza nemmeno sollevare lo sguardo dal tablet.
Vide di sfuggita Astrid fare uno sbrigativo cenno di scuse alla truccatrice e, appena quest'ultima si fu allontanata, tornò a parlare con quel tono piccato che tanto detestava.
"Guardati... Non riesci a farne a meno neppure quando sei a lavoro."
"Ma che dici? Stavo cercando di ingannare il tempo mentre Isobel mi truccava."
"Ah, ingannare il tempo..."ripeté l'altra malevola. "E come? Cercando articoli e foto su un certo musicista?"
Agnes poggiò il tablet sul tavolo e si voltò finalmente a guardarla: l'ansia e la preoccupazione erano fin troppo evidenti sul volto di Astrid; ma non poteva e non voleva darvi importanza in quel momento.
"Non sono affari tuoi."
L'amica scosse la testa mentre un sorriso beffardo prendeva spazio sul suo viso.
"Ma lo diventano quando ti trovo in lacrime dopo la sua ennesima bravata, vero? Agnes, devi lasciarlo andare. Se continui così..."
"L'ho già lasciato." la interruppe con voce improvvisamente acuta. Fece un profondo respiro per calmarsi e tornò a parlare: la voce forzatamente bassa. "Sarà infantile, forse masochista, ma hai ragione: non posso farne a meno. Io devo sapere come sta, cosa gli succede."
Astrid fece per parlare, ma uno sguardo di Agnes la fece desistere.
"Ti prometto che cercherò di non piangere più. Ma adesso lasciami stare."
Nel pronunciare le ultime parole aveva abbassato lo sguardo e ripreso il tablet tra le mani. Mentre Astrid si allontanava, probabilmente per cercare la truccatrice, Agnes si vide comparire sullo schermo le immagini di un noto locale londinese e di due persone avvinghiate su un divano rosso.
Non ebbe bisogno di leggere la didascalia per capire di chi si trattava. Avrebbe riconosciuto ovunque quelle dita affusolate che stringevano i capelli castani della donna.
Ian.
Non si concesse né lacrime né espressioni di dolore  mentre scorreva le foto una dietro l'altra. Si fermò solo quando ne trovò una in cui si intravedeva il suo volto, e in particolare gli occhi. Quello sguardo parlava di sfida e rancore ed era lo stesso che l'aveva ferita la notte in cui era venuta meno alla sua promessa. Quello sguardo era per lei.
Era colpa sua.

Assorta com'era nei suoi pensieri, impiegò qualche secondo per capire l'origine dell'improvviso chiarore all'interno della cabina: in lontananza stava nascendo il sole. Stranita guardò l'ora per poi ricordarsi del fuso orario. Si stava avvicinando all'Europa, stava arrivando a casa.
Ma quell'alba così repentina lasciò spazio, dopo pochi minuti, a una luce molto più intensa.
Era come se negli ultimi mesi il tempo si fosse fermato e adesso, a un passo da Londra, era tornato a correre troppo rapidamente e a prendersi gioco di lei, senza darle altra possibilità se non quella di lasciarsi trascinare dalla sua forza ineluttabile.

***

Era una calda domenica estiva; ma i londinesi rimasti in città non sembravano troppo scontenti di non trovarsi su una spiaggia assolata: i prati di Hyde Park erano gremiti di ragazze distese al sole e di ragazzi occupati ad inseguire un pallone; delle barchette si muovevano pigre sul Serpentine, la cui superficie era increspata da onde vivaci; c’era poi chi si ostinava a leggere all’ombra di un albero nonostante le occasionali urla dei bambini che, divertiti, cercavano di catturare gli scoiattoli o le oche.
Seduta su una panchina posta sulla riva del lago, Agnes ricordò i primi tempi della sua vita lì a Londra, e in particolare come fosse solita rifugiarsi in uno di quei grandi parchi e trascorrere il suo tempo ad osservare la gente che le passava accanto. Era qualcosa che non faceva da tempo, un lusso che non si era più potuta permettere.
Dentro Agnes non c’era un vuoto da colmare, ma tutto il contrario. Anni prima aveva desiderato qualcosa di più che una semplice esistenza in un piccolo angolo di mondo, ma non aveva idea che ci sarebbe stato un simile prezzo da pagare. Dentro di lei, infatti, non c’era spazio per nulla: né amicizie né amori, né interessi né passioni. Tempo addietro aveva avuto tutto quello che aveva sempre desiderato; poi le circostanze glielo avevano sottratto e lei aveva perso interesse per ciò che la circondava.
Non c’era niente che potesse competere con quello che le aveva regalato Londra. Non c’era nulla con cui barattare ciò che le era rimasto della sua passata felicità.
─ Sei sempre stata un tipo sentimentale.
Non dovette impiegare neanche un momento per riconoscere la voce che aveva parlato alle sue spalle.
─ Proprio questa panchina poi…
Quando sentì le mani posarsi sulle sue spalle, piegò il capo nel tentativo di cacciare via le lacrime. Non voleva mostrargli per l’ennesima volta la sua fragilità. Voleva solo sorridergli, senza nessuna nota malinconica a rovinare quell’incontro.
─ Come hai fatto? Hai dovuto scacciare malamente il povero vecchio che l’aveva già occupata?
E sorrise scuotendo la testa: era sempre lui, non avrebbe detto nulla sui suoi occhi umidi.
─ No, ho dovuto pagarlo.─  rispose mentre si voltava a guardarlo. Poteva avvertire lei stessa come il sorriso che le illuminava il viso fosse il più sincero degli ultimi mesi.
E nonostante tutto, quando incontrò gli occhi verdi e luminosi di Colin, non pianse: la felicità era così grande da impedire a qualsiasi altra emozione di sopraffarla.
Non appena le si sedette accanto, Agnes ebbe bisogno di toccarlo, per essere certa che fosse proprio lì con lei: gli prese una mano tra le sue.
Iniziarono a parlare quasi subito, senza nessuno strano imbarazzo né recriminazioni: c’era solo la voglia di parlare e di assaporare la voce dell’altro. Quando Colin le raccontava qualcosa di cui lei era già a conoscenza, Agnes lo ascoltava comunque senza fermarlo o mettergli fretta; e da come la guardava, anche Colin sembrava preso da quella stessa smania.
Si interruppero solo quando cominciarono ad avvertire fame e decisero di lasciare la panchina che avevano occupato nell’ultima ora.
Mentre camminavano verso l’uscita del parco, Agnes si fermò bruscamente.
Attirato dal suo borbottio carico di astio, Colin si fermò a sua volta e si voltò a guardarla incuriosito.
─ Che c’è?
─ Fotografi.─ rispose facendo un cenno ai due tizi che poco più avanti li stavano già fotografando.
Colin si strinse nelle spalle e, dopo averle preso la mano, se la trascinò dietro.
─ Non ci pensare. Gli passeremo davanti, faranno le loro foto e poi ce ne andremo a pranzo.
Nelle città in cui aveva vissuto negli ultimi mesi, Agnes aveva smesso di essere oggetto della morbosa curiosità dei tabloid e dei paparazzi. Nonostante il suo nome fosse ormai associato ai grandi stilisti e alle più rinomate case di moda, a Parigi e a New York Agnes Dayle era una semplice modella e non l’apice di un allettante triangolo amoroso.
Non era più abituata a quell’attenzione; non le era mancata e non la voleva.
Colin tornò a parlare con quel tono allegro e incurante che aveva caratterizzato le loro chiacchiere fino a quel momento. Voleva distrarla, questo era chiaro; ma quell’indifferenza la colpì comunque.
─ A te non danno fastidio?─ sbottò all’improvviso.
Colin la guardò con una strana smorfia sul viso.
─ Ci sono abituato.─ rispose tranquillo. ─ E a dirla tutta credo che li abbia mandati qualcuno della produzione!─  le rivelò senza dare cenno di impazienza.
Dopo aver riso davanti alla sua espressione incredula, riprese a parlare.
─ Funziona così, tesoro. Io sono lo strumento per pubblicizzare il film e credimi, ricorrerebbero a qualsiasi cosa pur di assicurare successo al film.
─ E tu li lasci fare?
─ Ho la fortuna di fare quello che ho sempre sognato. Non mi sembra un prezzo così caro…
Presa com’era dalle parole di Colin e da quell’espressione seria e risoluta che poche volte gli aveva visto, Agnes si rese conto troppo tardi di essere arrivati davanti ai fotografi. Non ebbe nemmeno il tempo di mettere su la maschera di indifferenza che in passato l’aveva sempre salvata da quelle situazioni.
Così, quando i fotografi iniziarono a fare domande insinuanti apposta per provocarla, lei non si mostrò affatto preparata.
─ Siete tornati insieme?
─ Perché ha lasciato Londra?
─ Ha perdonato Colin per i suoi tradimenti?
─ Dove avete lasciato Ian?
Agnes si fermò fremente di rabbia e li guardò con sufficienza uno per uno. Stava per parlare quando avvertì la mano di Colin stringere la sua in segno di avvertimento.
Ripresero a camminare e, solo quando furono nell’auto di Colin, si accorse del peso che aveva sullo stomaco. Detestava quell’aspetto del mondo in cui aveva scelto di vivere. Poteva sembrare un’ingrata forse, ma era più forte di lei: cosa c’entrava quella intromissione nella sua vita personale con il suo lavoro? Chi diceva che dovevano pagare un prezzo per il successo?
Uno strano brivido la colse quando si domandò quanto potesse essere alto il prezzo da pagare.
Durante il pranzo riuscirono ad accantonare il fastidioso episodio e ripresero a chiacchierare allegramente del più e del meno: l’argomento intorno al quale ruotava la loro attenzione era l’uscita di Somewhere, Somehow.
─ E quindi avrò l’onore di vederti in smoking?─ lo prese in giro quando le ebbe raccontato del suo disperato tentativo di convincere la produzione che quel tipo di abbigliamento non fosse adatto a lui.
Stranamente Colin non rispose alla sua battuta, ma le rivolse uno sguardo particolare: era dolce e carico di malinconia.
─ In realtà vorrei parlarti proprio di questo…─ disse con tono improvvisamente serio.
─ Che c’è? Non hai trovato un biglietto per me?─ chiese senza capire dove volesse arrivare.
Le sorrise mentre con una mano si lisciava la guancia ricoperta di un sottile strato di barba.
─ La prima è il venti luglio…
─ Questo lo so.
Ogni traccia di sorriso era venuta meno; si guardavano attenti, come a volersi valutare a vicenda.
─ Quella sera c’è il suo ultimo concerto.
Quelle parole la colpirono da qualche parte dentro di lei, costringendola a scostarsi da Colin…come se fosse stata ferita davvero.
─ So anche questo.─ gli rispose fingendosi indifferente.
─ Voglio che tu vada da lui.
Ebbe l’impulso di alzarsi e dargli uno strattone, uno schiaffo, qualsiasi cosa pur di togliergli quell’espressione convinta dal viso. Ciò nonostante riuscì a mantenere il controllo di sé, ma quando parlò la sua voce uscì gelida.
─ Credo che questa scelta spetti a me.
─ Agy, ascoltami. Mesi fa hai scelto me, hai anteposto me a lui. Lo apprezzo e ti sarò grato per sempre; ma ora Ian ha bisogno di te.
Deglutì a fatica mentre si stringeva le braccia addosso, come a volersi proteggere.
─ Io l’ho lasciato per me stessa; tu non c’entri nulla.
Lo vide annuire, ma senza perdere quel cipiglio sicuro con cui le aveva parlato fino a quel momento.
─ Se non provi più nulla per lui, allora fallo per me: va’ al concerto e accertati che Ian stia bene.
Davanti al suo silenzio, Colin si mise una mano in tasca e tirò fuori due biglietti.
─ Questo è il pass per la prima del film. Se verrai sarò felice di averti accanto,─ le spiegò mentre ne posava uno vicino a lei. ─ Questo invece è il numero dell’agente di Ian. Si chiama Wilson, non so se ricordi. Basterà una tua telefonata e ti farà entrare.
Occupata a guardare i due biglietti, lo sentì mormorare piano: ─ Pensaci.

***

La notte prima aveva fatto uno dei suoi soliti incubi: erano venuti a trovarlo i suoi fantasmi e lo avevano processato per tutte le sue debolezze. Suo fratello Daniel lo aveva accusato di inettitudine, rinfacciandogli che lui aveva avuto almeno il coraggio di togliersela quella vita che non aveva saputo mandare avanti; i suoi genitori lo avevano accusato di aver convinto il fratello ad uccidersi, nella vana e ridicola speranza di ricevere il loro affetto; il suo maestro di musica lo aveva accusato di essere stato un totale spreco di tempo.

In quel momento stava scontando la sua pena: suonare su un palco vuoto davanti a migliaia di persone, il che rappresentava il suo più grande desiderio e la sua più grande paura.
Qualche ora prima era successo di nuovo: per tutto il giorno si era ripetuto che tutto sarebbe andato bene e che non ci fosse nulla da temere; poi, quando mancava poco meno di mezzora all’inizio del concerto, era tornato il familiare peso al petto e il respiro si era fatto doloroso. Il suo corpo aveva manifestato così ciò che lui si ostinava a ignorare: il suo rifiuto di salire sul palco. Quel male lo prendeva tutte le volte che doveva dare inizio a un concerto, ma per fortuna Ian aveva scoperto qualcosa che riuscisse a farglielo passare per tutta la durata dell’esibizione.
Giunto quasi alla fine del concerto, però, gli effetti dell’LSD andavano scemando. Aveva la sensazione di trovarsi sull’orlo di un precipizio, il timore che a momenti sarebbe sprofondato in quella realtà che tanto lo spaventava.
Concluse la canzone e, mentre la folla urlava parole sconnesse e incomprensibili, chiuse gli occhi e fece un profondo respiro nel tentativo di cacciare via l’ansia che lo aveva preso.
Quando riprese a cantare, distolse lo sguardo dal pubblico e lo portò su un angolo alla sua destra. Aveva chiesto a Wilson di lasciare quello spazio vuoto e di vietare l’ingresso a chiunque; l’agente aveva accolto quella strana richiesta, senza nemmeno cercare spiegazioni.
Scosse la testa appena gli fu chiaro che l’LSD stava facendo ancora il suo effetto.
In quell’angolo poco illuminato, dove lui aveva l’abitudine di rifugiarsi quando lo prendeva l’ansia, c’era lei.
Stava all’in piedi a braccia conserte. Purtroppo non poteva vederla bene in viso: era troppo lontana. Evidentemente anche le sue allucinazioni si prendevano gioco di lui. Ma poco importava: avrebbe guardato la sua allucinazione e avrebbe cantato per lei.
Con la sua musica e la voce rauca le parlò del vuoto che aveva dentro e di come era la sua vita senza lei, le chiese perdono per tutto ciò che le aveva fatto, la pregò di tornare. E per tutto il tempo desiderò che lei fosse davvero lì, che non fosse una maledetta allucinazione.
Quando la vide voltargli le spalle, trattenne il respiro e per un attimo dimenticò le parole della canzone.
Forse per una volta aveva ottenuto ciò che voleva.
Ma nel momento stesso in cui quella fievole speranza lo ferì, l’angolo tornò vuoto.
Per il resto del concerto, che scivolò via con una lentezza esasperante, Ian non osò più guardare in quella direzione: dopo la sua comparsa, non avrebbe più potuto sopportare la vista di quell’angolo buio.
Arrivato nel camerino, si ritrovò nervoso e irrequieto: non riusciva a stare fermo, si portava continuamente le mani tra i capelli, si guardava intorno confuso. Sentiva di dover fare qualcosa, di dover capire se quella sera, dopo mesi di silenzio e assenza, lei era stata davvero a pochi passi da lui.
Prese il cellulare e fece quella dannata telefonata.
Stava quasi per riattaccare, quando all’altro capo del telefono una voce affaticata e assonnata disse “pronto”.
─ Sono Ian…─ disse con tono distaccato.
─ Sì, me l’aveva suggerito il display del cellulare.
Ian si sistemò su una poltrona, senza preoccuparsi di nascondere il sorriso pigro che gli era appena comparso sulle labbra.
─ Com’è andata la prima del film?
─ Non c’è male. Dopotutto è solo l’inizio…
─ Sei sempre stato bravo a fingerti spavaldo.─ commentò sorridendo.
─ A te com’è andato il concerto?
─ Non c’è male. Dopotutto era l’ultimo.─ rispose usando lo stesso tono indifferente dell’altro.
Cadde un pesante silenzio e fu Colin a interromperlo, andando finalmente al punto.
─ Perché questa telefonata?
─ Lei…─ disse a fatica, ─ Lei era qui stasera.
Se fino a un momento prima aveva avuto un minimo dubbio che l’avesse solo immaginata, ormai era sicuro: glielo aveva suggerito il tono per nulla sorpreso con cui Colin aveva accolto la sua telefonata.
─ Sì, lo so.
Benché ormai se ne fosse convinto, quella conferma fredda e noncurante gli tolse comunque il respiro.
─ Io non capisco.─ ammise confuso.
─ Cosa c’è da capire?─ gli domandò l’altro infastidito.
─ Colin, sono passati mesi. Io credevo che…
─ Cosa credevi?─ sbottò all’improvviso. ─ Che se avessi dato il peggio di te, Agnes ti avrebbe cancellato? Che bastassero foto patetiche e articoli disgustosi per farla dimenticare?
─ In tutta onestà non so più cosa pensare. Ti ho telefonato proprio perché voglio capire.
─ Mi hai telefonato perché sei un idiota. Non è a questo numero che devi cercare spiegazioni.
─ Lo so, ma dopo tutto questo tempo…
Nervoso, prese una sigaretta dal pacchetto e, solo quando se la mise tra le labbra, si rese conto che in realtà si trattava dello spinello che qualche ora prima aveva nascosto lì. Lo accese comunque e fece un tiro lento e profondo.
─ Senti, sono solo stronzate.─ lo interruppe per l’ennesima volta. ─ Hai paura e lo capisco. Ma lei stasera era al concerto, ha scelto di essere lì con te.
─ Non mi ha cercato però.─ commentò lapidario.
Se veramente avesse voluto tornare da lui, si sarebbe fatta vedere. Invece era andata via proprio quando lui l’aveva notata.
─ Ian, stavolta tocca a te.─ gli rispose duro. ─ E credimi, se neanche stavolta farai nulla, io farò in modo che lei si dimentichi davvero di te.
Mentre un nuovo tiro gli fece andare in fiamme la gola e i polmoni, guardò la cenere cadere ai suoi piedi.
─ Ne saresti in grado?
─ Sì, ci riuscirei.─ gli rispose semplicemente.
─ Se fossi meno egoista credo che te lo lascerei fare.
─ Se fossi più egoista credo che lo avrei fatto già da tempo.
Ian si morse un labbro nervoso e parlò solo quando ebbe fatto un ultimo tiro particolarmente profondo ed ebbe spento lo spinello sul posacenere.
─ Dove la trovo?

***

Si sistemò sul divano e dalla tasca dell’elegante smoking tirò fuori il pacchetto di sigarette; poi, resosi conto di non aver voglia di fumare, lasciò cadere il pacchetto accanto a lui. Rivolse un’occhiata tetra all’altra mano, quella che ancora stringeva il cellulare che aveva usato fino a un attimo prima.
Quando aveva finito di dettare il nuovo numero di Agnes e l’indirizzo dell’hotel in cui alloggiava, per diversi minuti nessuno dei due aveva più parlato: erano rimasti in silenzio, ognuno preso a ricordare come fossero arrivati a quel punto.
In quei lunghi minuti Colin avrebbe voluto dire tante cose, iniziando con delle semplice scuse: si sarebbe scusato non per aver scelto una strada diversa da quella che avrebbe voluto Ian, ma per non averne parlato quando era in tempo; sì, gli sarebbe piaciuto scusarsi per non aver creduto nella loro amicizia e per aver pensato che senza quell’interesse ad unirli non ci sarebbe stato nient’altro che li avrebbe tenuti insieme.
Nel silenzio di quella telefonata, qualcosa gli aveva suggerito che anche Ian avrebbe voluto scusarsi.
Ma poi Colin si era detto che meritavano di più che delle scuse frettolose per telefono; si era convinto che avevano molto tempo a disposizione e la loro amicizia avrebbe potuto aspettare un altro po’; e così, quando aveva parlato, gli aveva detto semplicemente di andare da lei.
─ Chi stavi minacciando al telefono?
Quella domanda assonnata e velata da un cenno di ironia lo colse alla sprovvista. Assorto com’era nei suoi pensieri, non l’aveva sentita arrivare alle sue spalle.
─ Un idiota.─ rispose con un ghigno stentato.
La osservò sedersi sul divano e portare entrambe le gambe sul cuscino; davanti al suo abbigliamento discinto e l’espressione del viso appena corrucciata, si sentì in colpa per averla lasciata da sola in camera. Si stava per scusare, quando lei gli fece un’altra domanda.
─ E chi convincerai a dimenticarsi di Ian?
Le rivolse uno sguardo fintamente severo ma, anziché accusarla di aver origliato la telefonata con Ian, la abbracciò e la avvicinò a sé.
─ Nessuno. Non credo sia possibile e non lo farei in ogni caso.─ le mormorò all’orecchio, mentre le mani scivolavano sui suoi fianchi.
Ben lontana dall’essere ammaliata dalle sue carezze, Serena si voltò all’improvviso verso di lui e quasi lo colpì sul naso.
─ Perché l’hai fatto?
Scosse la testa esasperato, ma quando le rispose usò un tono serio: ─ Perché merita di essere felice.
─ Agnes?
Lui le rivolse un sorriso indecifrabile e si sistemò meglio sul divano. Le rispose tenendo lo sguardo fisso davanti a sé.
─ Sì, anche Agnes. Ma nonostante lei non lo creda possibile, nonostante negli ultimi mesi abbia praticamente rifiutato di mandare avanti la sua vita, Agnes potrebbe essere felice anche senza di Ian. Forse sarebbe quel tipo d’amore che richiede troppi compromessi, qualcosa di tiepido che per quanto ci provi non ti riscalda mai dentro. Ma il tempo l’aiuterebbe a dimenticare e ad accettare una felicità mite, ma continua.
Ian è diverso: non è fatto per i compromessi; una volta scelto qualcuno, quella scelta è assoluta e non ammette condizioni o ripensamenti; lui ama e lo fa fino in fondo ed inevitabilmente esige di essere amato con la stessa folle intensità. Un amore tiepido non fa per Ian, quel genere di amore lo ucciderebbe.

***

Le era mancato girovagare per le strade di Londra senza una meta. Abbandonato il concerto, aveva preso un taxi che l’aveva lasciata a Piccadilly e da lì aveva proseguito a piedi, perdendosi tra i vicoli affollati di giovani turisti che non l’avevano riconosciuta. Era qualcosa di straordinariamente confortante.

Quando giunse davanti all’hotel che l’ospitava era quasi l’alba. Sbuffò al pensiero che di lì a poche ore avrebbe dovuto essere ad un incontro di lavoro: alle nove di mattina, infatti, avrebbe conosciuto i membri di un’associazione no profit che da tempo cercavano di mettersi in contatto con lei per un progetto. Aveva approfittato della sua venuta a Londra per acconsentire finalmente a quell’incontro.
Il cellulare tornò a squillare per l’ennesima volta.  Era un numero sconosciuto. Lo ignorò mentre saliva la gradinata che conduceva all’ingresso dell’hotel. Era sicura che a telefonare era Colin, desideroso di raccontarle della prima, ma soprattutto di chiederle di Ian.
Ma lei non aveva nulla da dirgli, perché quella sera non aveva visto Ian.
Richiamò alla mente  il volto emaciato e lo sguardo distante e perso chissà dove del giovane che aveva osservato sul palco qualche ora prima; poi ripensò a come le fosse apparsa  fredda la sua voce e indifferente la sua musica, prive di quella scintilla che aveva sempre contraddistinto entrambe.
Non c’era traccia di Ian in quell’estraneo.
E quando si era voltato nella sua direzione e l’aveva riconosciuta, Agnes aveva dovuto voltargli le spalle. Mentre attendeva che l’ascensore arrivasse al suo piano, realizzò il motivo di quella scelta impulsiva: aveva avuto paura di lui e della sua reazione nel ritrovarsela davanti dopo mesi.
Non avrebbe più potuto sopportare un altro sguardo carico di risentimento da parte sua.
Quei pensieri  accesero dentro di lei il senso di colpa, un vecchio e amaro compagno ormai. Lasciò l’ascensore e impiegò un po’ di tempo ad individuare il corridoio in cui si trovava la sua camera.
Quando vi giunse, però, si dovette fermare.
C’era un uomo seduto sul pavimento con le spalle poggiate alla parete. Le lunghe gambe piegate contro il busto e le braccia posate sulle ginocchia lo facevano apparire come un ragazzino indifeso e vulnerabile; lo sguardo fisso sulla parete e le labbra serrate parlavano di un dolore che chissà per quale ragione sembrava  nato insieme a lui.
Non si era accorto della sua presenza o forse le stava dando la possibilità di voltargli le spalle e allontanarsi. Chiuse gli occhi per decidere cosa fare e ripensò a tutte le volte che, consapevole o meno, Ian l’aveva ferita: c’era un limite al male che poteva accettare da parte sua e quel limite era già stato superato.
Avrebbe dovuto lasciare quel corridoio: lo doveva al suo orgoglio ferito e all’amore che nutriva per se stessa; lo doveva a tutte quelle mattine in cui si era costretta ad alzarsi dal letto e alle lacrime che aveva versato in silenzio; lo doveva a quella parte di lei che a un certo punto si era spenta a causa sua.
Si disse tutto questo mentre camminava verso lui. Non poteva fare altro, perché da quando lo aveva conosciuto ogni passo era stato nella sua direzione,  testardi tentativi di avvicinarsi alla parte più nascosta di Ian, quella che aveva scorto solo in rare e preziose occasioni.
Sebbene avesse mille motivi per andare via, le bastava un’unica ragione per non farlo: lo amava. Nonostante i suoi difetti e il dolore, nonostante il tempo e la lontananza, non aveva mai avuto dubbi su questo: lo amava e lo amava semplicemente, senza ostacoli né ripensamenti. Anche quando era andata via, ancora di più quando era andata via.
─ Cosa stai facendo?
Lo vide sollevare il capo e farle dono di quello sguardo che tante volte le aveva tolto il respiro: occhi chiari, occhi innocenti di chi ha una visione tutta sua del mondo e la vede continuamente frustrata dalla realtà.
─ Aspetto te.─ le rispose con un sorriso incerto.
─ Perché?─ gli domandò cercando di mantenere un controllo che aveva perso nell’esatto momento in cui aveva messo piede in quel corridoio.
Anziché risponderle, Ian si alzò a fatica dal pavimento: la lentezza dei suoi movimenti, così come  le pupille dilatate dei suoi occhi resero fin troppo evidente le sue condizioni.
─ Come sei arrivato qui?─ chiese senza nascondere la preoccupazione.
La guardò stranito e rispose scrollando le spalle: ─ Guidando.
─ Ian, perché sei qui?─ insistette.
La guardò improvvisamente stanco e quando parlò la voce risuonò ancora più bassa del solito.
─ Voglio solo parlare.
Agnes annuì e, avvicinatasi alla porta, la aprì e gli fece spazio per farlo entrare.
Quando furono entrambi dentro la camera buia, chiuse la porta e accese la luce.
Senza guardarlo andò vicino alla grande finestra e, mentre osservava sorgere l’alba, sorrise.
─ Hai mai notato che i momenti più importanti della nostra storia sono avvenuti di notte o al sorgere del sole?
─ Sì, lo trovi romantico?─ le domandò alle sue spalle.
Agnes scosse la testa in segno di diniego.
─ È come se la nostra storia fosse solo un sogno,─ gli spiegò senza distogliere lo sguardo dal sole che iniziava a scorgersi in lontananza. ─ Come se potessimo viverla solo di notte, in una dimensione che di reale non ha nulla. E non sai cosa significa per me ogni volta… Poter sfiorare la bellezza del tuo mondo, avere la possibilità, anche per un solo momento, di vedere la realtà con i tuoi occhi e poi scorgere l’idea che hai di me, un’idea perfetta quanto dolorosa.
Ma poi il sole sorge, portando con sé la realtà. E quel sogno, così fragile nonostante la sua intensità, inevitabilmente svanisce.
Lo sentì avvicinarsi e, non appena posò le mani sulle sue spalle, socchiuse gli occhi e lasciò scorrere le lacrime: non avrebbe potuto fermarle neanche se avesse voluto.
─ Mi senti?─ le domandò rafforzando la presa. ─ Questo è reale. Io sono qui…─ le mormorò all’orecchio.
Agnes piegò appena il capo fino a sfiorare con la guancia quella di lui, mentre le spalle tremavano e si facevano più piccole sotto il suo tocco.
Ian le posò delicatamente le labbra sulla guancia e rimasero fermi a guardare il sole sorgere, come a volerlo sfidare a togliere loro quel legame di cui entrambi avevano bisogno.

***

L’aveva ascoltata parlare senza interromperla e, messo davanti a tutta quella malinconia, aveva fatto l’unica cosa possibile: avvicinarsi a lei e toccarla.

Per tutto il tempo che la tenne abbracciata a sé, Ian cercò le parole adatte a quel momento: avrebbe voluto scusarsi, raccontarle di com’era stata la vita senza di lei e dello spazio vuoto che gli aveva lasciato dentro.
Ma poi Agnes voltò le spalle alla finestra e finalmente si ritrovarono una di fronte all’altro e la vista di quegli occhi blu gli fece dimenticare l’importanza delle parole.
La strinse a sé e, ignorando il tremore alle mani, la baciò. Quando sentì le labbra di lei cedere e farsi morbide, qualcosa lo raggiunse dentro e lo riscaldò fino a bruciarlo: era lei, la sensazione di averla lì con sé.
Quell’emozione così intensa, la prima che provava da mesi, lo spinse a stringere la presa sui suoi fianchi, fino a sentirla mugugnare qualcosa. Portò la mano sulla sua guancia e la accarezzò con delicatezza, come a chiederle perdono per la sua irruenza. Ma scosse la testa, quando gli fu chiaro che non sarebbe riuscito ad essere cauto come avrebbe dovuto: aveva bisogno di lei, del suo corpo e del suo abbandono. Voleva sentire quel calore che lo aveva scosso dentro e così colmare quel maledetto spazio vuoto.
Agnes si scostò un attimo da lui, puntandogli addosso i suoi occhi lucidi; lui abbassò il capo per sfuggire a quello sguardo attento, sentendosi in colpa per aver avanzato simili pretese.
Ma un attimo dopo lei lo colse alla sprovvista, portandogli le braccia intorno al collo e riprendendo il bacio che avevano interrotto poco prima, timida e seducente come solo lei sapeva essere.
Non poté impedirsi di sorriderle contro le labbra mentre con le mani percorreva il suo corpo sottile; non le tolse lo sguardo di dosso mentre lentamente la spogliava e si lasciava spogliare; e non smise di baciarla, mentre cercavano il letto e, in questa ricerca, urtavano sedie e facevano cadere oggetti.
Fecero l’amore come se fosse la prima volta, incuranti del sole che si stava sollevando alto nel cielo.
Fecero l’amore come se fosse l’ultima: si persero e si ritrovarono l’uno nell’altra.
E quando la stanchezza ebbe la meglio su di loro, Ian la baciò morbidamente sulla guancia e le rimase accanto.
La guardò chiudere gli occhi e, nonostante il sonno, si rifiutò di fare altrettanto. Continuò ad osservarla, studiando ogni suo tratto e ogni piccola smorfia. Neanche si rese conto che aveva iniziato a canticchiare tra sé.
─ Cosa canti?─ gli domandò ad occhi chiusi.
─ Niente di che… una canzone a cui sto lavorando da un po’.
─ È bella. Cosa dice?─ sussurrò con voce assonnata.
Ian sorrise e con un dito le scostò qualche ciocca scomposta dalla fronte. I capelli erano ancora biondissimi, ma erano cresciuti. Come anche lei, del resto.
Tu mi rendi reale.
─ Ed è una cosa buona?─ domandò con finta ingenuità.
─ Direi stupenda.
Da quando aveva memoria, a Ian non era mai importato molto di ciò che aveva intorno: aveva la musica e qualche romanzo e per il resto trovava ciò di cui aveva bisogno in sé. La realtà gli era sempre apparsa insidiosa ed estranea, a volte anche prevedibile.
Poi aveva conosciuto Agnes ed era avvenuto il cambiamento, lento ma inevitabile: in lei aveva finalmente trovato qualcosa che lo ancorasse alla realtà; grazie a lei il suo mondo diventava sostanza, qualcosa di tangibile con le mani oltre che con lo spirito.
Agnes lo rendeva reale.
─ Che ore sono?─ domandò stiracchiandosi contro di lui.
Ian diede un’occhiata distratta alla sveglia e rispose: ─ Le 8:15. Hai da fare?
Dal brontolio infastidito capì di aver indovinato.
─ Ho un incontro di lavoro.─ gli spiegò mentre si alzava.
Andò in bagno e tornò poco dopo avvolta in un accappatoio; si vestì in fretta senza fare attenzione a ciò che indossava e finalmente si voltò nella sua direzione.
─ Mi dispiace lasciarti da solo; ma ho detto che sarei andata e…
─ Non preoccuparti,─ la interruppe tranquillo. ─ Mi troverai al tuo ritorno.
Agnes gli rivolse un sorriso carico di imbarazzo e gli andò vicino.
─ Bene. A dopo amore.
Un fugace bacio e lasciò la stanza.

***

La doccia calda non aveva aiutato a rilassarlo e, nonostante la profonda stanchezza, qualcosa gli aveva impedito di prendere sonno.

Un pensiero fisso…
Quella mattina, quel 21 luglio, sembrava tutto perfetto: tra qualche ora Agnes sarebbe tornata dall’incontro di lavoro e lui sarebbe stato lì ad attenderla.
Ma mancava qualcosa perché tutto tornasse al suo posto.
Fu sufficiente qualche telefonata per scoprire in quale hotel alloggiasse il suo vecchio amico; si vestì rapidamente, prese le chiavi e uscì: se avesse fatto in fretta, sarebbe tornato prima di lei.
Quando ebbe preso posto sul sedile, fu abbagliato da un raggio di sole: era il giorno giusto per il cambiamento, il momento migliore per mettere a posto quella parte di lui che era nata sbagliata.
Fermo ad un semaforo, accese la radio e si ritrovò a sorridere non appena riconobbe una delle sue canzoni preferite.
Mentre a voce bassa accompagnava Morrissey, pensò che gli sarebbe piaciuto creare qualcosa di così perfetto come Please degli Smiths: perfetto perché era così breve che, nel preciso momento in cui eri completamente coinvolto, il pezzo finiva, lasciando un malinconico rimpianto che non si riusciva mai ad appagare.
A un certo punto qualcosa riflesso sullo specchietto attirò la sua attenzione. Tornò a guardarlo e allora capì: una macchina lo tallonava da dietro. Non servì chissà quale riflessione per capire che si trattava di qualche fotografo alla ricerca di notizie.
Allora scosse la testa e sbuffò irritato ma, appena riportò l’attenzione sulla strada, qualcosa lo abbagliò togliendogli la vista.
Il tempo smise di correre mentre Ian si passava la mano sugli occhi nell’insensato tentativo di cacciare via le immagini che gli passavano davanti. Poi un violento fragore e una forza inarrestabile travolsero il suo corpo.
Il tempo riprese il suo normale cammino.
Ian non tentò nemmeno di liberarsi dalla ferraglia che teneva il suo corpo incastrato, ma rimase immobile senza nemmeno chiedersi come mai si trovasse sull'asfalto rovente e gli occhi fissi sul cielo di metà luglio.
Mentre le forze gli venivano meno e sentiva qualcosa di umido scivolargli lungo la tempia, un pensiero illogico gli attraversò la mente: c'era qualcosa di profondamente sbagliato nel sole accecante che gli illuminava il volto.
Avrebbe preferito il buio, la pioggia, la tempesta. E, invece, si ritrovava avvolto in una torrida giornata estiva, immerso in una luce calda quanto beffarda.
Affaticato, socchiuse gli occhi, senza tuttavia distoglierli dal sole.
Mormorò una preghiera a denti stretti, o forse la pensò soltanto. O magari stava sognando ed era morto da tempo.
Ti prego, ripeteva. Ti prego.
Lasciami prendere ciò che voglio.
Almeno stavolta.
Per una volta.
Solo il silenzio accolse quella preghiera. E poco dopo anche la luce sparì dai suoi occhi.
Giunse il buio e se ne andò portando Sutcliffe con sé.









Note:
Pubblico questo capitolo quasi controvoglia. In questi giorni avrei dovuto studiare, ma Down esigeva di essere scritta e quindi eccomi qui. Non dirò nulla su questo capitolo, non perché mi manchi la voglia, ma perché avrei troppe cose da dire.
Credo sia importante precisare cosa succede a Ian mentre è alla guida. Quando una persona fa uso di LSD può capitare che dopo giorni o addirittura mesi dall'assunzione subisca il cosiddetto flashback: un'allucinazione che non può in alcun modo controllare.
Voglio solo dire questo a chi pensava che Sutcliffe fosse Colin: non avete sbagliato. Il motivo lo spiegherò nel prossimo e ultimo capitolo.
Vi lascio la musica che mi ha fatto compagnia in questi giorni: Until we bleed  e  Tonight di Lykke Li; Blissed and gone degli Smashing Pumpkins; e ovviamente Please, please, please let me get what I want degli Smiths di cui vi consiglio di leggere il testo.
Ora devo uscire e starò fuori tutto il giorno. Al mio ritorno risponderò alle recensioni al precedente capitolo. Vi chiedo scusa per non aver ancora risposto, ma come ho accennato a breve avrò un esame.
Ringrazio TriggerHappy per lo splendido banner che fa da copertina a Down in a Hole. Ringrazio chi legge e chi recensisce.
Al prossimo capitolo,
Agnes.






   
 
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