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Autore: Sylphs    22/02/2012    1 recensioni
Ehilà! Ho scritto questa favola un po' folle quando avevo 14 anni ed è in assoluto il primo romanzo che ho finito a quell'epoca, perciò ho deciso di tentare la sorte e pubblicarlo su efp, confido nella vostra pietà :) la storia si ispira alla mia fiaba preferita, "La bella e la bestia", salvo che la protagonista è un peperino ed è tutto fuorché una graziosa fanciulla. Spero che qualcuno leggerà!
Genere: Azione, Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 3

 
 
 
 
 
 
Il marchese rimase immobile al limitare della radura, sopraffatto dallo stupore e dalla sorpresa. Fissava, con un misto di paura e di interesse, l’enorme castello che incombeva nella notte, simile ad un titano imponente e minaccioso. Era costruito con guglie aguzze e statue mostruose che facevano capolino da ogni lato, sbarrato da un pesante portone di ferro chiuso da due battenti a forma di testa di diavolo. Le finestre erano pozzi neri di buio, le torri fragili monumenti investiti dal chiarore lunare. Sembrava un maniero disabitato che era stato conquistato dagli spiriti della foresta.
Il marchese accennò qualche passo in quella direzione, intimorito. Mille domande gli affollavano la mente: chi viveva in un posto simile? Dove si trovava? Avrebbe trovato ospitalità? Di certo, non era né a Soledad né a Borgofiorito. Si strinse nel leggero mantello da viaggio. Fuori dagli alberi, sentiva ancora più freddo. E fame. E sonno. Doveva almeno tentare di ricevere ospitalità. Tanto peggio di così non poteva andare. D’altronde, colui che possedeva quel castello, per quanto esso fosse lugubre e inospitale, doveva essere di nobile nascita.
Un abbaio lo fece sobbalzare. Voltandosi, scorse il grosso cane nero che trotterellava verso il maniero e accennò perfino un sorriso: “Mi hai portato dal tuo padrone, eh? Grazie” preso il coraggio a due mani, si avviò in direzione della minacciosa costruzione. Se qualcuno gli avesse raccontato, solo poche ore prima, della disavventura che gli era capitata, non avrebbe creduto ad una sola parola. Era tutto dannatamente soprannaturale.
“Andrà tutto bene” mormorò tra i denti: “Non c’è nulla di cui preoccuparsi”.
Via via che si avvicinava al portone d’ingresso, scorse diverse statue ricoperte di erbacce che costeggiavano la radura. Ritraevano tutte draghi, bicefali e altre creature mitologiche nell’atto di assalirlo. Deglutì rumorosamente. “A quest’ora sarei già arrivato a Borgofiorito, e gusterei tè e biscotti al burro con il conte” sibilò. Parlare da solo lo aiutava ad affrontare la paura crescente.
Una volta giunto di fronte all’immenso portone, esitò. Come annunciarsi? Nessuno sembrava essersi accorto del suo arrivo, e il cane doveva essersi già introdotto nel maniero. Con le mani che tremavano, afferrò uno dei due battenti e lo picchiò sul portone tre volte, ansimando: era pesantissimo! Poiché non rispondeva nessuno, e freddo e fame crescevano, si gettò contro il portone e lo aprì per metà. Si fece avanti in quello che doveva essere l’atrio balbettando: “È permesso? C’è qualcuno?”
L’interno era minaccioso addirittura più dell’esterno. Muri e soffitto erano di nuda pietra, il pavimento era coperto da tappeti ricavati dalle carcasse di animali impagliati, e oltre l’atrio si diramavano una serie di oscuri corridoi illuminati solo dalla fioca luce delle torce appese alle pareti. Il marchese si chiuse il portone alle spalle pieno di paura e di ansia: “C’è nessuno?” disse un po’ più forte. Nessuna risposta. Si guardò attorno in quel tripudio di pietra. Faceva meno freddo che fuori, ma l’aria era carica di un gelo sottile. Avanzò un poco: “M-mi sono perso nel bosco, p-potreste concedermi ospitalità per la notte? Sono il m-marchese di Soledad. P-potrei ricompensarvi profumatamente!”
Ancora niente. La sua voce produceva un eco che si perdeva in lontananza. Il marchese udì un movimento e avvistò il cane nero che lo fissava all’ingresso di uno degli stretti corridoi. Rassicurato da quella presenza in qualche modo amica, gli chiese: “Dov’è il tuo padrone? Dove mi hai portato, bello?”
La bestia emise un ringhio sommesso e si infilò nel corridoio. Al marchese non restò che seguirlo. Era il suo gomitolo di Arianna. “Se solo il conte non mi avesse invitato, ora starei dormendo con la mia famiglia” pensò. Se riusciva ad uscirne, si ripromise di non partire mai più da Soledad.
Ai lati dei bui corridoi erano disposte statue mostruose e armature d’acciaio, che sembravano scrutare il marchese che passava. Non c’erano decorazioni, in quel castello. Ad un certo punto ci si imbatteva in una teca al cui interno erano posti in bella mostra diversi animali impagliati. Il marchese si avvicinò e li scrutò: un trampoliere, una lepre, una marmotta e altre bestie che lo fissavano con vuoti occhi di vetro. Rabbrividì, e scorse sulle pareti teste di cinghiale e corna di cervo. C’erano anche pelli di animale disposte sul pavimento di pietra. Natalie sarebbe svenuta, se avesse visto. Osservando un topolino bianco impagliato, pensò ad Armageddon, e il volto di Isadora gli tornò prepotente alla mente, riempiendolo di rimpianto.
Il cane nero, che si era fermato mentre lui osservava quei macabri trofei, lo richiamò con un verso impaziente. Quando il marchese si fu voltato, l’animale ricominciò a camminare, e l’altro gli venne dietro.
Si incominciò ad intravedere una luce più intensa delle altre che proveniva da una stanza situata alla fine del corridoio che stavano attraversando, e il rumore di qualcosa che bolliva in pentola. L’odore fece fremere di desiderio il marchese: sembrava carne arrosto…affrettò il passo, allungando le mani verso la luce.
Il cane, invece, lanciò un abbaio festoso e scattò in avanti, superando il marchese e giungendo alla fine del corridoio in quattro balzi. D’improvviso una sagoma scheletrica uscì dalla stanza illuminata e allargò le braccia verso il meticcio, esclamando con voce rauca e femminile: “Bruto! Sei tornato, eh?”
Il marchese si pietrificò dov’era. Per un po’ la sagoma e il cane si fecero le feste a vicenda, poi questa prima sollevò lo sguardo e lo scorse immobile in mezzo al corridoio. Si immobilizzò a sua volta, poi cacciò un urlo così terrificante che il marchese fu costretto a tapparsi le orecchie: “Bruto!” strillò la figura, senza porsi limiti di volume: “Hai portato un estraneo nel castello?! Oh, come hai potuto?! Il padrone mi ucciderà!”
“Ehm, chiedo scusa” balbettò il marchese, facendosi avanti timidamente: “Io sono…”
Ma la figura scattò in avanti e lo raggiunse senza dargli il tempo di pronunciare un solo monosillabo. Lo agguantò per un braccio con la mano lunga e nodosa e lo trasse a sé.
Era una vecchietta davvero decrepita. Il marchese non aveva mai visto qualcuno in un simile stato di deterioramento: era scheletrica, ma scheletrica davvero, tanto che si vedevano le ossa che sporgevano dal costato e il cranio premeva pateticamente sulla pelle tesa come un foglio di cartilagine. Aveva un viso ricoperto da una ragnatela di fitte rughe, incorniciato da una massa stopposa di capelli grigi raccolti sotto una cuffia sudicia. Portava un lurido straccio addosso e zoccoli dall’aria ingombrante, e aveva un grembiule pieno di macchie d’unto intorno ai fianchi ossuti. Gli occhi opachi guardavano in direzioni diverse, ma nel complesso sembrava una persona mite e un po’ toccata.
Il marchese rabbrividì di ribrezzo quando la vecchietta lo afferrò per il braccio. Puzzava da far paura. Ma si sentì anche rassicurato: non ci si poteva aspettare nulla di male da una nonnina e un cane. La sua ospite lo fissò con lo sguardo strabico e fisso e gracchiò: “Presto, vattene via, finché sei in tempo!”
“Perdonatemi, signora” fece compunto il marchese: “Ma mi sono perso nel bosco, ho freddo e fame, e non ho un posto dove andare. Potete concedermi cibo e ospitalità per una notte?”
“No!” urlò la vecchia: “Bruto non avrebbe dovuto portarti qui! Vattene subito, altrimenti il padrone ammazza te e chiude me in soffitta!”
Il marchese non ci capiva niente e sospettava che alla vecchietta mancasse qualche rotella: “Avete un padrone?” chiese. Lei annuì freneticamente e provò a spingerlo lontano dal corridoio: “Oh, sì, e dovresti ringraziare il cielo che non sia in casa…che dire, è un bravo ragazzo, ma…” si interruppe e scosse con violenza la testa: “Non dobbiamo perdere tempo! Sarà di ritorno a breve, e se ti trova saranno guai, oh, se lo saranno!”
“Signora” sussurrò il marchese con tono implorante: “Dove potrei andare, con questo freddo, a quest’ora di notte? Permettetemi almeno di mangiare qualcosa. Vi prego, non ho nient’altri che voi a cui appellarmi per un po’ di pietà” crollò in ginocchio e le afferrò una delle mani rugose, superando il ribrezzo che lei gli ispirava. Chiunque fosse quel misterioso padrone, di certo non l’avrebbe ucciso! Vide comparire negli occhi strabici della vecchia un lampo di compassione: “Messere, io voglio aiutarti, davvero” gracchiò: “Ma se rimani, finiremo male entrambi. Sai cosa è successo all’ultimo disperso che Bruto ha portato qui?” rabbrividì, come se solo il ricordo le facesse paura. Il marchese insistette, cocciuto: “Allora offritemi almeno un po’ di cibo. Non chiedo altro, un pasto caldo e poi me ne andrò”.
Scorse l’indecisione farsi strada sul volto della sua buona samaritana e le strinse la mano ossuta con foga: “Vi prego…ho una moglie e una figlia che mi aspettano a Soledad…”
Al che la vecchia, che era un tipo sentimentale, si arrese: “Vada per il cibo. Ma devi fare in fretta! Nessuno capita qui da anni!” gli fece strada dentro alla stanza illuminata, che si rivelò essere un’imponente sala da pranzo al cui centro troneggiava un massiccio tavolo di legno con due sole sedie. “Accomodatevi” fece la vecchietta, rivolgendogli un sorriso sdentato: “Sarò qui tra un attimo” scomparve nelle cucine, che dovevano comunicare con quella sala.
Il marchese sedette cautamente a capotavola. Forse non era stata una grande idea chiedere aiuto alla strana vecchia. In quel lugubre maniero parevano accadere cose misteriose e poco raccomandabili. Ma scorgendo il buio fuori dalle finestre, si disse che tutto era preferibile al freddo e al digiuno.
La vecchietta tornò recando un piatto molto grande sul quale era posata una piccola fetta di carne di montone. Si era rassettata il grembiule e la cuffia sudicia senza troppo successo. Quando vide il marchese seduto a capotavola, sbiancò e quasi lasciò cadere il piatto: “No!” strillò: “Non sulla sedia del padrone! Spostatevi!”
Stranito, il marchese cambiò posto, poi la vecchia gli mise di fronte la fetta di carne. Il marchese sollevò un sopracciglio: “Ehm ehm” fece. La vecchia si girò: “Sì?”
“Le…ehm…le posate?”
“Ah! Giusto!” la vecchietta sfrecciò di nuovo nelle cucine. Il marchese si sentiva sempre più stranito. Lei tornò un secondo dopo stringendo trionfante una forchetta e un coltello di dimensioni notevoli, che sbatté di fronte all’ospite: “Ecco qua. Dovete perdonarmi, messere, ma dopo tanti anni si fa fatica a mandare avanti il mestiere”.
“Chi siete?” le chiese curiosamente il marchese, avventandosi sul montone. Aveva un sapore un po’ rozzo, ma nel complesso lo sfamava. La vecchietta sorrise impettita e declamò: “Sono la domestica Katrina. Mando avanti questo castello da cinquant’anni, per servirvi…”
“Marchese di Soledad” si presentò lui, impacciato. Katrina sorrise e gettò verso il cane Bruto, che si era acciambellato sulla soglia, un secondo pezzo di montone. L’animale lo aggredì voracemente, strappandogli brani con i lunghi denti. Il marchese, deglutendo il cibo, disse: “E chi è il padrone del castello?”
“Oh” il viso rugoso della domestica si fece più pallido: “Non ho servito solo lui” confessò a fatica, senza rispondere direttamente alla domanda: “Per molto tempo ero al servizio del padre. Sono sempre stata l’unica a servire, qui. Il vecchio padrone non era molto…avvezzo a trattar bene la servitù. Pensi” aggiunse con tono polemico: “Una volta mi dimenticai di preparargli della salsa per cena e mi diede venti bastonate!”
“Che cosa terribile!” esclamò indignato il marchese. Lui aveva sempre trattato la servitù come se facesse parte della famiglia. Katrina annuì, desolata: “Io non mi lamento, anzi, ormai faccio parte della famiglia, però…il vecchio padrone ci andava tosto, a volte. Poi, alcuni anni fa, è morto, ed è arrivato il nuovo padrone. Lui è migliore di quello vecchio, perché non è mai cattivo con la povera Katrina, ma si sforza sempre di assomigliare al padre, e non sopporta gli estranei e le incurie”.
“E chi è? Un nobile?” insistette il marchese, tutto preso dal montone. Katrina scosse la testa e un sorriso parve sfiorarle le labbra screpolate: “Oh, no, nulla di tutto questo. Lui…” d’improvviso si accigliò e si diede uno schiaffo: “Zitta, Katrina! Parli troppo” rivolgendosi all’ospite, tornò a sorridere: “Dicevamo?”
“Questa è matta” pensò il marchese. Si sforzò di suonare cortese: “C’è mai stata una padrona?”
“Una padrona?” fece Katrina: “All’epoca del vecchio padrone c’è stata una specie di padrona…ma da quando hanno dato alla luce il nuovo padrone, lui l’ha cacciata. D’altronde fanno tutti così”.
“Chi fa così?” chiese il marchese, che pensò con amarezza all’abbandono della sua prima moglie. In quel caso era stata lei, in un certo senso, a cacciare lui. Katrina rifece quel sorrisetto enigmatico: “Beh, gli…”
Non fece in tempo a finire la frase. Si udì di colpo il botto del portone che veniva aperto e il rumore del vento che proveniva da fuori. Il marchese sobbalzò, il cane Bruto sollevò la testa dai resti del suo pasto. Ma la domestica Katrina precipitò nel panico più assoluto. Gli occhi pallidi si spalancarono, il corpo prese a tremare convulsamente e la bocca si aprì in un urlo muto. Poi esplose: “Oh, no! È tornato! È tornato e tu sei ancora qui! Lo sapevo che non avrei mai dovuto permetterti di restare! Ma tu mi facevi gli occhi dolci…e ora cosa faccio?! Cosa faccio?! Se ti scopre ci ucciderà! Aiuto! Aiuto!”
“Ma che…” balbettò il marchese, spaesato. Dei passi pesanti ai piani inferiori risuonavano lugubri nel silenzio e si avvicinavano sempre più alla sala da pranzo. Katrina si riebbe di colpo dalla trance. Terrorizzata, agguantò il marchese brutalmente: “Nasconditi sotto il tavolo, presto!”
“C-che?”
“Presto! Resta lì e non muoverti! Lo dico per il tuo bene” lo implorò Katrina. Sembrava a tal punto terrorizzata che trasmise al marchese la paura e lui fece come gli era stato detto, rintanandosi sotto al massiccio tavolo di legno. Si raggomitolò e fissò da là sotto, con un misto di terrore e di meraviglia, i piedi della domestica che correvano alla rinfusa. Non capiva più niente, non riusciva a dare un senso a quanto stava accadendo. “Perché non me ne sono rimasto a Soledad?” pensò per l’ennesima volta.
Katrina afferrò il piatto del marchese mentre i passi continuavano ad avvicinarsi e, piena di foga, gettò il restante montone dalla finestra per cancellare le tracce. Il marchese assisteva da sotto al tavolo, tremante e spaurito. La vide correre nelle cucine, poi tornare con un piatto e un bicchiere che sistemò a precipizio sulla tavola. Si girò di qua e di là per controllare che tutto fosse a posto, poi fissò il tavolo e storse la bocca: “L’odore si sentirà da chilometri…”
“L’odore?” pensò il marchese. I passi erano ormai prossimi alla soglia. Che cosa si stava avvicinando? Era sempre più confuso e spaventato. Più di lui lo era Katrina, che tremava leggermente, sforzandosi di assumere un atteggiamento rilassato. Si lisciò il grembiule con movimenti convulsi e afferrò il mantello che il marchese aveva lasciato sulla sedia, gettandolo sotto al tavolo dov’era anche il proprietario: “Non muoverti, non farti sentire” gli sussurrò a voce appena udibile. Lui rimase immobile.
Poi la porta della sala da pranzo venne brutalmente aperta e andò a sbattere contro lo stipite. Il marchese non osava guardare. Sentì Bruto che abbaiava festante e che si spostava dal punto in cui si era acciambellato, e poi sentì una voce tonante che gli fece accapponare la pelle esclamare: “Ho sentito dei rumori, Katrina. Cosa c’è?”
Non era una voce umana. Katrina, però, essendoci abituata, rispose con tono innocente: “Che rumori, padrone? Avrete sentito me che parlavo da sola”.
“Strano” commentò, glaciale, la voce stentorea: “Avevo la netta impressione che tu stessi parlando con qualcuno”.
“Vi sbagliate, padrone” fece Katrina, con un leggero tremito nella voce: “A volte sembra proprio che mi rivolga a qualcuno, ma converso da sola”.
Il padrone emise un grugnito insoddisfatto ed entrò nella sala da pranzo. Fu solo allora che il marchese osò guardare. Dovette premersi una mano sulla bocca per impedirsi di urlare, soffocato dal terrore: un orco! Era un orco il padrone del castello! Era imponente e massiccio e superava di numerosi centimetri sia lui che Katrina, e vestiva di una rustica casacca da cacciatore e di pantaloni in pelle di animale. Portava un cinturone con le borchie da cui pendevano brandelli di pelli di cacciagione, e stivaloni di cuoio. Al cinturone erano assicurati inoltre una lunga serie di coltellacci dall’aria minacciosa. Inutile dire quanto fosse spaventoso, quanto i suoi occhi ardessero, quanto la sua bocca somigliasse ad un pozzo nero, quanto quelle cespugliose sopracciglia fossero aggrottate.
Il marchese era mezzo morto dallo spavento. Era capitato nella tana del lupo senza saperlo, dritto dritto nelle fauci di un orco. Ora era tutto chiaro: il maniero lugubre e disabitato, la domestica toccata, il cane nero…il marchese rammentò cosa si diceva sugli orchi e rabbrividì: mangiavano carne umana. “Mi mangerà” pensò, reprimendo a stento i singhiozzi: “Mi mangerà…”
L’orco fiutò l’aria a lungo: “Credo” disse dopo un istante, con la sua voce tonante: “Credo che tu mi nasconda qualcosa, Katrina”.
“Ma cosa dite, padrone?” farfugliò lei: “Io non vi nasconderei mai nulla, questo lo sapete. Avete fatto buona caccia?” chiese per cambiare argomento. Con un verso irritato, l’orco lasciò cadere con malagrazia il pesante sacco che portava sulle spalle e crollò a capotavola, appoggiando i gomiti sul tavolo: “Qualcosa ha fatto scappare tutti gli animali, Katrina. Ho visto un calesse senza conducente dirigersi imbizzarrito per la foresta. Ho dato un’occhiata al carico: tutte cose abbastanza preziose…” affilò lo sguardo: “Secondo te dove è finito il conducente?”
Il marchese, singhiozzante e tremante, esattamente sotto l’orco, coi suoi grossi piedi a pochi centimetri, emise un muto singulto. Katrina sembrò soffocare: “Non ne ho idea, padrone. Volete che vi porti la cena?”
“Naturale. Altrimenti non mi sarei preso il disturbo di venire qui” sibilò l’orco. Scattante e solerte come pochi, Katrina annuì ed entrò in cucina guardando nervosamente il tavolo. Disperato, il marchese mimò con le labbra: “Non mi abbandonare” ma lei gli restituì solo uno sguardo desolato, poi scomparve alla vista.
Rimase solo con l’orco. Il cuore gli batteva a mille in petto, e aveva una voglia matta di mettersi a urlare. Ma resisteva. Lui, il goffo, il pacioso, il pavido marchese di Soledad che teneva duro sotto a un tavolo, nel maniero di un orco seduto pochi passi più in là. Si sentì quasi importante. Poi Bruto arrivò trotterellando e si alzò sulle zampe posteriori. La grande mano dell’orco si abbassò e grattò distrattamente la testa dell’imponente meticcio. Che, guarda caso, si accorse del marchese sotto al tavolo e tornò ad appoggiarsi sulle quattro zampe. Abbaiò piano. Il marchese, pallido come un cencio, lo implorò silenziosamente: “In nome del cielo, Bruto, non mi tradire…”
Divertito da quello che gli sembrava un gioco, il cane abbaiò ancora. L’orco borbottò: “Cosa c’è, adesso?”
Il cuore del marchese prese a battere a velocità decuplicata. A salvarlo fu Katrina, che tornò recando un piatto enorme su cui era posto l’intero montone affumicato. Lo appoggiò dinnanzi all’orco, che afferrò le posate. Quando stava per dare il primo morso, però, si bloccò: “Perché ne manca una parte?”
“Come?” disse Katrina. L’orco, innervosito, ripeté alzando la voce: “Perché ne manca una parte, Katrina?”
“Er…ecco…l’ho data a Bruto, come voi avevate ordinato, no?” abbozzò lei. L’orco tamburellò le dita massicce sul tavolo, che vibrò sopra al marchese: “Così tanta?” Katrina annuì con aria falsamente sottomessa: “Ho sbagliato? Bruto sa essere davvero persuasivo, a volte”.
“Uhm” poco convinto, l’orco incominciò a mangiare. La tensione era al massimo. Il marchese avvertì, sempre più impellente, il bisogno di starnutire. Con tutto il freddo che aveva preso, era più che naturale. Ma starnutire in quella situazione era come trafiggersi di propria volontà con una spada. Si tappò naso e bocca con una mano, ma il bisogno continuava. Cercò di pensare a Natalie, ad Isadora, alla gioia che avrebbe provato rivedendole, ai profumi di Soledad…ma si perse a tal punto nei ricordi che staccò un attimo la mano e risuonò, secco il suono del suo starnuto. Il sangue gli si ghiacciò nelle vene, e maledisse il giorno in cui era nato.
L’orco sobbalzò e balzò in piedi con un unico movimento. Katrina, da parte sua, si appiattì atterrita al muro. L’orco le gridò contro, formidabile nella sua furia: “Sporca bugiarda! Mi hai mentito di nuovo!” chinandosi, strappò la tovaglia dal tavolo brutalmente. Katrina si coprì il volto con le mani: “No!”
Il marchese cacciò un urlo quando la faccia dell’orco comparve sotto al tavolo. I suoi occhi di brace lo fissarono, furibondi. Allungò una mano senza dire una parola. Gli sforzi del marchese di gattonare lontano furono inutili: lesto come una serpe, il suo aguzzino lo afferrò per la casacca e lo trascinò scalciante fuori dal tavolo, sovrastandolo in tutta la sua terribile stazza. “Noo!” gridò il marchese con tutto il fiato che aveva in gola, il viso rigato di lacrime: “Noo!”
“Posso spiegare, padrone!” strillò Katrina, su di giri quanto lui. Ma il volto dell’orco era contratto dalla furia: “Taci! Con te farò i conti dopo!” prese il marchese gemente per il collo, lo sollevò come se pesasse meno di una piuma, e lo sbatté con violenza contro una delle pareti di pietra. Il marchese gemette di dolore. Il furore non abbandonò i tratti dell’orco nemmeno per un istante mentre estraeva dal cinturone uno dei coltellacci e premeva la fredda lama sulla gola del marchese. Lui si sentì mancare e provò una nausea impellente. Gli sembrava di vedere la morte in faccia.
“Non fatelo, padrone” tentò ancora Katrina, disperata, senza osare farsi avanti: “Il signore aveva freddo, si era perso, e voleva solo passare la notte in un posto caldo…”
“Sempre la stessa storia” ringhiò l’orco, stringendo la presa sul collo del marchese: “Come se importasse qualcosa!” premette più a fondo la lama sulla pulsante vena giugulare della vittima: “Come hai osato entrare nel mio territorio?”
“C-chiedo scusa, i-io non s-sapevo che questo f-fosse il vostro t-territorio” farfugliò il marchese in tono quasi incomprensibile. Piangeva e farfugliava, farfugliava e piangeva, mezzo soffocato dalla presa dell’orco. Il quale scoprì i denti in un sorriso maligno: “Non lo sapevi? Eppure ti avranno detto che questo non era uno dei regni che conoscevi…”
“S-sì, ma io…”
“Cosa?” la mano lo soffocava con sadica lentezza. Il marchese lo pregò con un fil di voce: “Non mi mangi”.
A quel punto, l’orco gettò indietro la testa e scoppiò in una risata da far venire la pelle d’oca: “Mangiarti?” chiese, rabbioso e divertito insieme: “No, mi faresti troppo schifo. Ti sei introdotto nel mio territorio, sei entrato in casa mia, hai corrotto la mia domestica, hai mangiato il mio cibo e pensavi anche di darmela a bere. Morirai, ma sarà per mano di questa lama”.
Il marchese ansimò disperatamente: “Vi prego, farò qualunque cosa…ho moglie e figli…”
“Pensi che la cosa mi importi?” disse l’orco, implacabile nella sua furia: “Potevi pensarci prima di entrare nel mio territorio. Nessun forestiero può farlo e sopravvivere”.
Il marchese aveva la lama sempre più vicina alla gola: “Sono il marchese di Soledad, se mi risparmierete saprò ricompensarvi profumatamente”.
L’orco non abbandonò né la presa né la rabbia: “Non c’è gioiello che compensi la tua violazione del mio territorio”.
“Ma saprei farvi proposte interessanti!” insistette il marchese con disperazione. Katrina intervenne: “Dategli ascolto, padrone” l’orco la mise a tacere con un ringhio. Il marchese riprese quasi subito a parlare, sforzandosi di sembrare invitante: “Ho denaro a palate, sapete? Volete…volete il denaro? Dite una cifra, sarò ben lieto di concedervela!”
“Il denaro non mi interessa” sibilò l’orco, che era sempre più infuriato da quelle chiacchiere. Ma, poiché pareva non volerlo uccidere mentre parlava, lui lo fece ben presto, lavorando freneticamente di cervello per trovare una ricompensa appropriata: “Che ne dite di gioielli e pietre preziose? Vi piacerebbero?”
L’espressione dell’orco non cambiò di una virgola. Gli occhi gli ardevano come fuoco: “Ne ho fin troppi. Ve l’ho già detto, morirete. Cercate almeno di farlo con dignità”.
“Aspettate!” strepitò il marchese: “Ci dev’essere qualcosa che…ho trovato! Architetti per abbellire il vostro castello?”
“No”.
“Servi giovani e in gamba?”
“No”.
“Assaggiatori?”
“No”.
“Musici e bardi per allietarvi la serata?”
“Noo!” esplose l’orco alla fine, fuori di sé. Il marchese si sentì privo di speranza. Non c’era nulla che inducesse l’orco a ragionare. D’altronde gliele aveva proposte tutte. Doveva dunque morire? Osservò il coltellaccio che calava. No, non poteva finire così! Doveva esserci qualcosa che l’orco trovasse interessante…se solo gli fosse venuta in mente prima che…prima che…
Un’idea assurda prese forma nel suo cervello. Ripensò alla frase che Isadora gli ripeteva sempre: “Io farei qualsiasi cosa per te, papà. Qualsiasi”.
“No” si disse: “Non posso farlo. Ma se…”
Quando il coltello era prossimo ad affondargli nel collo, e Katrina si era già coperta gli occhi con le mani, il marchese gridò la sua ultima speranza: “Ho una figlia in età da marito, brava e servizievole! Una moglie zitta che non dà problemi! Potrei offrirvela!”
Chiuse gli occhi e li strinse, aspettandosi di sentire il dolore. Che non venne. Lentamente, il marchese riaprì gli occhi, stupefatto. L’orco lo teneva ancora per il collo, la mano che reggeva il coltello ferma a mezz’aria. Tuttavia, la sua espressione era cambiata, e da furibonda era diventata pensierosa e colpita. Parve riflettere per lunghi, infiniti istanti che il marchese passò in apnea. Alla fine borbottò, accigliato: “Una figlia in età da marito”.
“Sì! Sì, una forte e giovane fanciulla di nome Isadora pronta a soddisfare il prossimo ad ogni occasione” singhiozzò il marchese, sorvolando gli episodi che c’erano stati con i corteggiatori. Bastava dire all’orco quello che voleva sentirsi dire. Lui allentò leggermente la presa sul collo del marchese, sempre in riflessione: “Sa fare i mestieri, portare avanti la casa?”
“Ma certo! È lei che tiene in ordine la magione di famiglia!” mentì prontamente il marchese. Katrina si scostò le mani dagli occhi e li fissò, stupita. L’orco fece una smorfia, come se gli rodesse ammettere di essere prossimo ad un compromesso: “Sta a sentire” disse con tono brusco: “Mi serve una moglie, ma solo per trovare una persona che gestisca il castello…non un incapace” gettò a Katrina un’occhiata di fuoco: “Per cui potrei prendere tua figlia, ma non garantisco per quello che succederà poi”.
Il marchese si rese improvvisamente conto di quello che stava per fare. Stava per vendere la sua pupilla ad un orco assetato di sangue e per distruggerle i sogni…ma dato che il coltello non era ancora tornato alla cintura, continuò ad annuire: “Io ti darò in moglie mia figlia, ma tu mi risparmierai”.
L’orco lo lasciò andare e lo osservò sputacchiare e tossire con aria imperturbabile. Poi gli tese la grande mano callosa: “Facciamo un patto, straniero” sibilò: “Io ti risparmio la vita, ma tu porti qui tua figlia entro tre giorni e tre notti. Bada, però” soggiunse, stringendo minacciosamente gli occhi: “Se non lo farai, se ti dimostrerai spergiuro, la mia vendetta sarà terribile. Andrò nel regno in cui vivi e ne ucciderò tutti gli abitanti, insieme a te e alla tua famiglia. Chiaro?”
Il marchese deglutì. Non c’erano vie di fuga. Condannare Isadora, o morire nel peggiore dei modi. Esitò di fronte alla mano dell’orco. Che fare? Alla fine l’istinto di conservazione e la paura ebbero la meglio e strinse la mano dell’orco con un brivido: “Ci sto” balbettò. L’orco annuì: “Abbiamo un accordo, allora. Ora vattene, e non farti rivedere se non insieme a tua figlia, pronta per le nozze”.
Il marchese si voltò e uscì dalla sala da pranzo di corsa, soffocato dai singhiozzi e dal rimorso. Katrina, felice come una pasqua, batté le mani al pensiero di una compagna di sventura: “Un matrimonio, che gioia!” quando però il suo padrone le rivolse uno sguardo minaccioso, tornò precipitosamente alle sue faccende.
Una volta uscito dal maniero, il marchese provò quasi sollievo nel freddo della foresta. “Isadora mi odierà per sempre” pensò. Ma se tentava di scamparla, l’orco li avrebbe uccisi tutti. Si avviò verso Soledad con la morte nel cuore.

 
  
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