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Autore: Dagon    23/02/2012    0 recensioni
Un obelisco si erge in una piazza buia, all'unico bagliore di una luna. E' questo che vede Alex, in un sogno. Ma poi tutto degenera, e sulla superficie del monumento compare un occhio rosso, la vernice che cola.
L'uomo viene svegliato dallo squillare del telefono. Risponde. Suo padre sta morendo, nel paese Natale, Lux Latinae. Lo stesso luogo in cui spicca l'obelisco del sogno...
Genere: Dark, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prima che sorgesse il sole, il cellulare squillò. Avevo temuto che prima o poi giungesse quella notizia, e le mie peggiori paure si erano avverate. Papà era morto.
Non posso negare il vuoto che provai, il freddo glaciale che avvertii sulla pelle, i pianti in cui mi abbandonai al caldo abbraccio di mia madre e di mia sorella. Il mondo non era più come prima.
Passai in ospedale i momenti più brutti della mia vita, ma non provai sollievo quando uscii fuori, all'aperto, per le strade di Lux Latinae. Dentro di me v'era sempre quella dannata sensazione di oppressione, di annientamento, di angoscia. Piangevo per mio padre, per mia madre, per Rosi, per me. Piangevo per una cosa che prima o poi avrei dovuto affrontare, ma così prematura e ingiusta. Non si è mai pronti a certe cose.
Nel pomeriggio decisi di uscire per il paese. Pensai alla mia infanzia, ai momenti passati a giocare con gli amici nelle piazze. Praticamente tutti a Lux mi conoscevano; è questa la realtà paesana, niente sfugge a nessuno. E quando avviene un lutto, ecco metà paese giungere a farti le condoglianze. Ma per ora, mentre la luce del sole cominciava ad essere soffusa e il tramonto si avvicinava, nessuno avrebbe osato disturbarmi. Camminavo da solo, le mani in tasca, il capo basso. Le palazzine, le panchine, gli alberi, i negozi: per me era tutto scomparso. Ai miei lati sfilavano solo ombre appartenenti a un altro mondo.
Quando dopo qualche minuto giunsi di fronte all'obelisco della piazza centrale, sollevai il capo. Il giorno prima, d'altronde, non avevo avuto il tempo di passarvi. La superficie era percorsa da numerose crepe, proprio come io ricordavo, ed era ricoperta in parte dall'edera. Non v'era alcun occhio, naturalmente, e se la cosa da una parte mi sollevò, dall'altra mi incusse timore. Ma decisi di non soffermarmi più di tanto. Distolsi lo sguardo e mi avviai in un'altra direzione.
Tutti i negozi che si affacciavano sulla piazza erano aperti; solo un locale era ancora chiuso. Sull'insegna, a caratteri rossi e argentati, appariva la scritta The Clock Tower. Numerose immagini mi folgorarono la mente. Al tempo delle superiori il pub era noto come il Tower; era il punto di riferimento per i ragazzi del paese, un luogo di ritrovo in cui passare il sabato sera, magari con la ragazza o con gli amici a guardare la partita.
Altre immagini scorsero di fronte ai miei occhi. Scossi la testa perché se ne andassero. E mi diressi verso casa.

Il funerale fu celebrato due giorni dopo nella chiesa più antica di Lux Latinae. Il tempo sembrava essersi dilatato a non finire, la voce del parroco risuonava cupa e mesta. Quando la cerimonia giunse al termine, arrivò il momento di portare la bara al cimitero del paese.

Una bambina correva.
Vedevo la sua sagoma oltre le teste dei presenti che scendevano per la scalinata. I suoi capelli biondi ondeggiavano nella luce dorata del sole, il suo pallore risplendeva quasi si trattasse di uno spettro.
Volsi lo sguardo altrove, chiusi gli occhi. Ricordi, ricordi, ricordi. Lux Latinae era testimone di quanto accaduto anni prima e aveva intenzione di farmela pagare. Vigliacco, sei scappato, mi sussurrava la sua voce. Vigliacco.
Tornai ad osservare la strada. La bambina era giunta in fondo al viale e si era fermata. Mi guardava con occhi di ghiaccio nei quali potevo riflettermi. Si volse e scomparve.

In serata, mentre le grida dei bambini sbiadivano nel silenzio e le anime s'apprestavano a rientrare nella propria dimora, io avevo deciso di uscire. Portai con me un cavalletto, una tela bianca e l'attrezzatura da disegno; la mia meta era la piazza dell'obelisco.
Mi piazzai in un punto dal quale potevo osservare il monumento in una prospettiva molto suggestiva: la superficie bianca sembrava emanare un bagliore quasi sovrannaturale che trovava riflesso nella luna e si contrapponeva fortemente al buio crescente del cielo; poi, in alto, ad interrompere il pallore della pietra v'erano i rami degli alberi e un manto più o meno fitto d'edera. Sapevo che v'era dell'altro, ma non potevo immaginare di cosa si trattasse.
Cominciai a disegnare e il mondo sparì.
Delineai linee leggere che s'incrociavano e incurvavano a rispecchiare la realtà. Il tratto non deve mai essere pesante quando si vuole un risultato soddisfacente, questo l'avevo imparato molto tempo prima. Ma paradossalmente, sfruttando quel tratto leggero scavavo nel profondo dei miei ricordi, scalfivo una barriera e mi gettavo al di là di essa. Il modo migliore per esorcizzare un pensiero che ci tormenta, è distruggere le sue radici, cosa che mi sarei impegnato a realizzare. Ma prima dovevo trovarle, queste radici.
Ecco comparire sulla tela un monumento antico, attraversato da crepe e coperto dall'edera. Ecco i rami dell'albero. Ecco il disco solitario della luna. No, un momento, ho tralasciato qualcosa...
Ecco l'occhio.
Come nel sogno, sull'obelisco v'era un occhio spalancato, stilizzato e accennato solo nella forma, come se qualcuno si fosse divertito a pitturarlo velocemente con qualche schizzo di vernice. Solo che non ricordavo d'averlo disegnato io: era comparso sulla tela dal nulla, ad osservarmi dal suo mondo di carta, ad osservarmi dalla sua dimensione onirica.
Volsi lo sguardo altrove, cercando di concentrarmi su un punto del quadro che non mi facesse venire i brividi. Guardai il cielo, spazio ancora vuoto da riempire con colori scuri, e poi la luna... ma la luna non c'era. O meglio, era mutata in qualcos'altro.
Anch'essa, in un occhio.
La mano mi tremava e il battito del cuore era improvvisamente accelerato. Rimasi a fissare la tela come se fossi un estraneo, come se non avessi partorito io tale disegno. Rimasi così per dei minuti, poi presi una gomma e cancellai i miei tormenti.

Quella notte mi addormentai e sognai.
Ero in una stanza bianca e vuota, sdraiato sul pavimento a osservare il soffitto. Non v'erano finestre né porte, né tanto meno lampade da cui potesse provenire quella luce soffusa che regnava nell'ambiente.
Avevo paura. Non so esattamente di cosa, ma avevo paura. Il mio sguardo balenava da una parte all'altra del locale, cercando forse un dettaglio che mi potesse aiutare, cercando una via di salvezza, perché d'altronde ero prigioniero...
Poi comparve la bambina.
Stava giocando, incurante della realtà che la circondava, incurante di me. I capelli biondi ondeggiavano ad una brezza inesistente, brillavano dei riflessi di un sole che non c'era. Fra le mani stringeva una bambola di pezza che aveva lunghe trecce nere ed un vestito rosa, ma un volto privo di occhi. La bambina parlava ed io non capivo cosa stesse dicendo.
Le gridai qualcosa, dimenandomi come fossi impazzito. Ma lei non rispondeva né mi guardava. «Ascoltami!» urlavo in preda alla disperazione e all'angoscia. Cercai d'alzarmi barcollando per avvicinarmi alla bambina, ma una volta in piedi una barriera invisibile mi costrinse a indietreggiare.
Volsi lo sguardo altrove, nella speranza di poter uscire da questo incubo. Ma ovunque ora guardassi, scorgevo le sagome di occhi spalancati.
Erano a migliaia, su ogni parete, sul soffitto, sul pavimento. Erano simili a quello che avevo visto sull'obelisco, ma più piccoli e molto più numerosi. Occhi, occhi, da ogni parte solo occhi che guardavano in un'unica direzione.
La bambina s'alzo di scatto da terra e cominciò a correre, ma qualcosa le cadde e lei non se ne accorse. Quella bambola dalle lunghe trecce nere ora giaceva sul pavimento, senza più un padrone, senza più un compagno di giochi.
«Aspetta!» gridai. La bambina si fermò, mi osservò con i suoi occhi di ghiaccio. E mi svegliai.

Il settimo giorno dal mio arrivo, piovve. Mi svegliai così, durante uno di quei temporali estivi che esplodono all'improvviso per scaricare la propria potenza in un paio d'ore.
Accesi il cellulare e guardai l'ora: era presto, non erano neanche le otto di mattina. Mi alzai titubante e mi diressi verso la scrivania. Non avevo ancora completato il dipinto raffigurante l'obelisco. Qualcosa mi aveva bloccato e mi aveva impedito di continuare. Ma non mi soffermai tanto su questo pensiero, preferii andare a fare colazione.
Mia madre era già uscita, Rosi stava ancora dormendo. Parte dei possedimenti di mio padre erano andati distrutti nell'incendio, ora toccava stabilire a quanto ammontassero i danni. Da qualche giorno, dal funerale di mio padre, mia madre aveva dovuto prendere in mano la situazione.
Mangiai in fretta, lo sguardo perso nel vuoto. Avvertivo una strana sensazione allo stomaco, come una voragine che stesse risucchiando quanto di positivo la vita mi aveva dato fino a quel momento. Mi rimanevano solo ricordi e rimpianti.
Una volta vestito entrai nella camera che fino a qualche giorno prima mia madre aveva condiviso con mio padre. Tutto era immobile, persino le tende. Mi avvicinai al comò e, fra gioielli e documenti vari, osservai le vecchie foto di famiglia.
Mio padre aveva capelli corti e un viso sempre atteggiato al sorriso. Mia madre, invece, possedeva capelli lunghi e biondissimi, occhi chiari come due diamanti.
Aprendo uno dei cassetti rinvenni vari album fotografici. Sul dorso di ognuno v'era scritto l'arco di tempo cui essi facevano riferimento. Ne presi uno, mi sedetti sul letto, e lo aprii.
V'era una sequenza di scatti in cui ero presente io da bambino, prima della nascita di Rosi. Ve n'era un'altra in cui io ero adolescente e posavo insieme ad altri ragazzi. Li riconobbi quasi tutti: v'era il mio migliore amico, v'era il mio compagno di banco delle superiori e v'era Maria.
Ricordi. Quanti ricordi una semplice immagine può celare.
Maria viveva ancora a Lux Latinae, ne ero certo. Non l'avevo mai vista dal mio arrivo né avevo mai pensato di andarla a trovare. Era da quel giorno – ricordi, maledetti ricordi – di pioggia leggera, di rabbia, che non la vedevo né sentivo.
«Che fai?» Rosi esitava sull'uscio della porta.
«Sto vedendo vecchi album di fotografie» mormorai, riponendo il materiale dove l'avevo trovato. «Ma penso di aver finito.»

  
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