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Autore: Dagon    22/02/2012    3 recensioni
Un obelisco si erge in una piazza buia, all'unico bagliore di una luna. E' questo che vede Alex, in un sogno. Ma poi tutto degenera, e sulla superficie del monumento compare un occhio rosso, la vernice che cola.
L'uomo viene svegliato dallo squillare del telefono. Risponde. Suo padre sta morendo, nel paese Natale, Lux Latinae. Lo stesso luogo in cui spicca l'obelisco del sogno...
Genere: Dark, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L'obelisco di Lux Latinae emergeva dall'oscurità della notte e torreggiava imponente al centro della piazza. Il vento ululava nel silenzio. La luna era alta nel cielo; non v'erano nubi a incorniciarne il candore. Né nubi, né stelle. Ed io, come la luna, ero solo. Solo in quella piazza.
Solo di fronte all'obelisco.

Sentivo nella mente l'alternarsi rapido di pensieri e sensazioni. Avanzavo incurante verso il monumento, sul quale scorgevo numerose crepe che salivano e sbiadivano nel buio; più su vedevo le foglie nere dell'edera. V'era qualcosa di sbagliato in tutto questo. Nel silenzio, nella luna, nella piazza, nell'obelisco. V'era qualcosa di così ovvio che mi sfuggiva di mano e mi lasciava perplesso.
Toccai la superficie del monumento senza esitare. Vedevo la mia mano scivolare sempre più su, a indicare un punto pochi metri più in alto. Sollevai lo sguardo e mi ritrassi di scatto.
Un occhio.
No, un momento. Non era proprio un occhio, ma il disegno di un occhio. Era stato fatto con della vernice, forse, ma nella notte non sarei riuscito a distinguerne il colore. Era stato compiuto di fretta, potevo osservare le sbavature che colavano verso il basso come cera da una candela. Distolsi lo sguardo e mi volsi indietro, per guardarmi alle spalle. Ero solo, non v'era nessuno. Ero solo come la luna in quel cielo privo di nubi e di stelle. Lo stesso cielo che avrei trovato al mio risveglio, nel bel mezzo della notte, allo squillare del telefono.
Fu allora che ogni cosa trovò il proprio posto, anche se io l'avrei saputo solo più tardi. Il particolare che non mi tornava nel sogno era il luogo: Lux Latinae. Era il mio paese natale, che ospitava la mia famiglia da generazioni. Io avevo spezzato la tradizione e a vent'anni ero scappato per rifugiarmi nella capitale. Perseguivo delle stupide illusioni che all'epoca chiamavo ambizioni.

Sollevai la cornetta e risposi schiarendomi la voce.
«Pronto? Alex, ci sei?»
Era mia sorella, chiamava dal paese. Lei era rimasta lì.
Dal tono di voce mi sembrava preoccupata. «Pronto? Perché chiami a quest'ora?»
«Scusa, ma è importante» la voce metallica vibrava nel silenzio. Rimanevo in attesa. «C'è stato un incendio alla tenuta di papà.» Fece una pausa. «Sono arrivati anche i pompieri, stanno cercando di spegnere il fuoco.... ma papà, papà è rimasto gravemente ferito. L'ambulanza è arrivata da pochi minuti, codice rosso. Alex, devi tornare! Io e mamma siamo qui in ospedale, stiamo aspettando il responso dei medici.»
«Rosi» scandii il suo nome lentamente, ancora diviso fra sogno e realtà. «Cosa stai dicendo? Quando è successo? Ma...» Mi interruppi. Avevo un nodo in gola e una gran confusione nella testa.
«Devi tornare a Lux Latinae, Alex.» La voce di Rosi era stranamente calma. «Questa potrebbe essere la tua ultima possibilità di rivedere papà vivo.»
Rimasi qualche secondo in silenzio. «Che ferite ha riportato?»
Attraverso il telefono potevo ora percepire la sua tensione. Le parole tremavano. «Non farmene parlare, Al. Io l'ho visto, l'ho soccorso. Vorrei fosse un'altra l'immagine che mi rimanesse di lui... Torna. Prega per papà.»
Agli occhi cominciavano ad affacciarsi le lacrime. «Ti voglio bene, Rosi. Dai un abbraccio a mamma. Parto domani mattina.» Dopo attimi di silenzio e parole inespresse, attaccai. E piansi fino all'alba.

Quando i primi raggi del sole illuminarono la stanza, io ero già sveglio. Osservavo la luce accarezzare la tela sulla scrivania. Era il mio ultimo lavoro, concluso la sera prima: una finestra aperta oltre la quale si osservava un paesaggio montano. Mi piaceva l'atmosfera che ero riuscito a creare. In fondo chi non riesce in questo, non è un vero pittore.
La sveglia suonò e tornai alla realtà. Mi preparai in fretta e in furia, buttando in una valigia quanto mi sarebbe servito a Lux Latinae. Partii verso le sette e mezza, in una mattina soffocante di luglio, per giungere al paese in serata.
Non avrei mai immaginato che avrei fatto ritorno in una tale situazione. All'improvviso tutto aveva un aspetto diverso: a partire dal silenzio straziante che regnava per le vie, passando per l'ululato sinistro del vento e infine arrivando all'obelisco, una lama che emergeva dalla terra per conficcarsi nell'oscurità del cielo. Tutto era ridotto all'ombra di ciò che era; nessuno dei miei ricordi trovò conferma in ciò che vidi, soprattutto l'immagine che si ripresentava alla mia memoria ogni volta che mi capitava di pensare a Lux: il manto infinito di stelle che dominava le notti del paese.
Lo sguardo di Rosi e di mia madre, il mio stesso volto, erano cambiati nel volgere di poche ore. Il tempo che passai in ospedale quella sera fu il peggiore della mia vita. Ricordo il silenzio che regnava per i corridoi, un silenzio che sembrava un grido senza fine; il responso dei medici che non arrivava mai. Mio padre era continuamente sottoposto a operazioni urgenti che lo tenessero ancora attaccato alla vita.
«Mamma, resto io questa notte» disse Rosi dopo un paio d'ore dal mio arrivo. «Vai a riposarti.»
Mia madre non rispose subito, il volto fra le mani. «Non posso, non posso... devo restare.»
Sarei rimasto io, ma dovevo sistemare la valigia e avrei dovuto mangiare qualcosa o sarei svenuto. «Mamma» intervenni. «Fai come dice Rosi: ha ragione, devi riposarti. Vieni a casa con me.»

La casa dei miei genitori fu l'unica cosa che si presentò a me esattamente come la ricordavo. Pareti ingiallite, mobili vecchi e polverosi, i miei quadri appesi sparsi alle pareti.
Non rammentavo di averne lasciati tanti: ma un disegno è testimone del tempo, e nelle linee, nei colori, riconobbi il tratto della mia mano che operava nella calda luce estiva o nel fragore dei tuoni nei frequenti temporali invernali.
Quando mia madre si accorse che ne stavo osservando uno, si avvicinò a me. «Questo lo hai fatto a sedici anni.»
«Mi ricordo.»
«Al tempo eri fissato con l'arte astratta. Sfornavi dipinti del genere ogni settimana.» Fece una pausa e volse lo sguardo al mio. «Era tanto che non ci sentivamo, Alex. Ora come va con i quadri?»
«Ho una piccola bottega a Roma, lo sai. Non è cambiato niente. A volte faccio delle mostre, ma non sono ancora riuscito a conquistare il cuore dei critici. E quando è così, è un continuo girare a vuoto.» Calai una mano sulla spalla di mia madre. «Ti ho deluso, vero?»
«Niente affatto. Hai fatto ciò che ti sentivi di fare: non sarebbe spettato di certo a me decidere per il tuo futuro.»
«E papà? So che non la pensava allo stesso modo.» Parlare al passato di mio padre mi fece uno strano effetto. «Avrebbe voluto altro.»
«Be', anche lui da giovane avrebbe voluto perseguire le proprie ambizioni. Voleva diventare uno scrittore, non so se te ne ha mai parlato. Scriveva molti racconti da giovane, ma poi ha lasciato perdere e tutti i suoi scritti sono rimasti in uno scatolone.»
«Per non deludere il nonno.»
«Be', sì.»
Rimasi qualche secondo in silenzio, il capo basso. «Vado a portare la valigia in camera.»
«D'accordo. Io vado a preparare qualcosa da mangiare.»
Percorsi il corridoio e sparii dietro all'ultima porta, ritrovandomi solo nella mia vecchia e polverosa camera.
Tutto era rimasto invariato; la mia attrezzatura da disegno era chiusa in una scatola sulla scrivania, subito accanto giacevano tele bianche ancora inutilizzate. Posai la valigia vicino al letto e mi avvicinai al tavolo.
Quanti ricordi, quante immagini lampeggiavano alla mia vista per scomparire in pochi attimi. Giorni di pioggia in cui disegnavo, la macchina fotografica di mio padre, tele in cui ricopiavo foto e illustrazioni, una bambina che correva, i vicoli della città, l'obelisco...
Mi ritrassi e per poco non caddi inciampando nel bagaglio ai piedi del letto. Avevo un gran mal di testa, un dolore atroce che mi attanagliava. Avevo bisogno di riposo fisico e psicologico. Dovevo dimenticare, semplicemente dimenticare alcune cose che non avrei mai dovuto rammentare.
La porta si aprì e sulla soglia si affacciò mia madre. «Alex, è quasi pronto, cambiati. Puoi sempre sistemare dopo.»

Quella notte non sarei mai riuscito a dormire. Soffrivo di insonnia da quando ero bambino, e, strano ma vero, quando il silenzio era troppo le difficoltà a cedere al sonno aumentavano. Tendevo a rilassarmi solo se riuscivo a distrarmi, e non v'era distrazione migliore del rumore, o, in alternativa, della musica. Ma avevo lasciato il lettore MP3 a Roma e il sonno sembrava sempre più lungi dall'arrivare. Ero prigioniero della realtà, quella triste realtà, e non sarei potuto scappare in un'altra dimensione.
Controllai l'ora sul cellulare e decisi di alzarmi. Mi spostai verso la scrivania sbirciando fuori dalla finestra aperta: il cielo era una massa nera e indistinta in cui troneggiava sola la luna. Faceva un caldo pazzesco. Afferrai una matita e qualche foglio bianco e feci qualche schizzo, sovrappensiero.
Pensai a mio padre e ai suoi possedimenti; alle vigne, agli uliveti che ricoprivano le sue terre; a me da bambino, quando correvo tra gli alberi e mi divertivo; al vino; all'olio; a mia madre che cucinava ortaggi e verdure; alle arance; ai limoni; a Rosi quando si fermava ad ascoltare il canto degli uccelli; alla luna; all'obelisco.
Mi fermai, spezzai il silenzio facendo cadere la matita e portai le mani alle tempie.
Un occhio spalancato.
Avevo creato lo schizzo di un occhio. Improvvisamente mi ricordai del sogno che avevo fatto la sera prima; rammentai l'obelisco e ciò che avevo visto sulla sua superficie. L'occhio mi osservava attraverso una parete fatta di carta, da una dimensione onirica parallela alla nostra.
Dopo attimi d'esitazione presi il foglio e lo stracciai, quasi mi stessi liberando di una cosa ripugnante.

  
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