Epilogo.
Un rintocco di campana riverberò nel suo
subconscio, sorprendendola.
Il suono era cupo, prolungato, lugubre,
si estendeva all’infinito nella sua mente, come se quel rumore così strano e
improvviso non volesse avere un termine, come se la gabbia del suo cervello lo
rendesse eterno.
Insonnolita e stranamente tesa, Eikhe
allungò a tentoni la mano al suo fianco, alla ricerca del corpo caldo del
compagno ma, nulla trovando, spalancò gli occhi solo per trovarsi avvolta dalla
quasi totale oscurità.
Le esili fiamme rimaste a sfrigolare nel
camino, ove gli ultimi ciocchi si stavano velocemente trasformando in carbone,
si univano al baluginare candido della luna piena.
Ben visibile dalla porta-finestra
spalancata sul balcone, penetrava nella stanza di Aken con un chiarore debole,
permettendole di vedere almeno in parte ciò che la circondava.
Lunghe e cupe ombre si estendevano sopra
i pesanti tappeti e una figura scura, in piedi sulla balconata, creava dietro
di sé quella più oscura tra tutte.
Dopo essersi stropicciata gli occhi nel
tentativo di cancellare le ultime tracce di sonno, Eikhe si rese conto che il
suono da lei udito nella mente non era solo frutto della sua fantasia, ma
qualcosa di reale.
Proveniente dalla città, il rintocco
lontano di una campana rimbombava tutt’intorno, scivolando sopra i tetti e
contro i muri di Rajana, portando con sé un sinistro messaggio.
Lasciate scivolare a terra le gambe in
un fruscio di stoffe e pellami, Eikhe afferrò la vestaglia da camera di Aken
che si trovava appoggiata su una sedia.
Dopo essersi avvolta nel leggero tessuto
di raso scuro, si avviò a piedi nudi verso l’imponente e oscura figura sul
balcone, ascoltando distrattamente il sibilo sordo della stoffa sulle pelli su
cui stava camminando.
Quell’esile rumore fece volgere a mezzo
la figura e il viso di Aken, ora in ombra, fissò quello preoccupato della compagna prima
di esalare: “Come mai sei sveglia?”
“La campana” si limitò a dire lei, prima
di raggiungerlo e avvolgergli la vita con un braccio.
A torso nudo e con indosso solo le
brache di pelle, Aken le avvolse teneramente le esili spalle.
“Suona a lutto.”
Il corpo di Eikhe si irrigidì
immediatamente mentre gli occhi correvano al viso del compagno, scolpito nella
luce diafana della luna come una statua di marmo.
I suoi occhi, quasi trasparenti sotto
quel candido bagliore, non riflettevano alcun tipo di emozione, quasi fossero
stati congelati in quell’istante eterno.
Stringendosi a lui, Eikhe gli posò il
viso contro il torace, sussurrando: “Tuo padre?”
Lui si limitò ad annuire mentre, alla
porta della loro stanza, un quieto bussare si accompagnò alla richiesta di
Antalion di poter entrare.
Aken borbottò un assenso sforzato e,
mentre il figlio si avventurava nella stanza con aria accigliata e preoccupata
assieme, Eikhe si scostò dal compagno per accoglierlo e chiedergli: “Cosa c’è,
Antalion? Qualche problema?”
“No, mamma, ma… è quello che penso?” le
chiese, indicando poi con un cenno del capo il padre, che non si era ancora
voltato a guardarlo.
La madre annuì una sola volta e il
figlio, senza dire nulla, raggiunse il padre accanto alla finestra e gli
avvolse la vita con un braccio prima di appoggiarsi a lui.
Aken non aprì bocca, né ve ne fu alcun
bisogno e, strettosi il figlio al fianco, gli avvolse le spalle con il braccio
prima di baciarlo silenziosamente sul capo.
Gli occhi erano serrati, e le labbra
tese in una linea sottile e pallida.
Non c’era molto da dire, in quel
momento, né Eikhe aveva la minima idea di come si sentisse Aken in quel
particolare frangente, visto quando il suo rapporto con il deposto re fosse
stato complicato, in quegli anni.
“Eikhe?”
Volgendosi a mezzo verso la porta, rimasta
socchiusa, la donna scorse il viso pallido e insonnolito di Liana spuntare
oltre il battente di quercia.
Sorridendole, le andò incontro e chiosò:
“Non dorme nessuno, stanotte?”
Con l’abbozzo di un sorriso a
illuminarle il viso, Liana entrò, sistemandosi sulle spalle il panno di lana
che si era portata dalla camera.
Fissando le due alte figure silenziose
alla finestra, sussurrò: “E’ morto il padre di Aken, vero?”
“Già” annuì Eikhe, portando a sua volta
lo sguardo su compagno e figlio.
“L’ho immaginato, quando ho sentito il
suono di quella campana” sospirò Liana, mordendosi un labbro. “Posso fare
qualcosa?”
“Vai da lui. Sono sicuro che apprezzerà
anche la tua presenza” le consigliò Eikhe, sorridendole benevolmente.
Senza lasciarselo ripetere, Liana
trotterellò verso l’imponente figura di Aken e, incuneandosi con delicatezza
sotto il suo braccio libero, lo strinse con tutta la forza di cui era capace
prima di sussurrargli: “Mi spiace tanto, Aken!”
“Liana!” esalò lui, sorridendole
spontaneamente. “Tesoro, che ci fai in piedi a quest’ora?”
“Ho sentito la campana, e ho pensato
potesse essere successo il peggio” gli spiegò lei, mettendo il broncio.
Piegatosi per darle un bacio sulla
fronte, Aken se la strinse al petto e disse: “Grazie, bambina. Mi fa piacere
che sia qui anche tu.”
Eikhe li ammirò ancora per qualche
attimo prima di avvicinarsi a sua volta, poggiarsi contro la schiena del
compagno e mormorare sommessamente: “Siamo tutti qui per te, amore mio. Saremo
il tuo sostegno.”
Aken annuì un paio di volte, in
silenzio, non sapendo bene come esprimere a parole tutto ciò che stava provando
in quel momento.
Era soffocato da contrastanti emozioni,
tutte troppo violente per poter essere controllate da un semplice strumento
come la voce.
Ristette perciò in piedi a contemplare
quella che un tempo era stata la sua città, senza più conoscerla veramente,
sentendosi estraneo tra estranei, mentre il suo mondo, il suo vero mondo, lo
avvolgeva protettivo.
Sì, quel luogo non era più suo, ormai,
né lui ne era più parte.
Era tempo di andarsene, di tornare alla
sua vera casa.
Avrebbe reso onore al padre e alla sua
vecchia famiglia, ma non se la sentiva più di rimanere.
Questo non era più il suo posto.
“Andiamo a letto a cercare di riposare.
Non ha senso restare qui in piedi a prendere freddo” disse a un certo punto,
tirandosi dietro Antalion e Liana, mentre Eikhe si scostava per lasciarlo
indietreggiare.
Chiuse le imposte, e tirati i pesanti
tendaggi di panno scuro solo dopo aver dato il tempo ad Aken di accendere una
candela, Eikhe guardò i due giovani con loro e disse: “Rimanete qui, per
favore.”
Antalion e Liana annuirono e, mentre
Aken si sistemava nell’enorme letto a baldacchino, i due ragazzi si sistemarono
al suo fianco, abbracciandolo stretto e stringendosi a lui per non fargli
mancare il loro calore umano.
Eikhe, da ultima, si issò sul letto e
abbracciò Liana, allungandosi poi ad accarezzare il capo di Aken, dicendo con
un sussurro debolissimo: “Così il branco cura il dolore.”
“E’ un buon metodo” esalò Aken,
poggiando la fronte contro quella del figlio.
“Condivideremo il tuo dolore finché lo
vorrai” gli promise Antalion con voce leggermente incrinata dall’emozione.
“Grazie. A tutti voi” sussurrò l’uomo,
chiudendo finalmente gli occhi mentre la candela da lui accesa, solitaria,
brillava sul comodino lanciando ombre tremolanti per tutta la camera.
***
Un cielo plumbeo ricopriva la città di
Rajana, stranamente silenziosa, quella mattina.
La campana fatta suonare
a lutto era stata sentita – e ascoltata – da ogni abitante della capitale e,
come da prassi, qualsiasi attività commerciale sarebbe rimasta chiusa per l’intera
giornata.
Ciò avrebbe permesso ai
cittadini di rendere omaggio al ricordo del defunto re di Enerios.
Nessuno di loro sapeva cosa lo
avesse portato a quella fine prematura, e così avrebbe dovuto essere fino alla
fine dei tempi.
Né Aken, né tanto meno Ruak, avevano
intenzione di rimuginare troppo su ciò che erano stati costretti a fare, per
difendersi dalle azioni sempre più sconsiderate di un uomo che aveva perso,
molto tempo prima della morte, il lume
della ragione.
Il popolo sarebbe stato tenuto all’oscuro
di ogni cosa, e ricchi festeggiamenti sarebbero stati celebrati per
accompagnarne la sua anima nel regno dei morti.
Per i figli del deposto re, però, non vi
sarebbe stata soddisfazione alcuna, né pace dell’animo.
Chi per un verso, chi per un altro,
tutti loro avevano sofferto dei suoi capricci, e nessuno aveva la forza di
ricordarlo con l’affetto che ci si potrebbe aspettare da dei figli devoti.
Aken era stato recluso nella sua stessa
città per sedici, lunghi anni, a causa dello sciagurato patto sottoscritto con
il genitore.
Melantha era stata costretta a sposarsi
pur quindicenne, pur senza conoscere minimamente il suo futuro marito.
Per quasi un anno, inoltre, aveva
ricevuto lettere dal padre che le intimava di rimanere incinta, se non voleva
essere pubblicamente disconosciuta come figlia.
Quando Mynias aveva scoperto il
contenuto delle missive, le aveva fatte bruciare tutte e, da quel giorno in
poi, non una sola lettera inviata dal re di Enerios era più stata aperta nel
palazzo reale di Karton.
Finalmente, Melantha si era potuta
sentire libera dall’opprimente ombra del padre.
Ruak, da ultimo, si era caricato sulle
spalle non solo il dolore di vedere la sofferenza del fratello – senza
conoscere anche quella della sorella – ma aveva dovuto prendere l’annosa
decisione di destituire il proprio padre dal trono.
Segregarlo perché non potesse più fare
del male a nessuno, era stato poi l’ultimo peso da sobbarcarsi sulle spalle.
Nessuno di loro, in quella fredda
mattina solcata da gelidi venti provenienti da nord, aveva voglia di pregare
per l’anima del loro defunto padre.
La regina madre non se la sentì di
criticare, né di replicare alcunché di fronte alle loro facce pietrificate.
I figli dei principi erano chiusi in uno
dei salottini del primo piano, intenti a raccontarsi vicendevolmente aneddoti
sul loro nonno ormai trapassato.
Antalion e Liana li ascoltavano assorti,
cercando di dare un volto a un uomo di cui avevano solo sentito parlare, e non
certo in maniera positiva.
A ben vedere, nessuno di loro sembrò
discostarsi molto dall’immagine che il giovane figlio sacro si era fatto del
nonno, e cioè di una persona fredda, poco propensa al riso e alle dimostrazioni
di affetto.
Stentava sempre di più a comprendere da
chi avesse preso suo padre che, al contrario, era prodigo di attenzioni e di
certo non lesinava con i sorrisi e le risate.
Forse, la nonna che nessuno di loro
aveva conosciuto, doveva essere la causa prima del buon carattere di Aken, ma
non avrebbe mai potuto saperlo con certezza.
Eikhe raggiunse i ragazzi verso metà
mattina e, con un mesto sorriso rivolto a tutti quei giovani virgulti dell’alta
società, si accomodò al fianco del figlio e disse: “Nel pomeriggio, si terrà la
processione fino al tempio. Mangeremo leggero e subito dopo indosseremo i
mantelli neri per raggiungere il Prelato di Rostor, e lì pregheremo perché
l’anima di vostro nonno raggiunga il Nulla assieme alla Luce di Iralva.”
“Voi figli del branco non credete nei
nostri stessi dèi, vero, zia Eikhe?” gli chiese con sincera curiosità Berhen.
“Infatti, Berhen. Sei ben informato. Noi
crediamo nel dio-lupo Hevos e nel dio-corvo Haaron. Sono i detentori della vita
e della morte e di tutte le loro declinazioni” gli spiegò succintamente Eikhe,
sorridendogli.
“Ho studiato qualcosa in merito, grazie
alla figlia del branco che ha conosciuto mia sorella Elren…” assentì pensieroso
Berhen, massaggiandosi distrattamente il mento imberbe. “… ma mi è parso di
capire che voi li consideriate qualcosa di più, di semplici emanazioni
spirituali.”
Il sorriso sornione che sorse sul viso
di Eikhe disse molto al giovane che, impallidendo leggermente, esalò: “Ci
credete sul serio!”
“Posso dirti questo, giovane principe e
nipote…” esordì Eikhe, prima di sorridere al figlio per un momento, e
aggiungere: “…io incontrai Hevos, durante il mio viaggio di ritorno verso
Rajana e, con me, c’era anche tuo zio. Lui, invece, passò più di dieci giorni
assieme al dio-lupo, quando venne da me per ritrovarmi. Chiedi a tuo zio Aken,
se non vuoi credere alle mie parole.”
Deglutendo a fatica, mentre tutti gli
altri ragazzi fissavano la zia con aperta sorpresa e reverenziale timore,
Berhen scosse debolmente il capo e mormorò con voce insicura: “No…no, ti credo,
zia. Non avresti motivo di mentire. So che non vuoi impressionarci.”
“Molto bene, nipote. Sono lieta di
sapere che sai riconoscere la verità, quando la senti” sorrise bonariamente
Eikhe prima di dargli un buffetto sulla guancia e aggiungere: “Hevos è un dio
generoso, ma sa anche essere implacabile, quando vuole. E’ un dio giusto e,
come tale, non concede sconti a nessuno, anche se a volte agisce in modo per
noi incomprensibile.”
“E’ stato giusto anche quando non ha
fatto nulla per riavvicinarti ad Aken prima di qualche mese fa?” si arrischiò a
chiedergli Berhen, sorprendendola leggermente.
“Come sai che…” tentennò Eikhe.
Arrossendo leggermente, Berhen le
spiegò: “Mamma mi disse di averti fatto un grave torto, in gioventù, e si
raccomandava spesso che io e i miei fratelli non commettessimo i suoi stessi
errori. Mi disse di te, di come salvasti suo fratello senza paura del pericolo,
e di come ti avesse mal giudicata solo perché non conosceva il tuo stile di
vita, così diverso da quello cui lei era abituata. Quando si sposò con papà,
vide quelle vicende con occhio diverso, e comprese cosa legasse te e lo zio.”
“E da dove le è venuto questo pensiero?”
“Da papà. Almeno, stando a quel che mi
ha detto lei. Era terrorizzata all’idea di non aver compiuto abbastanza passi
avanti, di non essere degna del tuo perdono” sorrise imbarazzato Berhen,
passandosi una mano sui morbidi capelli castani.
“Anch’io non fui cordiale con lei,
all’epoca, e temo per lo stesso motivo” ridacchiò Eikhe. “Venivamo da due mondi
differenti, ed eravamo in un’età in cui non si è molto altruisti, tutt’altro. Per
questo, prima di partire, le feci dono dell’occhio
di lupo. Fu il mio modo di chiedere scusa per non aver neppure tentato di
capirla.”
Berhen assentì, e la zia proseguì nel
dire: “Avere al fianco persone generose, e in grado di aprirci gli occhi, può
servire a smussare certi difetti, e tua madre è una donna molto diversa, oggi.
Migliore. E, per rispondere alla tua domanda, Berhen, Hevos aveva altri
progetti, per me e Aken.”
“In che senso?” volle sapere lui,
piegandosi per poggiare un gomito sul ginocchio.
“Sai quello che Aken ha fatto qui a
palazzo, vero?”
Al suo assenso, proseguì dicendo:
“Mentre lui compiva un cambiamento qui, io lo facevo lassù, tra le mie sorelle.
Neppure noi eravamo esenti da difetti e, in questi anni, abbiamo entrambi
compiuto ciò che era necessario fare. Nulla poteva rimanere come un tempo,
c’era bisogno di una svolta.”
“Quindi Hevos vi ha… usati? Si può
dire?”
“Ci ha ritenuti idonei a compiere il
primo passo lungo una nuova via” precisò Eikhe, sorridendogli generosamente.
“Voi siete il frutto di quel cambiamento. Siete di mentalità aperta, non vi
fate fuorviare dall’aspetto, o dall’ipotetica importanza di coloro che vi
trovate davanti, e trattate le persone con equità e rispetto. Questo è
ciò che Hevos voleva.”
Berhen si limitò a emettere un basso
fischio prolungato, fissando con ammirazione la zia e Naell, seduta accanto ad
Antalion, chiese ad Eikhe: “Posso venire al villaggio con te, zia?”
La donna scoppiò a ridere assieme a
tutti i suoi nipoti mentre Naell, non comprendendo appieno i motivi di
quell’ilarità, si limitò a fare spallucce prima di bofonchiare: “Prima o poi
verrò.”
Sulla porta del salottino, abbigliata
con un vestito di seta e velluto neri, Renke sorrise per un breve momento a
quel quadretto rilassato.
“Quando sarai più grande, se ancora lo
vorrai, chiederemo alla zia di accoglierti per qualche settimana. Va bene,
Naell?”
Tutti si volsero sorpresi in direzione
della regina ed Eikhe, fissandola a occhi sgranati, si alzò in fretta,
chiedendole: “Ma… ne sei sicura?”
Reclinando il viso a scrutare quello
speranzoso e pieno di aspettative della figlia minore, Renke chiosò: “Come hai
detto tu, loro sono il cambiamento. E chi sono io per bloccarlo? Mi spiacerà
vederla partire ma se, quando avrà compiuto dodici anni, vorrà ancora venire da
te per conoscere come vivono le figlie del branco, non glielo impedirò. E’
sbagliato compiere scelte per loro, che condizioneranno la loro vita per
sempre. Nei limiti del possibile, permetterò sempre loro di fare quel che
vogliono. Mi accontenterò di consigliare, se mai vorranno darmi ascolto.”
Meriton, Staryn e Naell raggiunsero la
madre per abbracciarla e Renke, sorridendo loro con amore, ridacchiò mentre Eikhe
commentava: “Direi che questa è un’ottima risposta.”
***
Il cappuccio di velluto
scese a coprire parte del suo volto, un’ombra scura e morbida che le fasciava
il viso e il corpo, rendendola in tutto e per tutto simile a coloro che aveva
al fianco.
Non v’erano gradi, corone o stemmi che
tenessero.
Di fronte a Rostor, si era sullo stesso
piano, e i mantelli servivano ad annullare la bellezza degli abiti, quanto
l’identità dei partecipati al rito funebre.
Il cielo si era rischiarato leggermente,
lasciando che tra le nubi si incuneassero sprazzi di azzurro e qualche lama di
sole, che illuminava tratti di strada e tetti di case.
L’aria continuava a essere fredda e i
mantelli, di certo, erano un conforto, ma Eikhe dubitava fortemente che i figli
e la moglie del defunto re ne avrebbero tratto giovamento alcuno.
A pranzo, non avevano mangiato nulla e,
sui loro volti smunti, non si era mai palesato neppure un sorriso di
circostanza.
La figlia sacra, però, non sapeva dire
se fosse per il troppo dolore, o per la totale mancanza di esso.
Parevano frizzati nel tempo, come se non
fossero realmente lì e, quando Eikhe prese per mano il suo compagno, sentì solo
il gelo, ad accoglierla.
Come un lento fiume d’inchiostro, la
famiglia reale e la corte tutta si incamminò mestamente, oltrepassando i
portoni aperti del castello e riversandosi sulla via principale.
A muta testimonianza del lutto, i
cittadini attendevano il loro passaggio, tenendosi alle spalle di due cordoni
di soldati preposti al mantenimento dell’ordine.
Qualche fiore venne gettato sul selciato
della strada, prima del passaggio di re Ruak che, a capo chino e completamente
velato in viso dal pesante cappuccio di velluto, non salutò né indirizzò
sorrisi di ringraziamento alla folla.
Renke, al suo fianco, pensò a
sostituirlo, sorridendo alle persone presenti e ringraziandoli con brevi cenni
della mano o del capo.
Poco addietro, assieme a suo marito e ai
figli, Melantha tenne un comportamento non dissimile dal fratello maggiore, le
braccia strette intorno al piccolo Aken e il viso poggiato sui suoi capelli profumati.
Non una mosca si udiva tutt’intorno,
solo il fruscio dei mantelli e lo scalpiccio delle scarpe sulla pietra della
strada.
Eikhe non seppe mai quanto tempo
impiegarono per raggiungere il tempio.
Né, di certo, quanto tempo passarono
all’interno delle mura della casa di Rostor, costruzione dalle pareti dipinte
di nero e abbellite solo da alcuni rosoni colorati.
Solo una cosa le fu chiara; non vi
sarebbero state lacrime, da parte di nessuno di loro.
Arkan non poteva più essere pianto,
ormai, perché egli non dimorava più tra loro da molto, moltissimo tempo.
Quando infine, verso sera, il corteo
tornò entrò i confini del palazzo reale, e le rispettive famiglie si riunirono in
uno dei salottini, Aken prese da parte Ruak e, con un sospiro, disse: “Intendo
andarmene domani stesso.”
“Mi sorprende che tu abbia voluto
partecipare alla commemorazione di oggi” replicò Ruak senza alcuna sorpresa
nella voce.
“L’ho fatto solo per nostra madre, ma
non credo che neppure a lei sia interessato granché, quel che abbiamo celebrato
oggi” sbuffò Aken, lanciando uno sguardo verso l’esterno.
Il sole aveva ormai lasciato il posto al
crepuscolo, e i tetti delle case erano illuminati da lame di luce rosso fuoco,
sempre più deboli e solitarie.
Ben presto, i lampioni a olio sarebbero
stati accesi per le vie, e le ronde notturne avrebbero iniziato i loro giri di
controllo per la città.
I bambini sarebbero stati ben presto
messi a dormire, e i genitori si sarebbero ritagliati del tempo per riposare le
membra e passare qualche minuto con l’amato o l’amata.
Il ciclo della vita non aveva subito
mutazioni, tutto era rimasto intatto e, pur se tutto ciò era vero come il
sorgere e il calar del sole, nessuno di loro era più lo stesso.
Aken sentiva ormai il bisogno di ritrovare
se stesso.
“Hai perso la luce nello sguardo, stando
qui. Pensi non me ne sia accorto?” continuò a dire Ruak, dandogli una pacca
sulla spalla. “Sono stato felicissimo di vedervi tutti, ma diamine, non voglio
distruggerti quando, per tanto tempo, ho agognato solo che di salvarti!”
“Mi sento soffocare, ma non è colpa
vostra. Vorrei che fosse chiaro…” tenne a precisare Aken, tornando con sempre
maggiore frequenza a scrutare l’orizzonte ormai buio. “… ma questo non è più il
mio posto, e ho bisogno di tornare a casa. Alla mia vera casa.”
“Lo so” sospirò il re, seguendo lo
sguardo del fratello oltre il pannello di vetro della finestra. “Mi mancherai
tremendamente, ma so che qui non ti trovi bene… indipendentemente da tutti
noi.”
“Scusami” abbozzò un sorriso Aken,
aggiungendo: “Mi sento tremendamente egoista, ma proprio non ci riesco.”
“Hai tutto il diritto di essere egoista,
visto quello che hai passato qui in questi anni” replicò gentilmente Ruak,
prima di voltarsi a fissare il profilo serio e pacifico della madre e dire:
“Penso che ora si sentirà in qualche modo più leggera. Dopotutto, neppure la
sua vita è stata immune da sofferenze.”
“Già” annuì Aken, senza aggiungere
altro.
“Desideri salutarci in pompa magna,
domattina, o andrai via al sorgere del sole?” gli chiese a quel punto il
fratello.
“Vale la seconda.”
Si volse per abbracciarlo strettamente e
aggiunse: “Vi saluterò tutti stasera e poi, col fare dell’alba, ripartiremo.”
“Hai la mia benedizione, fratello, e
tutto il mio amore” gli sussurrò contro la spalla Ruak, accentuando la stretta
per un attimo. “Manderò le mie lettere a Kannor perché le giri a te, va bene?”
“Scendiamo a Marhna almeno una volta al
mese, quindi non ci saranno problemi. Io, Eikhe o An passeremo da lui per avere
notizie, o per inviartene. Non sarà come bussare alla porta del tuo studio
tutte le mattine ma… beh, potrà funzionare anche così.”
“Funzionerà, ne sono sicuro” annuì certo
Ruak prima di sorridere alla madre e alla sorella, che si stavano avvicinando a
loro con passo tranquillo.
“Quell’abbraccio sapeva tanto di addio”
esordì Melantha, scrutando i due fratelli con occhi lucidi.
“Sei diventata sensitiva, sorella?”
ridacchiò Aken, chinandosi a darle un bacetto sulla guancia prima di stringerla
in un tenero abbraccio.
“Anni di pratica passati a imparare come
si stava al mondo” brontolò Melantha, dandogli una pacca sul torace prima di
aggiungere: “Ma posso sempre tornare al mio vecchio Io, se vuoi assaggiare la
sferza della mia lingua per l’ultima volta.”
Scoppiando a ridere sommessamente, il
fratello maggiore declinò gentilmente l’invito e asserì: “Come ho detto a Ruak,
potremo sempre tenerci in contatto tramite lettera. Non sarà lo stesso ma…”
“…è sempre meglio di niente. Ma desidero
conoscere il mio futuro, o la mia futura nipote. Quindi, vedi di escogitare
qualcosa, fratello, perché non accetterò un ‘no’
come risposta” tenne a puntualizzare Melantha prima di lasciarsi sfuggire una
lacrima ribelle.
Aken la raccolse con il pollice,
cancellandone la vista con una carezza. “Troverò il modo, promesso.”
“Bene” ansò lei, ormai senza voce e con
un groppo in gola più che mai doloroso.
Sorridendo alla madre, Aken abbracciò
anche lei e le chiese: “Non sei arrabbiata con me, vero?”
“Perché vuoi continuare a vivere la tua
vita? Direi piuttosto; finalmente!” disse Anladi, cercando di fare dell’ironia.
“Tu e la tua famiglia avete bisogno di tornare a casa, ed è giusto che sia
così. Aspetterò notizie da parte tua e di tutti i tuoi cari, ma non sarò mai
così egoista da tenerti qui, perché desidero vederti tutti i giorni. Sei
libero, Aken, e il nostro amore ti seguirà in ogni momento.”
“Lo so, mamma. Lo so” annuì lui,
baciandola sulla fronte.
***
“Come ti senti?”
Aken volse il viso per puntarlo su
quello tanto amato di Eikhe, che cavalcava al suo fianco lungo la Carovaniera
Settentrionale.
“Come se mi avessero tolto un peso dalle
spalle.”
Quella mattina, al sorgere del sole,
come promesso alla sua famiglia, avevano fatto armi e bagagli ed erano scesi
alle scuderie per prendere i cavalli e prepararli per il viaggio.
Lì, ad attenderli, avevano trovato Meyor
e un cesto di vimini ricolmo di cibo fresco.
Da quello che aveva spiegato loro il
ragazzo, sua madre aveva voluto prepararlo per tutti loro, per il viaggio che
li avrebbe condotti fino a Marhna, e oltre.
Aken l’aveva ringraziato al pari della
sua famiglia, raccomandandosi di salutare calorosamente sua madre.
Mentre Meyor li aiutava a legare sacche
e mantelli alle selle dei cavalli, il principe gli aveva infine detto:
“Diventerai un grande cavaliere.”
“Perché ho avuto un grande insegnante”
gli aveva replicato Meyor con un gran sorriso.
Ora Rajana occupava solo un piccolo posto
nello sconfinato orizzonte alle loro spalle, e le creste innevate dei monti si
facevano di momento in momento più vicine.
Ci sarebbe stato da sfacchinare, da
costruire una culla per il piccolo in arrivo, sicuramente da aggiustare qualche
finestra rotta o da sistemare le tegole sul tetto, ma andava bene così.
Era la vita che si era scelto, non che
gli avevano imposto.
E lui voleva quella vita, con tutto se
stesso.
Lasciando vagare lo sguardo sul volto
del figlio, che gli stava sorridendo raggiante, e su quello di Liana, che non
sapeva se rallegrarsi del loro ritorno a casa, o preoccuparsi a morte per come
l’avrebbe accolta la madre, Aken seppe di essere nel luogo in cui voleva stare.
“Parleremo noi a Fyona, stai tranquilla,
Liana” la rassicurò Aken, dandole una pacca sulla spalla.
Lei lo ringraziò con un sorriso
dolcissimo, e Aken si sentì più sollevato.
Tornando sul viso di Eikhe, illuminato
dal sole e brillante come l’oro dei suoi occhi, annuì al suo sguardo e aggiunse
alla sua precedente affermazione: “Mi sento bene. Mi sento vivo.”
Noi due, quanto
a lungo fummo ingannati,
ora metamorfosati fuggiamo veloci come fa la Natura,
noi siamo Natura, a lungo siamo mancati, ma ora torniamo,
diventiamo piante, tronchi, fogliame, radici, corteccia,
siamo incassati nel terreno, siamo rocce,
siamo querce, cresciamo fianco a fianco nelle radure,
bruchiamo, due tra la mandria selvaggia, spontanei come chiunque,
siamo due pesci che nuotano insieme nel mare,
siamo ciò che i fiori di robinia sono, spandiamo profumi nei sentieri
intorno le
mattine e le sere,
siamo anche sterco di bestie, vegetali, minerali,
siamo due falchi, due predatori, ci libriamo in alto nell’aria e guardiamo
sotto,
siamo due soli splendenti, siamo noi due che ci bilanciamo
sferici, stellari, siamo come due comete,
vaghiamo con due zanne e quattro zampe nei boschi, ci lanciamo sulla preda,
siamo due nuvole che mattina e pomeriggio avanzano in alto,
siamo mari che si mescolano, siamo due di quelle felici
onde che rotolano l’una sull’altra e si spruzzano l’un l’altra,
siamo ciò che l’atmosfera è, trasparente, ricettiva, pervia, impervia,
siamo neve, pioggia, freddo, buio, siamo ogni prodotto, ogni influenza del
globo,
abbiamo ruotato e ruotato finché siamo arrivati di nuovo a casa, noi due,
abbiamo abrogato tutto fuorché la libertà, tutto fuorché la gioia.
Walt
Whitman
Spero che la storia vi sia piaciuta. Grazie a tutti coloro che mi hanno seguita, hanno commentato e hanno condiviso con me quest’avventura! La prossima avventura dei nostri eroi si intitola 'L'eredità del lupo'! Vi aspetto! ^_^