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Autore: Sylphs    24/02/2012    1 recensioni
Ehilà! Ho scritto questa favola un po' folle quando avevo 14 anni ed è in assoluto il primo romanzo che ho finito a quell'epoca, perciò ho deciso di tentare la sorte e pubblicarlo su efp, confido nella vostra pietà :) la storia si ispira alla mia fiaba preferita, "La bella e la bestia", salvo che la protagonista è un peperino ed è tutto fuorché una graziosa fanciulla. Spero che qualcuno leggerà!
Genere: Azione, Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 4

 
 
 
 
 
 
Su Soledad quella mattina splendeva un sole timido e benefico, e un venticello fresco spirava nell’aria. Isadora si godeva il fresco del mattino da una finestra ai piani alti della sontuosa magione del marchese e fantasticava sul ritorno del padre e sui doni che le avrebbe portato. Lui le mancava terribilmente, anche se era andato via solo il giorno prima. Immaginava il prestigio che la sua famiglia avrebbe acquistato grazie all’alleanza con il conte DeGuisky. Finalmente Anastasia, Genoveffa e le altre ragazze del villaggio avrebbero smesso di guardarla dall’alto in basso.
“Ti sta venendo un filo storto come uno zoppo, marchesina Isadora”.
La ragazza sussultò, e si ritrovò improvvisamente seduta su un divanetto con un lavoro a maglia sulle ginocchia. Natalie sedeva di fronte e lavorava ad uncinetto. Mentre il suo filato era impeccabile, quello di Isadora era misero e malfatto. La matrigna la trafisse con una delle sue solite occhiate di disapprovazione: “Invece di guardar fuori dalla finestra dovresti concentrarti sul tuo lavoro”.
Isadora sbuffò: “Io ci provo, matrigna Natalie, ma mi viene sempre male”.
“Piangersi addosso è il rifugio dei perdenti” sibilò lei implacabile: “È un modo stupido per giustificarsi di un comportamento inetto”.
“Grazie per avermi illuminata sulla mia natura di perdente” mugugnò Isadora. Con un lungo sospiro, tornò a guardare fuori dalla finestra e lasciò cadere lo sguardo sulle vie caotiche di Soledad. Un gruppo di bambini giocava con le biglie accanto alla fontana, delle donne portavano brocche piene d’acqua sulla testa, e una figura era ferma accanto ad una palazzina di pietra. Isadora si chiese con un brivido se fosse l’enigmatico Lord Fox. Era diventato il suo personale spiritello dispettoso, anche se non sapeva perché. Aveva negli occhi verdi una luce strana che cresceva ogni volta che la vedeva. Dal canto suo, in quei due giorni Isadora gli aveva sbattuto la porta in faccia almeno dieci volte senza che recepisse il messaggio.
Fu mentre osservava quel caotico viavai di gente che notò un uomo che si avvicinava con passo da zombie alla magione, solo. Aveva un che di familiare, e lo osservò più attentamente. Indossava vestiti stropicciati e sporchi, che innegabilmente però erano di stoffa pregiata. I capelli grigi erano arruffati, e non c’era alcuna traccia del calesse né dei regali che aveva promesso. Isadora mormorò: “Ehi, ma quello non è…” poi, quando l’uomo si fu fermato di fronte alla magione, il viso della ragazza si illuminò di un sorriso di gioia pura: “PAPÀ!!”
“Che?” balbettò Natalie, sobbalzando. Isadora balzò in piedi come una molla, raggiante come un sole calato in terra, gli occhi azzurri luminosi, indicando freneticamente l’uomo immobile in strada: “È papà!” gridò come se fosse appena apparso il Creatore. Natalie apparve confusa: “Ma sarebbe dovuto tornare minimo domani…”
“Che importa? Ora è qui!” esclamò felice Isadora. Senza aspettare che la matrigna aggiungesse qualcos’altro, corse fuori dalla stanza e si gettò a rotta di collo giù per le scale, sempre sorridendo gioiosamente, sempre gridando: “Papà!”
Era magnifico che fosse tornato in anticipo. Avrebbero passato la giornata insieme e lui le avrebbe raccontato un sacco di cose interessanti su Borgofiorito e sul conte DeGuisky. Al diavolo il lavoro a maglia, al diavolo Natalie e al diavolo il dovere. Era tornato suo padre! Mentre scendeva a precipizio le scale, i capelli biondi che le cadevano scarmigliati sulle spalle, urtò il maggiordomo che invece le saliva con una tazza di tè per Natalie. L’uomo la lasciò cadere con un grido e quella andò in frantumi. Irato, si girò: “Ehi!” ma la gioconda sorridente era già sfrecciata lontano senza neanche chiedere scusa.
Isadora raggiunse ansimando il portone d’ingresso e si rivolse ai servitori che erano nell’atrio: “Aprite, presto, è tornato mio padre!” impaziente attese che quelli avessero obbedito, poi, quando ebbe via libera per l’esterno, volò fuori dal palazzo e ripeté per la terza volta: “Papà!”
Venne investita dal calore del sole. Suo padre era là, a pochi metri da lei, e la fissava come pietrificato. Senza smettere di sorridere, gli corse incontro: “Papà! Sei tornato!” allargò le braccia per abbracciarlo. Ma si bloccò quando lo vide bene. Il marchese non era più lo stesso: gli abiti gli pendevano a brandelli, i capelli radi erano tutti ingarbugliati, e il volto aveva un pallore mortale. La fissava con gli occhi sbarrati, come se avesse di fronte un fantasma. Isadora si fermò con le braccia ancora alzate in un abbraccio, e dalla gioia la sua espressione passò alla perplessità: “Papà? Tutto bene?” mormorò. Lui sbarrò ancora di più gli occhi e non rispose. Isadora iniziò a percepire una vaga inquietudine: “Dov’è il calesse?”
Il marchese aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Isadora lo afferrò per le spalle, spalle inerti: “Che ti succede? Stai male?” bisbigliò. Tutta la gioia che l’aveva animata poco prima era stata risucchiata via dall’angoscia. Cos’aveva suo padre? Era così pallido e apatico…lo scosse leggermente e percepì un peso che le occludeva la gola: “Papà, rispondimi, ti prego!”
Il marchese esalò un gemito e si accasciò senza un lamento sulla strada. Terrorizzata, Isadora lo sostenne goffamente e gridò a pieni polmoni: “Natalie! Natalie, vieni, papà sta male!!”
La matrigna accorse prontamente e si chinò sul marito, afferrandolo laddove Isadora non riusciva a tenerlo: “Caro, cos’è successo?” nella sua voce c’era una nota di ansia, ma, a differenza di Isadora, le sue reazioni erano più controllate. Il marchese, pallidissimo, non dava cenni di vita. Isadora divenne tutta rossa e gli occhi le si fecero lucidi di lacrime: “Papà…” singhiozzò. Anche il viso di Natalie era pallido di ansia, ma prese in mano la situazione con una forza che Isadora, stranamente, le apprezzò: “Portiamolo dentro, presto, Isa”.
Sorpresa dell’essere stata chiamata per soprannome per la prima volta, la ragazza obbedì. Le due donne tirarono su a fatica il marchese, che giaceva abbandonato alla loro presa, e lo trascinarono in direzione del portone d’ingresso. Isadora lottava arduamente con le lacrime. Non riusciva a concepire che qualcuno potesse aver fatto del male a suo padre, una persona così mite, buona e altruista. Temeva di perderlo, perché sapeva che non avrebbe avuto più nulla. Lui la fissò e parve prendere vita all’improvviso: “Non odiarmi” biascicò con voce fioca. Isadora si sforzò di sorridergli dolcemente: “Odiarti? Come potrei, papà? Io ti voglio bene”.
“Non odiarmi” ripeté lui come una cantilena. Lo scortarono fino ad un grosso tavolo in legno di noce e lo fecero sedere su una sedia. Il marchese vi piombò sopra come un sacco. Natalie gli deterse la fronte con un fazzoletto imbevuto d’acqua e si rivolse seccamente ad una domestica di passaggio: “Portami dell’acqua zuccherata, Trudy” quella annuì. Isadora aiutò il padre a togliersi la giacca rovinata, poi gli prese tra le sue una delle mani inerti, vi posò un lungo bacio e gli chiese con viva ansia: “Cos’è accaduto? Sei stato aggredito dai briganti?”
Trudy ritornò con un bicchiere che porse a Natalie. Lei lo accostò alle labbra del marchese e lo aiutò a bere. Lui lo fece avidamente, come se non bevesse da anni. Quando ebbe finito, Natalie depose il bicchiere, poi piantò gli occhi affilati nei suoi e chiese: “Ora però devi raccontarci, caro. Sei ferito? Oppure solo sconvolto?”
“Io…io…” farfugliò lui. Se prima era immobile, ora tremava violentemente, e Isadora provvide ad avvolgerlo in una calda coperta: “Ti prego, papà, dì qualcosa. Altrimenti non possiamo aiutarti!” lo implorò. Lui volse lentamente la testa e la fissò. L’affetto disarmante con cui lo guardava gli fece sentire una fitta al cuore. Era stato vigliacco, vigliacco ed egoista. Lei non lo meritava. Ma ormai si era messo in trappola: in gioco c’era la vita di tutti loro. Così parlò: “Ho rovinato la tua vita, Isa. Ma ti giuro che non volevo”.
Così raccontò tutto. Provava dolore a farlo, ma doveva. Parlò di come si era perso nella foresta, del cane Bruto, del maniero, di Katrina, dell’orco e del patto che era stato costretto a stringere con lui. Si sentiva morire via via che andava avanti, quasi non osava guardare in faccia sua figlia.
Mentre Natalie mantenne un’espressione imperturbabile durante tutto il racconto, Isadora lo ascoltò dapprima con interesse ansioso. Lentamente quell’interesse si mutò in paura, una paura premonitrice. All’ultima parte del racconto, le guance rosee della giovane persero completamente il loro colore, gli occhi si spalancarono, le mani le salirono istintivamente alla gola. Di colpo scattò in piedi e si allontanò dal marchese incespicando: “No!” lo urlò come se solo quella semplice parola potesse cambiare il senso di quanto aveva appreso: “No!” ripeté, sgomenta, guardandolo con occhi colmi d’orrore. Il marchese si sentì prossimo alla morte: “Mi dispiace, Isadora. Sono stato un vile” allungò una mano per accarezzarle il viso, ma lei si scostò di scatto come se l’avesse morsa. Gli occhi del marchese si riempirono di lacrime: “Isa, ti prego…”
“No!” gridò lei. Non riusciva a crederlo. Non poteva crederlo. In un attimo vedeva sgretolarsi i suoi sogni, le sue aspettative, tutto quello in cui aveva creduto e che aveva sperato, e un orrore senza confini quasi la soffocava, riempiendola di nausea e di rabbia: “Come…come hai potuto?” trovò infine la forza di biascicare: “Come hai potuto farmi questo? Mi hai venduta ad un orco per salvarti la pelle?” quelle parole contenevano una tale sgradevolezza che provò l’impulso di piangere, ma non riusciva a fare neppure quello. Il marchese a malapena riuscì a ribattere: “Avresti preferito vedermi morto?”
Isadora rimase come folgorata. Era tutto così ingiusto che non sapeva più cosa fare, come gestire quell’incubo in procinto di catturarla. Serrò i pugni con tanta forza da farsi sbiancare le nocche: “È colpa tua comunque! Sei tu che sei entrato in quel posto, sei tu che ti sei fatto scoprire, e tu mi hai offerta come carne al macello!”
“Se ci fosse stato il minimo rischio per te, avrei accettato la morte…”
“Preferisco morire che diventare la moglie di un orco fino alla morte!” urlò lei, fuori di sé. Da pallida era diventata paonazza e ansante, e respirava a fatica, come dopo una lunga corsa. Tuttavia nei suoi occhi azzurri non c’era odio per il marchese, solo una delusione immensa, unita a crescente disperazione. Natalie, che era rimasta in silenzio durante tutto il colloquio, le disse freddamente: “Devi fare come ha deciso tuo padre. Devi sposare quell’orco”.
“Potete scordarvelo!” continuò a urlare Isadora, fissandoli con furore: “Io non sposerò nessun orco, e non accetterò nemmeno di passare la vita chiusa in un maniero a far la serva! Non contate su di me!”
“Perché sei così egoista?” la aggredì Natalie. Isadora la guardò come se fosse matta: “Sarei io l’egoista?!” lanciò un’occhiata al padre, che parve rimpicciolire, devastato. Ma Natalie non si fece impietosire dall’orrore, dalla disperazione e dalla rabbia della ragazza. Si alzò e la fronteggiò, fissandola con uno sguardo accusatorio: “Sì, sei tu l’egoista. Tuo padre ha rischiato di morire, e se ha fatto quel che ha fatto, è stato solo perché era l’unica speranza di sopravvivere”.
“Io sarei morta piuttosto che venderlo ad un orco!” replicò Isadora. Ma Natalie non mollò l’osso: “Nelle situazioni bisogna esserci, cara mia. Se non sposerai quell’orco, lui verrà qui, tra tre giorni, e ci ucciderà tutti. È questo che vuoi? Sappi che non sarà tuo padre ad averci tutti sulla coscienza…ma tu! Sì, proprio così, ragazza viziata: avrai sulla coscienza tutto Soledad!”
Isadora indietreggiò, come se quelle parole l’avessero in qualche modo trafitta. Le labbra le tremarono, le lacrime indugiarono sulle palpebre. Poi scosse con violenza la testa, voltò le spalle ai due e corse via gridando: “Potete scordarvelo!”
 
Isadora spalancò la porta della sua stanza con tale foga da sbilanciarsi leggermente, poi se la sbatté alle spalle con un botto sordo. Per un attimo fissò con gli occhi velati di lacrime il comodino, il letto a baldacchino e l’armadio bianco, poi si buttò a capofitto sul materasso e affondò la faccia in uno dei due cuscini di piume. Tutte le lacrime che aveva trattenuto poco prima tornarono a galla impetuosamente e scoppiò in un pianto dirotto. Rimase distesa sul letto come morta a piangere sul cuscino, singhiozzando e sussultando.
“Non è giusto” pensò tra un singhiozzo e l’altro. Come aveva potuto suo padre distruggerle i sogni in quel modo? L’aveva condannata a morire o a sposare un orco. Lei che voleva vivere avventure, lei che voleva girare il mondo, lei che voleva innamorarsi di un impertinente avventuriero come Robin Hood… non avrebbe mai fatto nulla di tutto ciò. La sua vita era finita. Le era capitato il peggiore dei destini. Immaginava come avrebbero sparlato di lei Anastasia, Genoveffa e tutte le altre ragazze in età da marito:
“Povera marchesina Isadora” avrebbe detto Anastasia acida: “È finita prigioniera nel castello di un orco a fargli le faccende tutto il giorno. Il padre non ha avuto pietà”.
“Beh, c’era da aspettarselo” avrebbe commentato Genoveffa: “Con quel bel caratterino che si ritrova, sarebbe rimasta zitella. Meglio così che niente”.
Isadora le invidiò. Perché loro avevano una cosa che le mancava: una vita davanti.
“Non voglio sposare quell’orco” sibilò al cuscino: “Non me ne importa di quello che potrebbe accadere”.
Si sentì toccare delicatamente una spalla, e sollevò il viso rigato di lacrime. Due occhietti neri e brillanti le restituirono lo sguardo, interrogativi e accorati. Il topolino Armageddon era in piedi sul letto, proprio davanti a lei, e vedendola piangere e disperarsi si era fatto avanti. Isadora emise un singhiozzo, lo prese fra le mani e se lo avvicinò al viso, cullandolo con un calore che non gli aveva mai dimostrato in tal modo: “Oh, Armageddon” mormorava con voce rotta di pianto: “È capitata una disgrazia. Mio padre ha fatto un patto con un orco, che pretende di avermi in moglie, e ci minaccia tutti di morte! Cosa posso fare?”
Armageddon non sapeva parlare, e continuava a fissarla intensamente. C’erano volte in cui Isadora lo trovava simile ad un essere umano, altre volte in cui invece lo riteneva vuoto e inespressivo. Si mise a sedere sul letto. Non piangeva più: non aveva più lacrime. Dondolò il topolino fra le braccia, gli occhi ancora umidi e rossi fissi nel vuoto. Le parole di Natalie le risuonarono in testa, cariche  di una terribile accusa: “Avrai sulla coscienza tutto Soledad!”
“Perché è tutto così complicato?” chiese Isadora al nulla o forse ad Armageddon: “Non ho chiesto io tutto questo. Io non volevo che accadesse nulla di simile”.
“Avrai sulla coscienza tutto Soledad!”
Pensò che suo padre rischiava di morire. Suo padre era tutto ciò che aveva. Ora era piena di risentimento per quello che le aveva fatto, ma continuava a volergli un gran bene. È strano quanto l’amore resiste alle offese. Non aveva paura per sé: morire o rinunciare alla felicità si equiparavano. Sentiva di poter fare quello contro cui aveva lottato fin dall’infanzia solo per suo padre.
“Forse anche mamma dovette fare una scelta simile” rifletté: “E lo abbandonò. Se anch’io lo abbandono, resterà solo e si distruggerà”.
Si asciugò rabbiosamente gli occhi, si sistemò i capelli e il vestito, poi porse la manica ad Armageddon, che ci si infilò prontamente. Preso un lungo respiro,  uscì dalla sua stanza.
 
Il marchese era ancora seduto al tavolo, insieme a Natalie. Entrambi tacevano, lui perché era disperato e sconvolto, lei perché rifletteva su quanto andava fatto a quel punto. Fu mentre evitavano di guardarsi che comparve Isadora. La ragazza si fermò sulla soglia e lì vi rimase immobile.  
“Isa!” bisbigliò il marchese. Natalie si accontentò di fissarla. Isadora li guardava con espressione seria e accigliata. Gli occhi erano ancora rossi e gonfi e il colorito era pallido, ma era la statua della decisione fatta persona. C’era in lei anche una rassegnazione senza confini. Fu con voce spenta e veemente che annunciò nel silenzio del palazzo: “Lo farò”.
 
“Lo farò” esclamò il cantastorie con enfasi. Seguirono diversi istanti di silenzio, durante i quali i suoi giovani ascoltatori lo fissarono con espressione attonita. Non sembravano capacitarsi dell’arrendevolezza di Isadora. Alla fine fu Josh a parlare: “E quindi accettò di sposare l’orco senza ribellarsi?”
“Non aveva altra scelta” ribatté Annie: “Se continuava a dire no, l’orco li avrebbe tutti uccisi”.
“Avrebbe potuto scappare con il marchese!” borbottò Alex. Stavolta fu il cantastorie a rispondere: “Ma così avrebbe condannato alla morte tutto il suo regno”.
“Fece una bruttissima fine, insomma” mugugnò Tom. Si ostinava a non lasciarsi trasportare sulla stessa linea d’onda dei suoi compagni. Effettivamente quella era una fiaba che non aveva mai sentito prima. Il cantastorie assunse il suo solito tono enigmatico: “Aspetta prima di saltare a conclusioni affrettate, Tom: non è detto”.
“Come sarebbe?” sbuffò il ragazzino: “Stai per dirci che andò a rinchiudersi in un maniero oscuro e a far la serva!”
“Sì, sembrerebbe così” replicò il cantastorie: “Ma in ogni storia c’è sempre un colpo di scena”.
“Oh, qual è, qual è?” strepitò Julie. Il cantastorie ridacchiò: “Ci arriverò tra un po’. Ora è tempo di continuare. Il giorno delle nozze Isadora era pronta a partire…”

 
  
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