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Autore: Sylphs    24/02/2012    1 recensioni
Ehilà! Ho scritto questa favola un po' folle quando avevo 14 anni ed è in assoluto il primo romanzo che ho finito a quell'epoca, perciò ho deciso di tentare la sorte e pubblicarlo su efp, confido nella vostra pietà :) la storia si ispira alla mia fiaba preferita, "La bella e la bestia", salvo che la protagonista è un peperino ed è tutto fuorché una graziosa fanciulla. Spero che qualcuno leggerà!
Genere: Azione, Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 5

 
 
 
 
 
 
PER COLORO CHE LEGGONO, POSTERò DUE CAPITOLI OGNI DUE GIORNI, UN SALUTO A TUTTI :) Il giorno delle nozze, Isadora era pronta a partire. Si sentiva oppressa da un peso che le gravava addosso implacabilmente, mentre Natalie la costringeva ad indossare l’abito da sposa che aveva indossato lei a suo tempo. Pizzi ingialliti e un velo lunghissimo le frusciarono sulla pelle, facendola rabbrividire. Sarebbe stato meglio vestirsi a lutto. Stava per dire addio alla sua vita e ai suoi sogni.
Non avevano detto a nessuno chi sposava e dove andava a vivere. Era stata inventata una pietosa bugia: il figlio di un nobile di Borgofiorito era rimasto affascinato da Isadora e lei andava a vivere con lui in quel regno. Isadora aveva passato due giorni nella più completa apatia. Aveva detto addio a quella casa che tanto amava, all’allegria caotica di Soledad, alla libertà, alla sua vita agiata. Galleggiava in un mare di disperazione e di sconforto. E per di più nessuno le riconosceva quell’enorme sacrificio: Natalie la trattava come se avesse semplicemente fatto il suo dovere, e suo padre la evitava di continuo, vedendo in lei il rimorso più forte di tutti.
Osservandosi allo specchio, tutta vestita di bianco, represse a stento un singhiozzo. Si sentiva come un morto che cammina. Armageddon, al sicuro tra le pieghe dell’abito, la scrutava preoccupato. Lui, almeno, l’avrebbe accompagnata. Natalie la contemplò inespressiva, poi le fece un cenno brusco con la testa: “La carrozza ci aspetta”.
Isadora non riuscì a muoversi. Non voleva andare. Poteva restare solo un altro giorno? Natalie, già sulla porta, sbuffò, spazientita: “Ti ho detto che la carrozza ci aspetta!”
“Come fai ad essere così crudele?” bisbigliò Isadora, afferrando la gonna dell’abito e stringendo la presa. Natalie sospirò, tornò sui suoi passi e la prese con fermezza per il braccio. La tirò fuori dalla stanza da letto, e lei la seguì come un naufrago che si getta in mare. Si lasciò spingere rudemente fuori dalla magione, provò ad aggrapparsi a tutto ciò che le capitava tra le mani, ma Natalie riusciva sempre a trascinarla in avanti. Quando sbucarono all’esterno il sole le parve buio come la notte. La carrozza rossa bordata d’oro l’attendeva di fronte alla magione, con suo padre vestito da cerimonia già seduto, pallido e nervoso. Isadora era più pallida di lui, e da sotto il velo si guardava intorno con uno sguardo fisso e vuoto, lo sguardo di chi ha perso tutto.
Natalie la condusse accanto alla carrozza. Il popolo era tutt’intorno, accorso a salutarla. C’era anche Lord Fox e il suo ghigno astuto. Isadora lo guardò disperatamente. Perfino lui era meglio che quello a cui andava incontro. Poi però Natalie la costrinse ad entrare in carrozza e si accomodò sui sedili accanto al marchese. Lui la guardò, ma lei evitò il suo sguardo.
Durante il tragitto, nessuno dei tre disse una parola. Isadora era più morta che viva, così pure il marchese, Natalie semplicemente non sapeva cosa dire. Alla fine, quando erano nei pressi della foresta, si rivolse alla ragazza con asprezza: “Posso darti un consiglio?”
Isadora contemplava il vuoto e non rispose. Natalie andò avanti comunque: “So che sarà…difficile” le costava parlar così, andava fuori dai suoi schemi: “Ma non tutto è perduto. Non avrai una vita felice, questo è certo. Ma se ti comporti nel modo giusto al momento giusto, te la faciliterai alquanto. Sii brava e servizievole, accantona il tuo carattere ribelle e bizzoso, adattati alle nuove abitudini. Devi vedere positivo”.
La ragazza non sembrava neanche ascoltare, completamente inebetita. Con un sospiro, Natalie tornò a star zitta.
La foresta era minacciosa di giorno quanto lo era di notte. Isadora rabbrividì in tutto il corpo al pensiero di doverci passare la vita. Perfino Armageddon si rintanò tra le pieghe del suo abito da sposa, impaurito. La carrozza si infilava a fatica tra i rovi e i rami, immergendosi nella perenne penombra dell’oscura foresta. Il marchese impallidì nel ricordare la propria disavventura. Scrutò la figlia per studiarne la reazione: era pallida come una morta, con gli occhi spalancati e il lungo velo che le cadeva fino ai piedi. Sembrava aver perso tutto il suo ardore, tutte le sue speranze: era triste e spenta, e per merito suo. Aveva rovinato tutto in pochi istanti. Provò l’impulso di dirle che gli dispiaceva, che sapeva che lei stava facendo un sacrificio enorme per lui che non meritava assolutamente nulla. Ma a cosa sarebbe servito? Penava in silenzio.
Trovarono ad attenderli, nelle vicinanze del maniero, Katrina e il cane Bruto. La vecchia domestica fece un gran sorriso e agitò un braccio per farsi vedere. Doveva essere venuta per accompagnarli. Il marchese notò che aveva tentato di dare una ripulita al suo straccio, ma senza troppi risultati. Si era tolta il grembiule e raccolta in una crocchia gli stopposi capelli grigi, ma era ugualmente l’immagine della denutrizione fatta persona. Tuttavia mostrò una tale gioia nel vederli, e gli occhi strabici si illuminarono a tal punto da dar l’idea che avesse atteso a lungo quel momento.
I tre scesero dalla carrozza e le andarono incontro. Natalie storse il naso dal disgusto di fronte alla sudicia domestica, Isadora restò inebetita e barcollante. Il sorriso di Katrina si fece ancora più ampio. Il marchese notò inoltre che si era messa la dentiera. Le trotterellava accanto il cane Bruto, una massa informe del colore della notte, con il collare spinato scintillante al sole. Non appena li ebbe raggiunti, Katrina assalì Isadora nel senso letterale della parola. Fissandola con pura meraviglia, quasi non avesse mai visto una sposa in vita sua, le si fece incontro con un sorrisone ed esclamò, estasiata: “E così tu sei Isadora! Ti aspettavamo, ti aspettavamo eccome! Oh, ma sei bellissima, tesoro. Come ti dona questo vestito! Che meravigliosi capelli! Io sono Katrina la domestica, se non hai ancora sentito parlar di me. Benvenuta!”
Le afferrò le mani con goffo entusiasmo e gliele accarezzò con le lunghe dita adunche. Isadora si irrigidì, ma nonostante tutto, provò un moto di istintiva simpatia verso quella strana vecchietta. Il suo atteggiamento era amichevole, sebbene a modo suo. Tuttavia, non bastava l’entusiasmo di Katrina a rischiarare l’abisso della sua disperazione. La lasciò fare mentre la toccava da tutte le parti, ma rimase immobile come una statua. Intanto Bruto si era messo ad annusare il marchese, e lui aveva mormorato tristemente: “Ti ricordi di me, eh, bello?”
Alla fine Katrina smise di ammirare Isadora e si rivolse allegramente a tutti e tre: “Venite con me, il padrone ci sta aspettando”.
Sentendolo nominare, le gambe di Isadora si rifiutarono di nuovo di muovere un passo. Accorgendosene, Natalie intervenne prontamente e la afferrò per il solito braccio, spingendola a procedere dietro alla gongolante Katrina. Via via che si avvicinava alla sua fine, la ragazza si sentiva sempre più nauseata e terrorizzata. E se fosse fuggita? No. Non c’erano più speranze.
Katrina osservò anche Natalie: “Voi siete la madre?”
“La matrigna” disse lei con aria di superiorità, senza guardare in faccia la domestica. Katrina annuì con la massima serietà: “Lo immaginavo. Non vi assomigliate affatto”.
“E voi che ruolo avete in tutto questo?” fece Natalie, aristocratica. Katrina le rispose con la sua comica naturalezza: “Servo nel castello da quando avevo l’età di Isadora”.
“Come ci siete finita, nel castello?”
“Affari miei” sorrise Katrina. Benché disperata, Isadora non riuscì ad impedirsi di sorridere. Wow! La prima persona che osava rispondere a tono a Natalie! La matrigna avvampò e si erse impettita in tutta la sua modesta statura, ma preferì rimanere in silenzio. Katrina, invece, guardò la ragazza con tenerezza: “Ti ho fatta sorridere, Isa. Posso chiamarti Isa? Oh, ti voglio già bene senza quasi conoscerti. Diventeremo amiche, che ne dici? Ne avremo di tempo da passare assieme!”
Isadora rifletté con umorismo nero che, da vecchia, sarebbe stata uguale a Katrina. Una vecchietta mezza pazza, denutrita e sudicia che viveva segregata in un maniero nella foresta. Le uscì un rantolo soffocato.
Il corteo sbucò nella radura al cui centro si ergeva l’enorme e tetro maniero nero. Ad Isadora si mozzò il fiato di fronte a quello spettacolo. Quella era la sua nuova casa?! Quel castello orribile che sembrava una casa degli orrori? Katrina si accorse della sua espressione devastata e si mortificò: “Sì, ammetto che può sembrare un pochino macabro la prima volta che lo vedi, ma ti ci affezionerai, vedrai. Io ho dato un nome ad ogni tappeto che devo sbattere e ad ogni piatto che devo pulire!”
“Che cosa originale” commentò Natalie con la voce che sprizzava veleno da tutte le parti. Ma Katrina non era in grado di captare il sarcasmo: “Il padrone ci attende dentro. È pronto per la cerimonia”.
“Signora” sussurrò la povera, sconvolta Isadora. Katrina le sorrise gentilmente: “Chiamami per nome, gioia mia. Cosa c’è?”
“Che ruolo avrò io in tutto questo?” trovò infine la forza di chiedere lei. Katrina sollevò una delle rade sopracciglia e si grattò un orecchio: “Tu sarai sua moglie. Suppongo che dovrai aiutarmi a fare le pulizie, a mandare avanti la casa e cose simili…così ha detto il padrone. Non preoccuparti, nessuno pretende altro, da te”.
E chiamiamolo poco! Quel maniero aveva l’aria di essere pieno di sudiciume e di insetti orrendi, e Katrina probabilmente era soltanto convinta di occuparsene decentemente. Ma lei che poteva fare? Lei era la figlia di un marchese! Non era abituata a questo genere di cose!  A malapena sapeva rifare un letto!
“Ha chiesto una moglie” pensò: “Solo per non chiedere una sguattera”.
Katrina aprì faticosamente il pesante portone e l’oscurità minacciosa del maniero si presentò ai loro occhi. “Seguitemi” gongolò la domestica. Natalie affidò l’inebetita Isadora al padre perché l’accompagnasse “all’altare” e lui le strinse la mano con disperazione. Isadora, dal canto suo, fissava con crescente orrore le sale, i corridoi e le camere del tetro maniero, trovandole una più sporca e brutta dell’altra. Le ragnatele si rincorrevano lungo le pareti, la polvere si ammassava sui tappeti e sul pavimento senza trovar freno, e la sporcizia era rimasta incrostata così a fondo che sembrava impossibile mandarla via.
“Prigioniera per sempre in questo posto” pensò, inorridita.
Quello fu solo un assaggio di ciò che provò pochi istanti dopo. Katrina indicò, eccitata, una sagoma imponente che li aspettava immobile sulla soglia di una stanza. Il viso di Isadora si fece bianco dallo choc via via che si avvicinavano. L’orco era veramente spaventoso, imperturbabile come sempre, con le massicce braccia incrociate sul petto. Non si era dato neanche la pena di indossare abiti più decenti: portava i soliti indumenti di pelle, il solito cinturone pieno di coltellacci e i soliti stivaloni borchiati. Era torvo e spazientito, e i suoi occhi ardevano come fuoco.
Isadora ebbe un mancamento improvviso e fece per accasciarsi con un gemito. Natalie, fulminea come sempre, si lanciò e la sostenne prima che stramazzasse sul pavimento di pietra: “Dannazione, marchesina Isadora, mostra un minimo di dignità” le bisbigliò furiosa. Isadora, però, era diventata verde e a malapena si reggeva in piedi. Si sentiva prossima a cedere ai nervi. Era troppo. Pretendevano da lei un peso enorme. Non era in grado di sopportarlo. Il marchese la trascinò abbandonata come un fantoccio di fronte al torvo orco. Quando gli furono davanti, Isadora emise un flebile rantolo. 
Lui li guardò entrambi con una freddezza glaciale, poi indicò Isadora con un brusco cenno della testa: “È lei la ragazza?” grugnì, come se lei non sapesse parlare. La sua voce tonante fu l’ennesimo colpo al cuore. Il marchese annuì, ammutolito. L’orco scrutò Isadora come se stesse valutando una merce non particolarmente soddisfacente, poi osservò: “Piuttosto gracile, vedo”.
“Ma con doti nascoste” intervenne Natalie. L’orco fece una smorfia scettica: “È pallida come una morta. Spero che non mi avrete voluto rifilare una malata”.
Isadora provò un moto tra la rabbia e il dolore. Stavano parlando di lei come se fosse un oggetto. Ma a cosa serviva opporsi a quel bestione? Taceva, piena di sconforto. Natalie rispose ancora: “Isadora è in perfetta salute. In questo momento è solo colpita da tutte queste novità”.
“Farà bene ad abituarsi presto” disse l’orco, sempre senza rivolgersi direttamente a lei: “Non voglio problemi” voltandosi bruscamente, si introdusse nella stanza. Katrina, imbarazzata, soffiò loro: “Ora fa lo scontroso, ma non è poi così male. Andiamogli dietro!”
Isadora si mosse in trance. Vide un rozzo altare di pietra di fronte al quale era in piedi quel terribile orco che presto sarebbe stato suo marito, vide due anelli di legno appoggiati sopra, e vide se stessa ridotta a quel modo. Le venne da piangere, ma represse le lacrime, inghiottendole. Era giunta l’ora di mostrare coraggio. Era giunta l’ora di dire addio ai suoi bei sogni. Era giunta l’ora di diventare la moglie dell’orco.
 
Quella sera stessa, quando un tramonto mozzafiato tingeva di caldi colori il funereo maniero, il marchese e Natalie stavano per tornare in carrozza a Soledad, e Isadora si accomiatava da loro nella radura.
La cerimonia era stata semplice e rapida, anche se per Isadora era stato il momento peggiore della sua vita. Non c’erano stati né preti, né, baci, né giuramenti (e forse era meglio così) ma lei e l’orco si erano limitati ad infilarsi reciprocamente gli anelli di legno, come volevano le usanze degli orchi. L’avevano fatto entrambi senza la minima partecipazione, ed ora Isadora aveva quel cerchiaccio di legno intorno all’anulare. Le irradiava per il braccio una sensazione di gelo.
Natalie si infilò subito in carrozza, ansiosa di tornarsene nella rassicurante cittadina di Soledad, il marchese, invece, indugiò a lungo di fronte ad Isadora. Si guardarono intensamente negli occhi, ed ebbero il tempo di contemplare, lui tanto dolore, lei tanto rimorso. La ragazza provava un terrore profondo alla prospettiva di restare sola per sempre in quel maniero, con quell’orco. Il marchese sembrava cercare le parole. Alla fine mormorò: “Isadora…”
“Taci” singhiozzò lei. Gli buttò perdutamente le braccia al collo. Dopo un primo istante di stupore, il marchese la abbracciò a sua volta con tutte le forze. Si strinsero l’uno all’altra e rimasero così a lungo. Sulla soglia del maniero, l’orco aspettava spazientito, di fianco a Katrina.
Isadora percepiva le lacrime che, bollenti, le rotolavano sulle guance, e i singhiozzi che scuotevano il corpo del padre. Stringendolo ancor di più, premette le labbra sul suo orecchio: “Non lasciarmi…” bisbigliò. Lui la fissò con tutto lo straziante dolore di questo mondo: “Devo…ma tornerò. Te lo giuro, Isa, io tornerò”.
“Non lasciarmi” ripeté lei, aggrappandosi a lui: “Non lasciarmi qui…”
Il marchese si sentiva sul punto di perire per il dolore. Non riusciva a separarsi da Isadora. Come al solito, fu Natalie a richiamarlo seccamente: “Caro, andiamo prima che faccia buio!”
Isadora fissò la matrigna con odio. Era stata lei a portargli via suo padre, non l’orco, non quel castello, né il conte DeGuisky. Era stata solo colpa sua. Senza di lei avrebbero trovato il modo di scamparla comunque. Era tutta colpa sua. Tuttavia, il marchese si riscosse e lasciò andare la figlia: “Arrivo…”
“No!” gemette Isadora, facendosi avanti e fissandolo con gli occhi lucidi. Ma lui rispose con uno sguardo che voleva dire: devo andare. Si sentì svuotata, abbandonata completamente al suo destino. Restò immobile mentre suo padre entrava in carrozza, mentre il mezzo si metteva in moto e scompariva tra gli alberi fitti. Continuava a piangere senza rumore.
Katrina si era commossa e singhiozzava come una vite tagliata, ma l’orco rimase del tutto indifferente, come se la scena non lo toccasse nel minimo modo. Quando Isadora barcollò verso il maniero con le guance rigate di lacrime, la fissò freddamente. Non c’era alcun calore in quegli occhi roventi: “Seguimi” le disse con la stessa freddezza che ostentava. Dopodiché si voltò e scomparve tra le ombre del maniero. Isadora esitò un solo istante sulla soglia. Ma ormai era fatta. Suo padre se n’era andato e l’anello di legno le stringeva il dito. Così chiuse gli occhi, prese un gran respiro ed entrò a sua volta nel maniero.
Non era la prima volta che vi entrava, ma le apparve più minaccioso, perché ora vi era prigioniera. Le ombre la ghermivano da ogni parte e il pavimento era freddo e scivoloso sotto i piedi. L’orco la richiamò con impazienza: “Sbrigati”.
Isadora lo avvistò che procedeva a grandi passi lungo i corridoi. Dovette correre per tenergli dietro, ma lui non tenne conto dei suoi sforzi e mantenne la stessa andatura. Procedevano, lui davanti, lei dietro. Katrina si era eclissata non appena il marchese se n’era andato. Isadora fissò le statue mostruose che giacevano nelle nicchie nelle pareti. Draghi, bicefali, idra e chimere parevano sul punto di balzarle addosso con gli artigli sguainati. Spaventata, affrettò ulteriormente il passo e raggiunse la schiena massiccia dell’orco che le camminava davanti. Lui non disse nulla. Era un tipo di poche parole. D’altronde lei non aveva la minima intenzione di avviare un discorso.
Faceva freddo. Gli spifferi erano numerosi. Sui muri erano appese teste di animale, corna di cervo e altri trofei di caccia. Sembrava che gli occhi vitrei di quei cinghiali si muovessero per seguire il suo cammino e gli scoiattoli impagliati le gridassero di fare attenzione.
“Io non appartengo a questo posto. In nome di Dio, che cosa ho fatto?”
I passi dell’orco risuonavano, lugubri sul pavimento di pietra. Quelli di Isadora erano lievi e nervosi, quasi impercettibili. Rimase abbagliata dal fulgore delle lame dei coltellacci appesi alla cintura dell’orco. In quel bagliore rivide il pericolo. Quale di essi aveva usato per minacciare suo padre? Una rabbia tranquilla le empì il petto.
L’orco salì in fretta una rampa di scale e lei lo stesso, stando bene attenta a non inciampare nella gonna bianca dell’abito. Cercò di memorizzare quel percorso inutilmente. Chiaro che si sarebbe persa. Emise un sospiro tremulo. Era dura mantenersi lucidi in quella situazione. Tentava di non pensare a nulla e di tenere la mente impegnata a seguire quel percorso. Era tutto decisamente spaventoso, si disse, ma lei non doveva temere quei luoghi. Ora ne faceva parte a sua volta, per quanto sembrasse assurdo.
L’orco si fermò così di colpo che Isadora rischiò di andare a sbattergli contro. Gli rivolse uno sguardo interrogativo e timoroso. Poi notò che si erano fermati davanti ad una porticina di legno rimpiattata in una parete di pietra. L’orco prese dal cinturone un pesante mazzo di chiavi, ne selezionò rapidamente una e la infilò nella serratura dell’uscio. Lo aprì ed esso si spalancò su un pozzo di tenebra: “La tua stanza” disse gelido alla ragazza. Lei fece qualche timoroso passo avanti.
Era una stanzuccia di dimensioni ben misere. Era fatta di pietra e c’era una branda con lenzuola e coperte sporche ammonticchiate sopra con accanto un baule polveroso in un angolo. C’era un'unica, minuscola finestrella chiusa da sbarre che dava sulla notte di fuori. Una cella. Lo sconforto la assalì. Tutt’altra storia rispetto alla sua camera di Soledad.
Frattanto l’orco le tese la chiave: “Per oggi hai il permesso di andare a letto. Domani Katrina verrà a svegliarti alle cinque. Troverai il foglio con le cose che devi fare sotto la terza gamba del tavolo in sala da pranzo. Katrina ti istruirà su quello che è necessario per svolgere i tuoi compiti. Non perdo tempo a spiegarti che quello che scriverò sul foglio deve essere fatto entro domani sera, quando tornerò dalla caccia. Io esco tutti i giorni, per cui mi dovrai preparare solo la cena. I pasti li consumerai in cucina con Katrina. Tutto chiaro?”
Isadora si era sentita sempre più stanca via via che l’orco le spiegava quelli che sarebbero stati i suoi doveri con la solita freddezza. Non aveva sbagliato nel supporre che volesse fare di lei una sguattera. Ora però voleva solo andare a dormire, perfino in quella branda lurida, e dimenticare almeno per una notte quell’assurda situazione. Prese la chiave dalle mani dell’orco con un brivido, gli occhi bassi, e mormorò: “Sì”. Lui indicò frettolosamente il baule accanto alla branda: “Lì ci sono i tuoi vestiti. Indossali. E non uscire da questa stanza finché Katrina non sarà venuta a svegliarti”.
Senza aggiungere né un buona fortuna, né un buonanotte, e nemmeno un saluto, le voltò le spalle e tornò ai piani bassi coi suoi passi pesanti. Isadora, sull’orlo del pianto, disse al nulla con voce aspra: “Comunque mi chiamo Isadora”.
Rimase immobile per un istante sulla soglia di quella celletta, con la chiave stretta fra le mani e l’amaro in bocca, poi lanciò un gemito di sconforto, entrò in quel tugurio, si chiuse la porta alle spalle e rimase completamente al buio. Aveva paura, le mancava suo padre, e si sentiva più depressa che mai. Era andato tutto proprio come si aspettava, anzi, peggio.
Si buttò distesa sulla branda, che cigolò sotto il suo peso, si rintanò sotto le coperte che pungevano e crollò addormentata senza neanche svestirsi, sentendosi sola e sperduta in quell’immenso e freddo maniero.

 
  
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