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Autore: Aya_Brea    26/02/2012    6 recensioni
"La figura alta ed imponente di Gin era ferma affianco al letto della piccola scienziata, teneva le mani infilate nelle tasche dell’impermeabile ed i suoi lunghi capelli d’oro seguivano la direzione del vento. Dal suo viso imperturbabile non trapelava alcuna emozione, ombreggiato com’era, dall’argentea luce lunare. I suoi occhi verdi brillavano come quelli di un felino."
Genere: Malinconico, Sentimentale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Altro Personaggio, Gin, Shinichi Kudo/Conan Edogawa, Un po' tutti | Coppie: Shiho Miyano/Ai Haibara
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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"Dentro di noi abbiamo un'Ombra: un tipo molto cattivo, molto povero, che dobbiamo accettare"
 

(Carl Gustav Jung)





Conan era immerso nei suoi pensieri, seduto alla scrivania osservava la fialetta che di tanto in tanto rotolava sul piano ligneo, poi quando raggiungeva il bordo, la sospingeva con un gesto delicato e la “salvava” dalla caduta. Essa riluceva del tenue bagliore del mattino e il liquido violaceo rifletteva sfaccettature colorate sul volto del piccolo.
Era uno stupido, uno sciocco. Le sue brillanti deduzioni e le sue fulminee intuizioni sembravano averlo abbandonato, proprio quando ne aveva più bisogno. Se in quel momento avesse avuto la possibilità di incrociare lo sguardo di Sherlock Holmes, egli lo avrebbe certamente deriso, col suo classico cipiglio autoritario e un po’ severo. Avrebbe demolito in pochi secondi la sua impalcatura mentale. Si sentiva un qualsiasi Watson, privato del suo geniale compagno.
Akemi era morta, Veronika era morta e lui non aveva salvato né l’una, né l’altra. Non aveva compreso i sentimenti di Haibara, l’aveva messa in pericolo più volte e l’aveva fatta soltanto stare male. Si sentì totalmente incapace nel fronteggiare quella situazione, che pareva gli scivolasse continuamente dalle mani.
‘Shinichi, sei un perfetto idiota, fai qualcosa. Rivela a tutti cosa sei davvero in grado di fare.’
Niente. Proprio un bel niente. Il suo cervello faceva mille calcoli, mille ipotesi: ma il suo cuore era altrove.
Doveva bere quell’antidoto? E se Gin avesse voluto metterlo in guardia? Certo, fra il dare la fiducia a Shiho, e darla ad un criminale ce ne passava, eppure il tarlo del sospetto si era ormai insinuato in lui. Quella frase proferita con sarcasmo continuava a martellargli nella testa come un orribile presagio di morte.
Eppure desiderava soltanto sbarazzarsi di quelle lenti non graduate, di quel velo impercettibile che gli impediva di guardare il mondo da un’altra prospettiva. Voleva essere se stesso. Voleva essere lo studente liceale che si malediceva tutte le mattine per essere andato a letto troppo tardi. Ma non avrebbe ceduto così facilmente ai suoi desideri, non poteva tradire la sua razionalità per sottomettersi alla dimensione istintuale.
“Shinichi Kudo.” Una voce femminile proruppe nel silenzio della sua stanza. Il piccolo volse il capo di scatto ma inizialmente non vide nessuno. La porta era socchiusa ma si stava aprendo lentamente.
 Scivolò giù dalla sedia e sentì ancora quel tono leggiadro diffondersi nell’aria, immobile.
“Posso entrare?”
Conan strinse i suoi occhi in due fessure.  “Chi sei?”
A quel punto una figura alta ed elegante fece il suo ingresso nella camera di Conan, poi con altrettanta delicatezza richiuse la porta alle sue spalle e vi si appoggiò.
“Vermouth!” Shinichi trasalì, il suo sguardo divenne immediatamente ostile e subito si preparò per passare ad un eventuale contrattacco.
“Shinichi, caro. Risparmiati la rabbia e rilassa i muscoli. Vengo in pace.” Quella donna aveva un'elevata carica di raffinata sensualità e ciò era confermato dalla sua postura. La stanza era totalmente in penombra, ma Shinichi intravide ugualmente il suo sorriso ambiguo, i suoi occhi dalle lunghe e folte ciglia nere che lo fissavano.
“Sei ancora piccolo per poterlo capire, ma il mondo che ci circonda non è tutto bianco o tutto nero. Esistono infinite gradazioni e infinite tonalità del grigio. Non so se mi spiego. Giovane Detective, quando dici che di verità ne esiste una soltanto, sbagli. Non fai altro che tradirti.”
Conan percepì la tensione, la sentiva ad ogni respiro. Era talmente concentrato che avrebbe potuto sentire persino il suo cuore battere forte, se quella donna avesse smesso di parlare.
“Non capisco cosa vuoi dire. Dov’è Ran? Cosa le hai fatto?”
“Ti prego, dolcezza, abbandona il ruolo della vittima. La tua bella sta bene, si sta facendo soltanto un sonnellino sul divano. Avevo bisogno di parlare con te in privato e in tutta tranquillità.”
A quel punto il ragazzino tirò un sospiro di sollievo ed annuì. “Parla.”
“Ecco vedi …” La donna si diede un lieve slancio con le mani per potersi allontanare dalla porta e avanzare verso il piccolo occhialuto. “Avrei una proposta da farti.”
“Io non mi fido di una come te.”
“E come mai ti sei fidato di Shiho?” Asserì con tono pieno di sarcasmo.
Egli trasalì. “Che vuoi dire?”
“Lo scoprirai molto presto. Per quanto mi riguarda, invece, dovresti fidarti di me.” La donna si mise a braccia conserte.
“E sentiamo, perché dovrei farlo?” Conan le rivolse un sorriso beffardo, aveva assunto la sua solita aria di sfida.
“Ma come perché? Che domande. Lo sai benissimo. Le ferite delle donne a volte, divengono cicatrici. No?” Gli strizzò l’occhiolino.
 
 
 
 
Shiho tremava leggermente, il suo corpicino fu scosso da alcuni brividi: quell’uomo aveva preso a fissarla con occhi verdi e penetranti. Lo vide allungare un braccio e aprire il cassetto del comodino di fianco al letto, poi tirò fuori da esso un’arma lucente, una Calibro 9 dalla superficie estremamente brillante. Per qualche istante Shiho pensò a quanto fosse maniacale la cura di quell’oggetto da parte del suo possessore.
“Che vuoi fare?” Chiese dunque, lei, mentre le sue pupille dilatate dal terrore seguivano la canna della pistola che Gin brancolava a mezz’aria con fare disinvolto.
“Punirti per le tue malefatte, dolce Sherry. La mia pazienza ha un limite.” Sussurrò con tono falsamente stucchevole e languido. La ragazza fu costretta a socchiudere gli occhi. Doveva morire? L’avrebbe uccisa? I suoi pensieri si rincorrevano rapidi e confusi, non riusciva a cogliere il filo che teneva assieme quella matassa di eventi, di frasi non dette, di sospiri, di lacrime. Finiva tutto così?
Il freddo metallo della Calibro 9 si posò sulla tempia di lei, facendosi strada fra i suoi ciuffi di capelli biondi: un lungo brivido la portò ad aprire nuovamente gli occhi, e a fissare per l’ennesima volta quel viso che non avrebbe mai cessato di incuterle timore.
“Gin, pagherai per tutto quello che stai facendo. In questa vita, o nell’altra. Ma pagherai.” Shiho strinse i denti e borbottò questa frase con tono basso, con l’effetto di provocare le risa beffarde di quell’uomo biondo, di quel predatore che non smetteva di darle la caccia, di tirar fuori gli artigli e di attirarla fra le sue grinfie demoniache.
Il tempo sembrò dilatarsi a dismisura, come d’altronde accadeva ogni qualvolta Gin e Shiho rimanevano da soli, soli con i loro desideri, soli con le loro difficoltà, soli fra i loro respiri.
Soli.
La canna della pistola scivolava lentamente sulla pelle diafana di lei, scendeva lungo i lineamenti di quel volto perfetto, oltrepassava lo zigomo e ridiscendeva presso l’incavo della guancia, proseguiva lungo la mascella delicata; quando si fermò al di sotto del mento Gin spinse l’arma verso l’alto con un gesto secco.
“Maledizione, smettila. Non puoi uccidermi.” Si lamentò lei con voce rotta dall’ansia, dalla saliva che non voleva andar giù per la gola.
“Non posso? Non posso, o non voglio?” Quell’uomo si stava divertendo come un pazzo, i suoi occhi sfolgoravano di una luce sadica, folle.
“Fai un po’ come ti pare.” Le iridi di Shiho erano obbligate a fissare il soffitto, sentì che quella posizione innaturale della nuca le dava fastidio. Il dito di Gin giunse al grilletto, giocherellò più volte con esso.
“Addio, cara. Mi mancherai.”  Proferì in un sibilo, poi spinse l’indice.
Click.
Un fottuto Click.
Le labbra del biondo di rilassarono in un largo sorriso, non riuscì a trattenere una risata piena di compiacimento. A quel punto la ragazza provò la voglia irrefrenabile di stringergli le mani al collo e strozzarlo finché non avesse implorato pietà, eppure non rispose, non ebbe la possibilità di farlo, poiché qualcuno suonò il campanello.
Gin sbuffò, si alzò dal letto con un borbottio confuso e rapidamente si infilò l’impermeabile, come se nessuno avesse dovuto vederlo in abiti meno “eleganti” e più alla mano.
Andò ad aprire la porta quel tanto che bastava, uno spiraglio che gli avrebbe semplicemente consentito di capire chi fosse.
“Vermouth. Che diavolo vuoi?”
“Gin, caro, cosa voglio secondo te? Apri questa maledetta porta, non sono un ladro.”
Il biondo lasciò che lei la spingesse e dopodiché indietreggiò di qualche passo. Notò immediatamente che le gote della donna erano rosse e presumibilmente ne poté quasi percepire il calore. Era accaldata. Aveva corso?
“Dove sei stata?” Le chiese.
“Lavoro. Non penso mica a divertirmi, al contrario di quello che fai tu, a quanto vedo.”  Lo sguardo invadente di Vermouth notò immediatamente Shiho, che impossibilitata per via della gamba, era rimasta seduta sul letto. Gin le si parò allora di fronte, per impedirle di guardare ancora.
“Fatti gli affari tuoi.”
La donna rise sommessamente, le dita curate e dalle unghie lunghe accarezzarono le sue stesse labbra. “Come sei geloso. Ammiravo soltanto la tua nuova ragazza.”
“Taglia corto, maledizione. Dimmi piuttosto com’è andata.” Che rabbia.
“E’ andata.” Vermouth aveva assunto nuovamente l’atteggiamento della donna di classe che oculatamente ed elegantemente amministrava gli affari, si occupava delle questioni burocratiche e non poteva dunque far a meno di ostentare quel comportamento stucchevole e presuntuoso. Si sfilò dalla tasca della giacca un paio di occhiali e li porse al biondo, che con la sua stazza robusta le aveva occultato completamente la visuale di quella biondina.
“Gli occhiali del moccioso? Bel trofeo. E cosa dovrei farci?” Chiese Gin, seccato. Si rigirò fra le mani quelle lenti dalla montatura nera e decisamente obsoleta.
“E’ fuori uso. E’ bastato un colpo di pistola. Ho potuto fare a meno del fucile di precisione.” Frecciatina, stavolta piuttosto dolorosa ed inopportuna.
Gin non rispose, almeno per i primi secondi. “Bene, perfetto. Per me puoi anche tornartene da dove sei venuta. La strada la sai.” Si allontanò, lasciandola lì sulla porta con un palmo di naso. Che nervi. Preferiva quella scialba scienziata, sciatta e poco perspicace, al suo fascino di donna, alle sue movenze lente ma flessuose, sinuose. Che imbecille, pensò, osservandolo mentre sfilava l’ennesima sigaretta dal suo pacchetto.
“Spero che ti marciscano i polmoni.” Sputò la sua sentenza carica di invidia e risentimento e se ne andò via, sbattendo rumorosamente la porta.
Shiho aveva gli occhi velati di una patina densa, vide il fumo aleggiare nell’aria in maniera offuscata, ma quando sentì le guance bagnarsi di bollenti lacrime, vide in maniera più chiara e netta l’alone grigio che si dissolveva piano, prodotto dalla sigaretta del biondo.
Quell’arpia le aveva portato via il piccolo Conan.
Ormai, non aveva più nulla da perdere, aveva perso tutto.
Come quel fumo pieno di catrame e petrolio, che evanescente, si disperdeva fra le pareti di quella stupida stanza.  
 
 
 
 
Alcune ore più tardi, Gin e Shiho furono fuori dall’edificio, era ormai quasi sera ma il sole accennava a tramontare ormai da qualche minuto. L’aria era fresca, il cielo di un azzurrognolo tenue, chiaro, rilassante solo a sollevare il capo e fissarlo. In breve tempo i due raggiunsero il passaggio che li avrebbe condotti alla sede dell’Organizzazione, ma Gin si fermò nello spiazzo erboso e la guardò. Era stranamente serio, sembrava che qualcosa lo turbasse: come sempre teneva le sue mani riparate nelle tasche del suo impermeabile nero.
“Fermiamoci un momento, voglio fumarmi prima una sigaretta.” L’ennesima della giornata. Shiho non seppe spiegarsi per quale motivo, ma aveva uno strano presentimento. Qualcosa di strano aleggiava nella placida aria di fine giornata. L’erba profumava ancora, probabilmente era stata tagliata da poco, così lei, nell’attesa di quella breve e rara pausa si sedette a terra. Il mondo si era fermato per la piccola Shiho e tutto aveva perso il suo senso originario. Alzò lo sguardo al cielo e fu come unirsi al mondo che la attorniava: quella sensazione di dolore e di solitudine le stava facendo provare la profonda empatia con quello che la circondava; alberi, fiori, piante, il cielo terso e sereno, disseminato di nuvole morbide e leggere, biancastre, lattee. Chiuse gli occhi per reprimere le lacrime. Non volle credere a quel che era successo. Quegli uomini l’avevano derubata della sua vita, della sua adolescenza, degli affetti più cari. Non aveva più nulla da perdere. E mentre quell’uomo sostava lì al suo fianco, con lo sguardo perso lungo l’orizzonte rosso cremisi, lei osservò per qualche istante l’ ombra stagliarsi ai suoi piedi. Allungò una mano per poterla ‘sentire’ ed il freddo dell’erba divenne confortante, ma al contempo la fece riflettere. Nessuno può saltare oltre la propria ombra, ma soprattutto, ognuno ha la propria, quella figura nera e terribilmente ambigua che costituisce l’altra parte di noi, l’altro lato della medaglia, l’insieme delle pulsioni che tutti hanno bisogno di reprimere e di cui tutti hanno paura. Shiho, ne aveva l’ossessione, avrebbe voluto per sempre cancellare quella maledetta ombra nera, ma nel suo piccolo sapeva che non poteva farlo. La luce cominciò ben presto a diventare più scura, tanto che il rosso aveva ceduto il posto ad un pallido violaceo-bluastro. Gin fece schizzare letteralmente via quel che rimaneva della sua sigaretta e lasciò all’aria densa l’ultima boccata di fumo.
“Entriamo.” Proferì senza aggiungere altro.
Ma che doveva fare Gin, quella sera?
 
 
 

Shiho venne lasciata al suo solito lavoro, alla sua solita routine, ma Gin, quella sera, aveva da sbrigare una questione molto delicata.
Una volta uscito in strada con la sua fedele Porsche nera, egli sfilò dalla tasca il suo cellulare, compose rapidamente un numero e si mise in ascolto.
“Vermouth, i nostri uomini sono in posizione?” Rimase concentrato ad ascoltare il tono petulante della donna, che ogniqualvolta non faceva che innervosirlo. Quella donna lo mandava in bestia e non riusciva a trovare un motivo preciso di quell’odio.
“Appena lanceremo il segnale li coordinerai per far sì che proteggano l’ala sul retro. Io mi occuperò del resto. Si. E’ a lavoro.” Fece una pausa. “No, non avrà sentito.”
Dopodiché, Gin concluse la chiamata e tirò un sospiro di sollievo. Avevano organizzato una soffiata alle carceri per poter liberare quell’imbecille che si era cacciato nei guai. Non potevano permettere che lo trattenessero dietro le sbarre per altro tempo. Non doveva parlare. Nessuno doveva sapere nulla sull’Organizzazione, e quanto pareva, il marmocchio era stato eliminato, ma Vodka era ancora a piede libero e bisognava recuperarlo.
Gin parcheggiò la macchina presso una stradina buia, poi prese quella adiacente e iniziò a percorrerla lentamente, nell’oscurità della notte. Faceva molto freddo.
Gli uomini in nero avevano organizzato un piano decisamente rocambolesco: una volta procuratesi le uniformi delle guardie, si erano inserite liberamente nell’edificio. Due di loro erano dunque infiltrate e sarebbero intervenuti quando Gin avrebbe richiesto di poter parlare con Vodka. Quella notte avrebbero versato il sangue di parecchie persone innocenti.
Il biondo saliva le scale, ad ogni passo sentiva l’adrenalina pervadergli il corpo, ogni singolo muscolo percorso da quel vibrante tremito, ogni vena pompare sangue caldo, bollente. L’ebbrezza da combattimento lo rendeva vivo, gli iniettava gli occhi, li faceva luccicare, sbarrare come quelli di un animale.
Tutto si svolse rapidamente, troppo rapidamente.
Vodka era lì, a pochi passi. Finalmente furono al tavolo a recitare la loro farsa. Ma il teatrino durò ben poco e si colorò immediatamente di rosso.
Improvvisamente dalla porta di quella sala scarna e buia irruppero dei poliziotti armati.
“Ma che diavolo succede? Vodka?!” Gin scattò in piedi e a quel punto le due guardie travestite puntarono i loro fucili d’assalto contro gli altri. I veri poliziotti. Perché c’erano dei veri poliziotti? Per quale diavolo di motivo la loro copertura era saltata?
“Capo!” L’omone parve agitarsi. Non capì. Qualcosa non stava andando secondo i piani.
In quella situazione di stallo il tempo si ghiacciò per qualche secondo, dopodiché gli uomini in nero riversarono i loro interi caricatori contro le reali guardie, le quali crollarono letteralmente contro la pioggia di pallottole che si riversò su di loro. L’ennesimo inferno di piombo si era scatenato, come una dinamite esplosa una volta innescato il meccanismo ad orologeria. Gin e Vodka compirono uno scatto lungo il corridoio.
“Capo! Capo, ma che sta succedendo?!”
“Sta zitto e corri!” Gli intimò il biondo, correndo come un fulmine all’uscita, seguito da uomini e spari, da poliziotti e detenuti che si aggrappavano alle grate delle loro celle come bestie inferocite, sbraitando e urlando epiteti coloriti.
Decisamente qualcosa era andato storto.
I due furono fuori, corsero nel viottolo dov’era parcheggiata l’auto di Gin e questi si sbrigò a mettere in moto.
Vodka osservò il suo partner: entrambi avevano il fiatone, anche se l’altro sembrava molto più agile ed allenato, dunque tratteneva in maniera più composta quel respiro pesante ed affannato. Osservandolo meglio, il bestione con gli occhiali si accorse che all’altezza del braccio, l’impermeabile di Gin aveva un largo taglio, il tessuto nero era completamente strappato e del sangue colava in un rivolo caldo. Forse un proiettile l’aveva sfiorato durante la fuga.
Per tutto il tragitto non si dissero neanche mezza parola. Il biondo parcheggiò la sua auto e noncurante di Vodka, salì le scale della sede.
I laboratori. Era lì che era diretto a passi lunghi e spediti.
Con un gesto rabbioso spalancò la porta della sala dov’era Shiho e la travolse come una furia. Lei era di spalle, in un istante rapidissimo venne afferrata violentemente per il colletto del camice e strattonata con altrettanta veemenza. Si ritrovò il fiato di quell’uomo che l’aveva presa per la collottola e la tratteneva a sé.
“Gin! Ma che ti prende, che è successo? Lasciami immediatamente!” La ragazza non capì, sentì solo il fiato di lui che sapeva di fumo, poi si mescolò col profumo dei suoi morbidi capelli biondi.
“Sei stata tu, non è vero? Dillo che sei stata tu ad avvertire la polizia della nostra soffiata.” Aveva alzato la voce e la fissava con occhi truci e iniettati di sangue.
“Soffiata? Non so di cosa stai parlando, per l’amor del Cielo. Vuoi stare calmo?”
L’uomo strinse i denti e sospirò con amarezza. “Sherry, non farmi arrabbiare.”
Incrociarono i loro sguardi a lungo; lui la tratteneva con entrambe le mani e stringeva i lembi del camice bianco di Shiho. Silenzio.
La ragazza sorrise leggermente, si soffermò a scrutare gli occhi verdi di Gin, poi sussurrò:
“Non ti fidi della tua Sherry? Preferisci fidarti di lei?”
Gin trasalì, sbarrò gli occhi e le sue pupille si restrinsero ancor di più. “Lei?” Balbettò.
Silenzio. Di nuovo.
Lui era rimasto immobile, fermo. Attonito
Shiho premette le mani contro il petto di Gin e si sollevò in punta di piedi, le sue dita percorsero il petto e risalirono vertiginose, avvolsero il collo dell’uomo e poi si appoggiarono delicatamente alle sue guance. In un breve istante sfiorò le sue labbra e lo baciò lentamente.
Quando le suole della ragazza toccarono nuovamente il pavimento si sentì sprofondare.
“Non è stata colpa mia, te lo giuro, Gin.”
 




 





Stavolta niente saluti, non ho tempo purtroppo :) Domani parto e dormirò soltanto 4 ore, eppure ci tenevo particolarmente ad aggiornare questo capitolo, ve l'avevo promesso! :) Spero vi piaccia, domani me ne vado in Spagnaaaaaaaa :D Non morirete senza di me! :D Ahahahahahah
Vi voglio bene, vi abbraccio tutti eeee... basta, per ora penso sia tutto, non vi dico molto proprio perché è maledettamente.. tardi. 


A voi la linea :)


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