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Autore: Sylphs    27/02/2012    1 recensioni
Ehilà! Ho scritto questa favola un po' folle quando avevo 14 anni ed è in assoluto il primo romanzo che ho finito a quell'epoca, perciò ho deciso di tentare la sorte e pubblicarlo su efp, confido nella vostra pietà :) la storia si ispira alla mia fiaba preferita, "La bella e la bestia", salvo che la protagonista è un peperino ed è tutto fuorché una graziosa fanciulla. Spero che qualcuno leggerà!
Genere: Azione, Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 6

 
 
 
 
 
 
Isadora era ancora immersa nel mondo dei sogni quando si sentì scuotere delicatamente per una spalla. Aveva dormito così poco che ignorò chi la disturbava e si girò dall’altra parte con un mugugno. Tuttavia, la mano insistette a scuoterla e una voce roca e dispiaciuta disse: “Mi dispiace svegliarti a quest’ora, Isadora, ma sono le cinque e il padrone…”
Assonnata, la ragazza aprì gli occhi sulla penombra della misera cella in cui aveva dormito. Faticava a mettere assieme i pensieri. Di solito dormiva fino a tardi, e quella sveglia mostruosa le mise addosso un sonno insistente. Si vide raggomitolata sulla branda cigolante, con la pelle irritata dall’abito da sposa che non aveva tolto, poi scorse Katrina china su di lei nel suo sudicio straccio e con la cuffia sulla testa, rugosa e mortificata, e ricordò tutto osservandosi l’anello di legno. Una disperazione cieca l’assalì. Mettendosi seduta a fatica, mezza morta di sonno, tentò di ricordare le istruzioni dell’orco.
“Vestiti, cara” le disse Katrina frugando nel baule: “Il padrone vuole che svolgiamo tutti i nostri compiti entro stasera”.
“Dov’è ora?” chiese la ragazza con voce assonnata. Preferiva non incontrarlo. La vecchia domestica gettò un’occhiata rapida alla finestra: “Lui esce tutti i giorni per andare a caccia o incontrarsi con altri orchi. Sta tranquilla, tornerà solo stasera”.
Isadora emise un sospiro di sollievo. Poi Katrina mise alcuni vestiti sulla branda, mostrandoglieli: erano un vestitaccio rattoppato, un grembiule sporco e una bandana piena di macchie incrostate: “I tuoi vestiti, cara”.
Isadora li fissò inorridita. Erano vestiti che avrebbe indossato la più povera delle sguattere. Chiese a Katrina: “E i miei vestiti?”
“Il padrone vuole che indossi questi” replicò lei con gentilezza. La ragazza provò una scintilla di ribellione, soprattutto ora che l’orco non era in casa: “Devo fare tutto quello che mi dice? Perché?”
Katrina si fece pallida e la prese per un braccio con la solita, goffa sollecitudine, avvicinando il volto al suo: “Cerca di obbedire agli ordini, Isa, te lo dico col cuore. Eviteresti un sacco di guai”.
La ragazza rimase accigliata, ma afferrò gli abiti rattoppati con furia. Katrina sorrise sollevata e si ritirò: “Ti aspetto qui fuori!”
Rimasta sola nella celletta, Isadora emise un verso di sconforto. Aveva una voglia matta di rimettersi a dormire. Per di più non era quasi neanche l’alba e fuori il sole non era ancora sorto. Non si era mai svegliata così presto, e ne risentiva. Per fortuna l’orco sarebbe rimasto fuori fino a sera, e Katrina era gentile. Isadora sentì che era prossima ad attaccarsi alla vecchietta come una bambina si attacca al genitore. Osservò con una smorfia la sua nuova tenuta da serva che la aspettava sulla scomoda branda.
Con arrendevolezza, si sfilò l’abito da sposa e lo lasciò cadere sul freddo pavimento di pietra. Non aveva voglia di riporlo. Le ricordava troppo la sua rovina. Sbadigliando sonoramente, armeggiò con il vestito rattoppato. Le andava troppo largo e i piedi scomparivano sotto l’ampia gonna. Inoltre le maniche erano troppo lunghe e fu costretta a rimboccarsele. Si annodò sopra al vestito il grembiule sporco, poi raccolse i capelli biondi sotto il fazzolettaccio che, dal bianco originale, era passato ad un giallo spento. Quando ebbe finito, stentò a riconoscersi. Lei, la marchesina Isadora di Soledad, infagottata in un vestito da sguattera, con grembiule e bandana cenciosa sui capelli. Ringraziò il cielo che non ci fosse uno specchio. Non era vanitosa, anzi, non le importava nulla del proprio aspetto, ma le faceva male vedere quanto stava cambiando. Infilò i piedi nudi in un paio di zoccoli dall’aria ingombrante, tanto per completare l’effetto.
“Ora mi tocca lavorare. Con tutto il sonno che ho sarei capace solo di sbadigliare” disse rivolta ad Armageddon che faceva capolino tra la stoffa bianca dell’abito da sposa in terra. Il topolino la guardò con simpatia, i baffi frementi. Isadora gli sorrise disperata e gli fece un ironico cenno di saluto: “Tu resta qui, d’accordo? Ci vediamo presto!” buttarla sull’ironia la aiutava a non disperarsi troppo.
Aperta la porta della celletta, trovò Katrina ad attenderla. La vecchietta la guardò da capo a piedi e disse con una tale sincerità da indurre Isadora a credere che non stesse affatto scherzando: “Questo stile ti dona, Isa! Posso chiamarti Isa, vero?”
“Certo” disse lei, paziente. Quella domanda gliel’aveva già rivolta il giorno prima. Katrina scoprì la bocca sdentata in un sorriso festoso: “Sei davvero un tesoro, lo sai? Presto, andiamo in sala da pranzo. Hai poco tempo per far colazione, gli impegni che il padrone ci ha dato ci impegneranno tutto il giorno”.
Le fece strada ai piani bassi. Isadora si muoveva come una papera sugli zoccoli che le premevano sui piccoli piedi delicati da aristocratica, ed era certa che le avrebbero procurato un bel po’ di vesciche, la ciliegina sulla torta. Facevano toc, toc, toc sul pavimento di pietra, un rumore secco che la aiutava a restare sveglia. Come se non bastasse, la gonna troppo lunga la impicciava e la costringeva a tenersela sollevata.
Il maniero le apparve ancora minaccioso, ma meno del giorno prima. Si stava abituando all’idea di viverci, anche se questo non diminuiva affatto la sua depressione. Dato che Katrina era tanto buona e gentile, osò parlarle con tono lamentoso: “Dovrò svegliarmi a quest’ora tutte le mattine?”
“Purtroppo sì” fece la domestica, sinceramente dispiaciuta: “Così vuole il padrone. Ma vedrai, ti ci abituerai. Lui ti dà il permesso di andare a dormire non appena ha finito di mangiare, così guadagni qualche ora di sonno”.
Questo non la consolava affatto. Era una vera e propria purga per la sua abituale pigrizia. Mentre entravano in sala da pranzo, Katrina le si avvicinò e, tutta rossa di imbarazzo, le fece un’improvvisa confessione: “Non sai quanto sono felice che tu sia venuta qui. Sono stata sola per più di cinquant’anni e ho tanto pregato per avere una compagna di lavoro…e tu sei così gentile! Vedrai, ti aiuterò sempre e potrai contare su di me per ogni cosa”.
Isadora si sentì commossa da quello slancio di sincerità. Solo pochi giorni prima avrebbe squadrato quella povera vecchia dall’alto in basso, ma adesso la capiva e condivideva con lei quelle sventure. Era così bello essere con qualcuno di gentile!
“Qui mangia il padrone” disse Katrina indicandole il tavolo famoso: “Verso le cinque dovremo preparargli la cena. Noi abbiamo diritto a due pasti, colazione e cena. La colazione è alle cinque e un quarto, la cena alle sette. Potremo mangiare in cucina. Il padrone torna alle otto in punto, a parte quando esce di notte, ma lo fa di rado”.
“E quand’è che dorme?” chiese Isadora, stupita. Se se n’era andato addirittura prima della loro sveglia e tornava alle otto, quanto diavolo riusciva a dormire? Katrina sollevò le spalle ossute: “Ha bisogno di poche ore di sonno, lui. Ma quando dorme, non deve essere assolutamente disturbato”.
Quella dedizione verso un orco rude che non la chiamava per nome, che le dava ordini disumani e che la trattava da sguattera le parve ingiusta. Ma capiva che mettersi a far la ribelle non era raccomandabile, e aveva già fin troppe preoccupazioni. Così seguì Katrina in cucina. La cucina era minuscola e aveva sporcizia di cibo sparsa su tutte le pareti di pietra. C’erano un camino con sopra un pentolone opaco e diverse pentole e stoviglie disposte in ordine sparso. Katrina aveva aperto una piccola credenza e ne aveva tolto due pagnotte di dimensioni microscopiche. Ne porse una a Isadora: “Buon appetito”.
Isadora si rigirò tra le mani quello sputo di pagnotta con aria attonita. Come poteva farsi bastare fino alle sette una cosa del genere? Nella sua vecchia, splendida vita, pagnotte simili le usava per dare da mangiare agli uccellini! Rammentò con triste rimpianto le sue colazioni abituali: marmellata, toast, frittelle, riso soffiato, latte caldo, brioches e ogni genere di ben di dio…altro che quel pasto da canarino!
Katrina, che stava sbocconcellando la sua pagnotta con apparente soddisfazione, notò l’espressione della ragazza e si affrettò a dividerla a metà: “Se vuoi, prendi la mia”.
Intenerita, Isadora respinse il commovente dono con la mano e si sforzò di sorridere: “Mangiala tu, Katrina, davvero. Mi basterà” addentò la pagnotta con la morte nel cuore. Era orribile, durissima, doveva essere vecchia di secoli! La finì a stento, poi tornò in sala da pranzo con la compagna. Katrina le chiese: “Dove ti ha detto di prendere il foglio?”
Isadora corrugò la fronte nello sforzo di ricordare le quattro parole che le aveva detto l’orco: “Mi sembra…sotto alla terza gamba del tavolo…”
Katrina si chinò e, con un sorriso, estrasse un piccolo foglio ripiegato dalla terza gamba del massiccio tavolo da pranzo: “Infatti. Hai buona memoria, è una cosa positiva” si raddrizzò tenendosi l’anca e gemendo, poi le consegnò il foglio. Isadora lo prese e lo aprì lentamente. Sembrava piccolo? Beh, le apparenze ingannano! Non appena ebbe finito di dispiegarlo, si srotolò fino alle sue ginocchia. Era pieno di scritte. C’erano dei numeretti a cui corrispondeva una cosa da fare. I numeri erano otto. Con un presentimento di sciagura, la ragazza lesse la prima indicazione: “Pulire tutte le finestre…”
“Ah! Un bel lavoraccio!” commentò Katrina: “Impiegherà gran parte della mattinata! Se vogliamo farcela entro stasera, dobbiamo metterci al lavoro”.
“Non vedo l’ora” fece Isadora, sarcastica. Katrina come al solito non raccolse e le sorrise ampiamente: “Bene! Non preoccuparti, cercherò di fare io la maggior parte delle cose finché non ti abitui. Seguimi” caracollò fuori dalla sala da pranzo e Isadora le venne dietro accompagnata dallo sciagurato toc, toc, toc degli zoccoli tortura-piedi. Si sentiva sprofondare al solo pensiero di mettersi al lavoro. Ancora più terrorizzante era il pensiero che avrebbe passato il resto della sua vita a fare quelle cose.
“Basta piangersi addosso” si disse: “Anche se sembra impossibile, vediamo positivo!”
Più facile a dirsi che a farsi. Katrina aprì un ripostiglio sorvegliato dalla statua di un demone di pietra e glielo mostrò con orgoglio: era stipato di scope, stracci di vario genere, erbe puzzolenti e cartacce varie: “Qui teniamo tutto l’occorrente per le nostre mansioni” le spiegò. Era entusiasta come chi si appresta per la prima volta a fare una caccia al tesoro in squadra con qualcuno: “Se dovrai prendere qualcosa in particolare, ricordati: terzo ripostiglio, secondo piano”.
“Terzo ripostiglio, secondo piano” ripeté a mezza voce la ragazza. Katrina annuì: “Per pulire le finestre ci occorreranno questi” prelevò dal tugurio due stracci sudici e un’ampollina di vetro che conteneva una soluzione evanescente: “Imbevi questi strofinacci di questa soluzione pulente” le spiegò, impregnando della curiosa pozione tutti e due gli stracci. Isadora cercò di stamparsi in testa i particolari di quell’ampollina. Katrina le passò lo straccio meno sporco e lei, superando un istintivo moto di disgusto, lo prese. Le imbrattò le mani di bagnato e di luridume. Katrina si fece cupa in viso: “Per riuscire a fare tutto dovremo dividerci. Le finestre in tutto sono cinquantatre”.
“Cinquantatre?!” strepitò Isadora. Le era quasi preso un accidente. La sua vecchia amica annuì cupamente: “E anche belle sporche. Il padrone le vuole lucide al massimo, dovremo metterci olio di gomito. Facciamo così: io ne prendo trenta, tu ventitre”.
“Niente affatto, sarebbe ingiusto: dobbiamo dividerle equamente” disse Isadora con veemenza. Non poteva approfittarsi di una persona anziana, che per di più era così gentile con lei. Sul volto rugoso di Katrina tornò la tenerezza: “Sei proprio un tesoro, lo sai?” tendeva a ripetersi spesso: “Apprezzo la tua equità, ma per oggi facciamo come ho detto io. In fondo è la tua prima volta”.
La ragazza obiettò ancora, ma si vide sempre bloccata, così alla fine si arrese con un sospiro. Katrina assunse un’espressione decisa: “Le tue ventitre sono sul lato est del castello. Io mi occupo del lato ovest. Tieniti sempre dove il sole splende. Quando avremo finito ci ritroveremo in sala da pranzo. Non perdere il foglio, tesoro, è prezioso!”
Isadora avrebbe preferito restare al fianco della sua nume tutelare, ma Katrina aveva già fatto fin troppo per lei: doveva dimostrarle di essere meritevole della fiducia che le aveva concesso. “Altolà, sporco!” esclamò, battagliera: “Sta arrivando Isadora!”
Aveva sopravvalutato le proprie capacità. Quando incontrò la prima finestra, che era larga e dava sulla foresta, provò una fitta di sconforto: il vetro era così incrostato di sporcizia che non si vedeva niente del paesaggio esterno, e per di più vi passeggiavano diverse blatte non proprio gradevoli alla vista. “Un’impresa dura” mormorò: “Ma si può fare!”
Stretto con forza lo straccio imbevuto nella soluzione pulente, la ragazza puntò un pezzo di finestra particolarmente sporco e si preparò. Flessi i muscoli del braccio, appiccicò lo straccio al vetro e cominciò a strofinare. Passarono diversi minuti di tenace strofinamento senza che lo sporco se ne andasse. Spazientita, Isadora osservò lo straccio che si era notevolmente annerito: “Avrei dovuto chiedere a Katrina altra pozione”. Pensò di tornare nello sgabuzzino, terzo ripostiglio, secondo piano…ma con tutte e ventidue le finestre che le restavano, ci avrebbe messo una vita! “Mi farò bastare ciò che ho” pensò, meno convinta di prima.
Lo strofinamento riprese. Quella sola finestra riuscì a logorarla come se avesse lavorato tutta una giornata. La cosa che le dava più sui nervi era che per quanto strofinasse, lo sporco se ne andava solo dopo diversi minuti, e in minima parte. Che gioia vedere il vetro che tornava chiaro e limpido, e che dolore ritrovarsi con altri pezzi da ripulire.
Quando si disse che la finestra aveva un aspetto decente, il braccio era dolorante e sfinito, e lo straccio completamente nero. “Non ce la faccio più” pensò Isadora, ansimante. Era rimasta schiacciata. Il braccio chiedeva a gran voce riposo, e il corpo che non aveva dormito abbastanza si lamentava a gran voce. Per non parlare della fame che cominciava a farsi sentire. Cosa pretendevano? Che in un solo giorno ce la facesse subito? Era solo una ragazza!
“Non posso fare la pappamolle proprio ora”.
La seconda finestra fu un supplizio peggiore della prima, perché partiva già fiaccata dallo sforzo precedente. Era una sua impressione, o era ancora più sporca? In quella casa non si puliva da anni! Maledisse le maniche che la impicciavano, il grembiule che la accaldava e il fazzolettaccio che sistemava di continuo sui capelli sudati. Non era fatta per quelle cose.
Alla sesta finestra non ne poté più. E aveva di fronte ancora altre sette mansioni, più diciassette finestre che la aspettavano, sadiche! “Questo oltrepassa i limiti dell’umanità! Sottoporrò il caso ad esperti!” si diceva, infervorata. Ma poi ricordava che era prigioniera, che nessuno l’avrebbe salvata, che era la moglie dell’orco, e si rimetteva al lavoro.
Riuscì, non si sa come, a dare una pulita fiacca ad altre quattro finestre. Dovette anche tornare due volte al ripostiglio per prendere altra pozione. Era arrabbiata e disperata, e voleva piangere. Poi udì dei passi leggeri e scorse Bruto, l’imponente meticcio nero, che la fissava incuriosito dalla soglia. Quel suo atteggiamento di superiorità glielo rese subito antipatico: “Che vuoi, cagnaccio?” sbraitò: “Sei contento? Il tuo padrone mi sta ammazzando di lavoro, mentre tu fai una vita da pascià! Vattene, sono già abbastanza nervosa!”
Ma Bruto entrò nella stanza dove lei stava pulendo e si mise a curiosare in giro, annusando la finestra con aria perplessa. Isadora colpì l’aria con lo straccio per scacciarlo: “Ehi, mi senti? Vattene! Non crederai di potermi comandare anche tu!”
Bruto abbaiò e le afferrò tra i denti aguzzi un lembo della gonna. Isadora provò a liberarsi e stracciò il vestito, regalandone un pezzo al cane. A quel punto urlò: “Ma bravo! Guarda cosa hai fatto!”
“Che succede?” chiese Katrina allarmata, giungendo con l’altro straccio stretto fra le mani: “Ti senti male?”
“Quel cane ottuso mi ha strappato il vestito!” si lamentò a gran voce Isadora. Katrina guardò Bruto con severità: “Sii buono con la signorina Isa, Bruto. Isa, non badare a lui, gli estranei lo agitano. E non fargli del male, è il cane prediletto del padrone, perché apparteneva a suo padre, anche se è un po’ anzianotto, ora…”
“C’era da aspettarselo” sibilò lei, scambiando col cane un’occhiata di inimicizia. Katrina notò il modo fiacco con cui lei aveva pulito le finestre, la sua fronte sudata, il suo braccio tremante, e la guardò con comprensione: “Finisco io con le finestre. Và a leggere la seconda mansione”.
“Grazie, Katrina” disse Isadora con smodata gratitudine.
La seconda voce del foglio diceva: occuparsi della latrina. Bastò il pensiero a farle venire la nausea: “Bleah” pensò. Diede uno sguardo alla cartina che Katrina le aveva lasciato sul tavolo della sala da pranzo mentre puliva le finestre. La latrina era al terzo piano, accanto ad un’ampia camera con su scritto: stanza del padrone. Studiò il percorso da fare per giungervi, poi richiuse la cartina, la infilò in una tasca del grembiule e si preparò a svolgere quell’ingrato compito.
Prima però di andare dove le era stato indicato, passò un attimo in camera sua, e la trovò assurdamente confortante, nonostante fosse così simile ad una cella: “Ehi, Armageddon!” esclamò: “Ti và di affrontare un’impresa insieme?”
La testa bianca del topolino spuntò da sotto la coperta della branda. Isadora lo prese come un sì. Offerta la manica ad Armageddon, assicuratasi che ci fosse entrato, salì al terzo piano, trascinandosi stancamente su per le scale. Almeno avrebbe fronteggiato la latrina col suo amico.
La porta della latrina era minuscola e di un bianco sporco, percorsa da venature di sudiciume bene incrostato. “Ti pareva” pensò Isadora. Appoggiò la mano sulla maniglia, prese un bel respiro, poi aprì la porta.
Un tanfo nauseabondo la prese alla gola. Orrore! La latrina era ancora più sporca del resto del castello: la vasca era piena a metà di acqua marroncina e stagnante, le pareti erano ricoperte di una strana mucillagine biancastra, e l’unica finestrella presente era ermeticamente chiusa. Isadora si premette una mano sulla bocca per impedirsi di vomitare. Anche Armageddon, che aveva messo fuori la testa per un attimo, si rifugiò a precipizio nella manica della padroncina. Dopo un primo istante di disgusto, Isadora indietreggiò leggermente: “Ce n’è di lavoro da fare” ansimò.
Si allontanò dalla puzzolente latrina e tornò nello sgabuzzino che le aveva mostrato Katrina. Esitò un attimo di fronte a quell’armamentario. Cosa poteva servirle? Alla fine prese con sé una scopa, diversi stracci imbevuti nella soluzione pulente, una tinozza di ferro e un fazzolettaccio simile alla sua bandana, che si annodò sulla nuca in modo che le coprisse naso e bocca. Avrebbe avvertito meno la puzza.
Come una condannata diretta al patibolo, ritornò alla latrina. Le apparve ancora più disgustosa di prima. Entrandoci, avvertì comunque il tanfo, sebbene fosse attutito dal fazzoletto che le fungeva da mascherina. Aveva strappato un altro fazzolettaccio e con un pezzettino aveva costruito una mascherina anche per Armageddon. Si sentì umiliata per quello che stava per fare. “Se mi vedessero Anastasia e Genoveffa!” borbottò tra i denti. Sicuramente ora quelle due stavano sorseggiando tè e mangiando cioccolatini pralinati. Il pensiero di un cremoso cioccolatino con le praline che, infrangendosi tra i denti, rivelava il gustoso caramello interno, le fece venire l’acquolina in bocca nonostante la puzza.
Decise di cominciare dalla vasca. Nessuno si era dato peso di svuotarla. Isadora brandì la tinozza di ferro e la immerse in quello stagno marrone. Quando le mani si immersero nell’acqua sporca, le venne la pelle d’oca. “Che lavoraccio” sibilò ad Armageddon. Trasse la tinozza piena, la trascinò a fatica fino alla piccola finestrella, poi provò ad aprirla. Dovette fare forza, poi ce la fece. A quel punto, senza tanti preamboli, gettò una parte dell’acqua sporca all’esterno. Si deterse il sudore dalla fronte.
Continuò di quel passo fino a svuotare completamente la vasca. A volte l’acqua traboccava dalla tinozza e allagava il pavimento, a volte non riusciva a trasportare la pesante tinozza, fatto sta che aveva le braccia completamente indolenzite. Sarebbero stati dolori, l’indomani! Esausta e scoraggiata, contemplò la vasca vuota: era striata di sporco. “Oh, al diavolo” pensò. Lei almeno l’aveva svuotata.
Passò alle pareti ricoperte dalla mucillaggine biancastra. Impregnò uno straccio della pozione, mentre Armageddon usciva dalla sua manica e si avventurava sulle mensole annerite, infilandosi tra barattoli di dubbia origine e strane pomate. Isadora riprese lo stesso strofinamento delle finestre, che la fece sudare quanto e più di prima.
Mentre lavorava di buona lena, vide con la coda dell’occhio Armageddon far cadere sbadatamente un barattolo. “No!” gridò, gettandosi in avanti. Afferrò al volo l’oggetto e sospirò di sollievo. Se lo rigirò tra le mani, studiandolo. Vi era attaccata una targhetta con su scritto: amaranto.
“Mah” lo ripose dove stava prima, raccomandando ad Armageddon di fare attenzione.
Katrina la trovò che tentava con poco successo di lavare la vasca con una spugna schiumante. Povera ragazza! Era solo mezzogiorno, ed era del tutto esausta. Ciocche sudate dei suoi capelli biondi fuoriuscivano dalla bandana, sia grembiule che vestito si erano insudiciati quanto quelli della vecchia domestica, e il fazzoletto che le copriva naso e bocca non faceva che scivolare in basso. Accorgendosi di quella visita, Isadora rivolse alla sua compagna uno sguardo carico di disperazione. Era già l’ora di pranzo, e di otto mansioni ne avevano svolte due, pure alla buona.
“Amavi molto tuo padre, Isa?” le chiese Katrina. Doveva amarlo parecchio, se si era ridotta così per lui. La ragazza arrossì violentemente e non rispose, strofinando la vasca con furia. La vecchia domestica sospirò: “Anch’io finii qui per mio padre”.
Isadora si fece attenta a quanto diceva: “Venne catturato dal padre del padrone quando io ero molto giovane. Arrivai qui per implorarlo di liberare mio padre, ma il vecchio padrone era irremovibile. Allora offrii me stessa e i miei servigi in cambio della sua libertà”.
Katrina, dopo questo mesto racconto, tornò allegra: “Ma io mi sono affezionata a questa vita, sai?”
“A me non succederà mai” disse Isadora.
 
Il resto della giornata fu anche peggio di quella mattina. Dopo la latrina, Isadora fu costretta a spazzar via la polvere un po’ dappertutto, a sbattere la metà dei tappeti della casa, a rifare i letti, a lavare i piatti risalenti ai giorni prima, una piramide temibile che la aspettava. Per quanto si impegnasse, ogni lavoro le veniva male, ed era sempre più stanca e affamata.
Fatto sta che, mentre lei e Katrina stavano riattizzando il fuoco in cucina, la domestica si raddrizzò di colpo e gettò un’occhiata fuori dalla finestra: il sole stava incominciando la sua lenta discesa. “Dobbiamo preparare la cena per il padrone” annunciò. Isadora sollevò il capo, stupita: “Adesso?”
“Sì” Katrina si mise ad armeggiare con un pesante sacco che giaceva in un angolo: “Mangeremo solo dopo che la cena del padrone comincerà a cuocere. Quando torna dalla caccia è quasi sempre di cattivo umore, per cui è meglio fargli trovare pronta la cena”.
Isadora notò con un certo turbamento che Katrina parlava del padrone con l’affetto di una nonna, unito ad un chiaro timore. Come poteva essersi affezionata a quell’orco? A lei sembrava solo un despota senza scrupoli che tramava per ucciderle di lavoro e che le terrorizzava già tre ore prima del suo ritorno.
Katrina estrasse a fatica dal sacco la carcassa di un cinghiale. Di fronte a quello spettacolo, Isadora rabbrividì. La sua nume tutelare le spiegò: “Questa è la preda che il padrone ha ucciso ieri. Ogni sera torna con una preda che dovremo cucinargli il giorno dopo. Sai macellare la carne?”
La ragazza la fissò con occhi sperduti. Katrina sospirò: “Non fa niente. Ti insegno io”.
Katrina prese la carcassa da una parte, Isadora dovette farlo dall’altra. Le si rivoltò lo stomaco. Ogni volta che faceva qualcosa di ripugnante, pensava che niente avrebbe mai potuto equipararla, ma rimaneva sempre sorpresa. Insieme, la trascinarono fino ad un bancone sudicio e ce la caricarono sopra, gemendo dallo sforzo. Katrina fece scorrere le dita rinsecchite sui coltellacci appesi al muro, e alla fine ne scelse due, massicci e seghettati. Ne porse uno ad Isadora, che esitò a lungo prima di stringere la mano sul manico.
“Osserva attentamente ciò che faccio” le disse Katrina. Isadora si costrinse a guardare mentre incideva con mano tremante la carne del cinghiale e tirava giù la lama, disegnando sull’immenso corpo un complesso schema. Non riusciva a memorizzare quei movimenti, e francamente neanche ci teneva. Alla fine Katrina tirò via la pelle dal cinghiale come se stesse sollevando un foglio, scuoiandolo. Isadora divenne pallida come una morta, a malapena si resse in piedi. Katrina gettò la pelle nel fuoco del camino, poi incominciò a tagliare: “Aiutami, se ci riesci, cara”.
Isadora, che non voleva fare la svenevole, affondò goffamente il coltello. Fece quasi tutto Katrina, lei si limitò a tagliare di tanto in tanto qualche fettina che ammucchiavano su di un grande piatto opaco. Fuori dalle finestre, stava calando la sera sulla foresta oscura. Isadora vide distintamente che la compagna diventava sempre più irrequieta e frettolosa. Ad un certo punto depose il coltello e le disse: “Mettici tu le spezie, Isa, intanto preparo la cena per noi due. Basta che guardi nella credenza, poi mettilo in pentola”.
Ritrovandosi sola di fronte alla carne, Isadora restò qualche istante istupidita. Poi aprì la credenza. Era stipata di trecce di salsiccia, pagnotte dure, spezie di vario genere e salse succulente. La fame tornò, dolorosa. Isadora, improvvisando, scelse del sale e del rosmarino che sparse alla rinfusa sulla carne di cinghiale. Poi riempì il pesante pentolone di acqua calda, accese il fuoco e vi buttò dentro la carne. “Speriamo che mi sia venuta bene” pensò, dando qualche cauta mescolata con un cucchiaio di legno che aveva trovato appeso al muro con i coltelli. Non aveva mai cucinato, prima.
“Apparecchia la tavola!” le disse Katrina, frenetica. Le trasfuse quella fretta e Isadora si affrettò in sala da pranzo. Mise di fronte alla sedia dell’orco un piatto, le posate e un bicchiere di coccio, assieme ad una fiasca di vino che le indicò la vecchia compagna.
Katrina si calmò leggermente: “Ora possiamo mangiare”.
Isadora non aspettava altro. La cena consisteva in una misera scodella di zuppa di lenticchie, ma ci si avventò con foga, infilandosi in bocca grandi cucchiaiate. Non riusciva a credere di essere stata così schizzinosa a colazione. Ora si sentiva pronta a mangiare qualsiasi cosa. Era stremata. Le due erano così affamate che per diversi minuti si accontentarono di mangiare voracemente la zuppa, poi Katrina le parlò: “Sei fortunata che non ci sia il vecchio padrone. Lui mi permetteva solo di mangiare la cena, non c’era neanche la colazione”.
Isadora le credeva. Era davvero denutrita, le si vedevano le ossa che comparivano dalla pelle. Inasprita dal duro lavoro della giornata, si lamentò: “Perché mi ha presa in moglie, se qui io faccio solo la sguattera?!”
Un barlume di vaga comprensione accese lo sguardo di Katrina: “Penso che l’abbia fatto per addolcirti la pillola”.
“Addolcirmi la pillola!” esclamò Isadora, staccandosi un attimo dalla zuppa: “Ho perso i miei sogni, la mia casa, mio padre, tutto…” il cuore le si strinse in una morsa al pensiero del marchese. Katrina, intenerita, la toccò con la mano scarna: “Ti capisco. Credimi. Ma oggi ti sei comportata davvero bene. C’è in te un ardore che ammiro. Non lasciare che te lo portino via lo sconforto e la rabbia. È l’unica cosa in grado di sorreggerti”.
In quel momento, il botto del portone che si apriva le fece sobbalzare. Katrina impallidì e scattò in piedi: “Il padrone! È tornato!”
Isadora provò paura: si ricordò di colpo del modo abbozzato con cui aveva pulito la casa, della fretta con cui aveva cucinato il cinghiale, e sentì una fitta al cuore. Vedendo Katrina che si sistemava, fece lo stesso: si annodò meglio la bandana, lisciò il vestito e il grembiule, rimise i piedi doloranti negli zoccoli che si era tolta per cenare. Erano rossi e sanguinanti.
I passi pesanti che salivano le scale risuonarono lugubri nel silenzio, accompagnati dall’abbaiare festante di Bruto che accoglieva il padrone. Isadora e Katrina tolsero la carne dal fuoco e la misero sul grande piatto di prima, spargendovi sopra un altro pizzico di rosmarino.
Non appena entrarono in sala da pranzo, l’orco fece la sua comparsa, stagliandosi sulla soglia in tutta la sua altezza. Isadora non poté impedirsi di rabbrividire: alcuni dei coltellacci appesi alla cintura erano sporchi di sangue, sangue che aveva imbrattato anche i rozzi vestiti. Torvo e insoddisfatto come sempre, l’orco gettò a terra un sacco molto simile a quello da cui avevano tirato fuori il cinghiale e trapassò Isadora con occhi freddi e ombrosi: “Non mi sembra che tu abbia svolto bene i tuoi compiti”.
La ragazza arrossì e abbassò gli occhi. Fu Katrina a difenderla: “Suvvia, padrone, è la sua prima volta. Ci si è messa d’impegno”.
“Se questo è il risultato di tutto il suo impegno, allora dovrà cambiare, e anche in fretta” sibilò l’orco, carico di un freddo rimprovero. Quel modo di parlare di lei come se non fosse presente fece nascere in Isadora una grande rabbia, che represse a stento. Sempre a occhi bassi, attese che l’orco si fosse accomodato a tavola, poi, quando ordinò loro di portargli la cena, si avviò in cucina con andatura barcollante. Aveva un groppo che le occludeva la gola. Le faceva male che tutto il duro lavoro tanto faticosamente portato a termine venisse distrutto con quattro parole algide.
“Non abbatterti” le disse Katrina con un sorriso: “Tu ce l’hai messa tutta”.
“Bella consolazione” mormorò Isadora. Si caricò tra le braccia il piatto con sopra la carne di cinghiale, poi tornò in sala da pranzo. L’orco sedeva con aria impaziente, una mano appoggiata sul testone peloso di Bruto, che era andato ad accoccolarsi ai suoi piedi. Isadora digrignò i denti quando vide il cane e lo sguardo le corse all’ampio squarcio nel vestito. Senza dire una parola, appoggiò il piatto dinnanzi all’orco, poi indietreggiò accanto a Katrina, che gettò verso Bruto un osso ricavato dal cinghiale ucciso. Il cane lo addentò al volo e ci si concentrò con gioia.
L’orco si versò nel bicchiere il vino della fiasca, poi tagliò un pezzo di carne e se lo infilò in bocca. Immediatamente contrasse il viso in un’espressione di disgusto e balzò in piedi come una furia, sbattendo violentemente i pugni sul tavolo, che vibrò. Isadora sussultò e si spaventò ancor più quando vide l’orco che scagliava via la sedia e le si avvicinava con aria rabbiosa. Si appiattì al muro, tremante e spaventata.
“Quello cosa sarebbe?!” ruggì l’orco, indicando la carne. Urlava, rosso in viso. Isadora pensò che lo preferiva addirittura freddo e distaccato. Senza sapere cosa rispondere, aderì ancor di più al muro. Era terrorizzata. L’orco andò avanti con furia: “Ma a cosa diavolo servi, tu?! Non sai fare niente! Cucini da far vomitare e pulisci ancora peggio. Sapevo che tuo padre mi avrebbe rifilato una fregatura!”
“Io…mi dispiace…” balbettò Isadora, gli occhi grandi e lucidi di lacrime. L’orco le rise in faccia: “Ti dispiace? Non me ne faccio nulla del tuo dispiacere”.
“Cercherò…cercherò di far meglio…”
“Lo spero bene per te” sibilò lui. La guardò con sufficienza, poi si scostò e, indicando il piatto, aggiunse, di nuovo con voce glaciale: “Riportalo in cucina”.
Con un bolo di spavento e di umiliazione piantato in gola, Isadora riprese il piatto e tornò in cucina. Tremava tutta, il cuore gonfio di tutte le lacrime che inghiottiva. Si sentiva umiliata e offesa. Sentiva che aveva fatto tanti sacrifici per vedersi urlare contro. In uno scatto improvviso di rabbia, scagliò il piatto a terra e lo ruppe in mille pezzi, spargendo sul pavimento il resto della carne tanto faticosamente cucinata. Si abbandonò contro la parete fino a scivolare in ginocchio, si abbracciò le ginocchia e scoppiò a piangere disperatamente.
Katrina entrò in cucina e la trovò a piangere in mezzo ai cocci del piatto. “Oh, Isa” sussurrò, inginocchiandosi accanto a lei e prendendole il viso fra le mani: “Non piangere…”
“Io ho fatto tutto il possibile” singhiozzò la ragazza, gemendo dal profondo del cuore: “Ma cosa ci faccio qui? Cosa vuole da me?”
“Ti prego, calmati” le disse la domestica, asciugandole le lacrime col dorso della mano: “Certe cose devi accettarle. Il padrone…lui…è fatto così”.
“Lo odio! Odio tutto di questo castello! Non posso vivere così” gemette Isadora, abbandonandosi all’abbraccio di Katrina e appoggiando il capo sul suo petto rachitico. La vecchia le accarezzò la testa, cullandola fra le braccia come se fosse una bambina: “Tieni duro, Isa. Io sono con te”.
Pian piano i singhiozzi di Isadora si acquietarono. Le carezze e la gentilezza di Katrina la calmavano, scoprì di averne bisogno, soprattutto ora che era stata appena trattata male ingiustamente. Alla fine si fece forza e si asciugò le lacrime. Katrina sorrise: “Ecco, brava. Và a letto, hai bisogno di dormire. Penso io a pulire qui”.
Tornare nell’angusta celletta che le fungeva da camera da letto fu un sollievo. Là dentro si sentiva al sicuro. Tolse la sua tenuta da sguattera con furia, ammucchiandola nel baule, poi calciò via gli zoccoli. I suoi poveri piedi erano pieni di vesciche. Si buttò esausta sulla branda, prese Armageddon dalla tasca del grembiule e se lo strinse al petto come se fosse un peluche, coccolandolo a lungo per sfogare la sua mancanza di affetto. Cercò un rifugio impossibile nel mondo dei sogni, addormentandosi assieme al suo topolino.
 
 
  
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