Capitolo 4 – Something fated (Ayako
Kuno)
Mi ritrovai a baciare Kaede Rukawa, senza
nemmeno accorgermene, come se non stesse accadendo a me, e stessi solamente
vedendo una scena proiettata nel mio cervello. Una scena impossibile fino a
quel momento, praticamente impossibile… impossibile che Kaede Rukawa mi stesse
baciando, stesse baciando me, quella che gli passa le bottigliette dell’acqua e
gli asciugamani. Affondai le mie unghie nel suo braccio, volevo resistere,
volevo allontanarlo, ma non c’era alcun verso. Non perchè lui fosse più forte
di me, lo sapevo di essere una persona violenta, e avrei potuto dargli un
calcio nelle parti basse, e fargli malissimo.
Fatalità…
Credo che fosse questo, che fu questo… me
ne ero già accorta da quando gli avevo parlato in palestra, che lui mi guardava
in modo diverso, e il suo sguardo mi agitava dentro, accendeva qualcosa dentro
di me, che si era addormentato da tantissimo tempo. In quella palestra, piena
di ragazzi, che correvano dietro ad un pallone arancione, io ero ritornata ad
essere una ragazza, una bella ragazza che si divertiva a giocare. Con lui. E
Kaede lo sapeva, se ne era accorto. Il profumo del silenzio tra me e lui era
cambiato, era dolce e pungente, come latte e menta, come qualcosa che si
aspetta per secoli e non arriva mai, attesa snervante del desiderio. Mi accorsi
che mi sopravanzava in altezza, mi accorsi come i suoi occhi si accendessero di
scintille azzurre, quando ero nervoso o a disagio, mi accorsi di quei suoi
piccoli movimenti, che ti piace fraintendere, mi accorsi di quelle sue mille
parole, nascoste tra le sue labbra sottili e disegnate, che guardavo come se mi
stesse dicendo chissà che cosa. E quando ci sfiorammo, fu anche peggio, morire
e rinascere due, tre, quattro, infinite volte, e perdere qualcosa. Qualcosa…
della mia ragione, del mio cervello, che andava simpaticamente a farsi
benedire. Per sempre. Gli presi la mano come una fidanzatina alla prima uscita
di coppia, e sorrisi, mentre lui momentaneamente cieco, non poteva vedermi. Un
sorriso idiota… un sorriso che era una recita, una commedia, di un ruolo che
non era il mio, e che se avesse visto Haruko, avrebbe avuto ragione di
fraintendere.
Per questo, quando mi baciò, non mi
sorpresi. Non mi spaventai. Non mi meravigliai. Nulla di tutto questo. Quasi mi
chiesi perchè non fosse stato prima. La promessa di quel bacio era nata molto
prima, fuori dalla palestra, dove io avevo smesso di essere la mascolina
manager della seconda squadra del campionato e lui la supermatricola del
torneo, la grande rivelazione del basket.
Eravamo solo Kaede e Ayako.
Abbandonai le sue braccia… in fondo, mi
dicevo, non sono la ragazza di Miyagi, in fondo io non provo niente per Ryota,
in fondo che conseguenze ci saranno… Kaede non ama me e io non amo Kaede… non
ci saranno conseguenze… in fondo, non siamo nemmeno amici, che me ne frega se
domani non mi parla più… non mi parla neanche di solito, quindi… non ci faremo
male…
Mi avvicinai di più a lui, portando le mie
braccia attorno alla sua vita, rendendo il nostro bacio più profondo. Sentivo
la sua lingua arrivare a toccare la mia, mentre il mio respiro accelerava, come
il ritmo che si stava creando tra me e lui. La mia anima bruciava nel mio
corpo, prigioniera che reclamava la libertà, lui si staccò da me e mi mordicchiò
il labbro inferiore. Sentii il sapore del sangue di nuovo in bocca… un dejà vu…
era stato lui quella sera allora, non mi ero sbagliata… si abbassò, continuando
a baciarmi su collo, mentre reclinavo la testa, gli occhi vuoti fissi sulle
prime stelle del cielo. Le sue mani correvano oltre il sottile tessuto della
mia divisa, lungo la mia schiena incandescente più delle sue dita, che
bruciavano ogni centimetro quadrato della mia pelle. Poi si spostò sul davanti
della mia divisa, cercando di sciogliere il nastro rosso che la cingeva. Lo
fermai, e lui mi guardò come una cosa nuova, come se non fossi mai esistita
fino a quel momento. Come pensavo… lo volevo con tutte le mie forze, una spina
nello stomaco, che sanguinava senza sosta, e che niente avrebbe ricucito, se
non lui. Ma, chissà perchè, qualcosa dentro di me… quel qualcosa, presentimento
lo avrei chiamato dopo, mi disse qualcosa. Aveva quello strano desiderio verso
di me, e questo lo spaventava, gli faceva paura, per questo quanto prima lo
avesse accondisceso, tanto prima sarebbe stato libero. Di nuovo, lontano.
Lontano da me e da chiunque altro. Non glielo avrei permesso, assolutamente.
Questo mi dissi, da stupida qual’ero, mi dissi che lo avrebbe ricordato per
sempre, che non sarebbe stato uno sfizio che si stava togliendo, quello con me,
come non lo era per me. Gli avrei lasciato un segno dentro, in quello che gli
altri chiamavano cuore e lui chissà come cavolo chiamava.
Lo guardai, respirando a fatica, mentre
eravamo ancora stretti l’uno dell’altra, e gli sussurrai: “Sono qui, Kaede… non
ci penso proprio ad andarmene…”, lui spalancò gli occhi e mi attirò di nuovo a
sé, affondando il suo volto nell’incavo della mia spalla. Mi faceva tenerezza
vederlo così piegato su di me, lui che non si spezzava mai, lui che sarebbe
morto, giocando una partita, un’ultima partita con il destino. Gli accarezzai
la nuca, come si fa con un bambino che aveva fatto un brutto sogno.
“Ayako…” sussurrò lui, stringendomi più
forte
“Che c’è?” chiesi io, guardando la sua
nuca ancora una volta
Non disse nulla per molto tempo, poi si
allontanò da me, recuperando la sua altezza solita, e mi guardò dall’alto in
basso, come faceva sempre; vuoi perchè era alto un metro e ottantasette, vuoi
perchè si considerava superiore a chiunque, ma era il suo sguardo solito. Era
sempre così che guardava tutti. Peccato che me ne dimenticai quel giorno,
quella dannata sera che avrebbe cambiato la mia vita per sempre, quella sera da
cui è nato ogni mio più immenso dolore ed ogni mia più folle gioia, quel giorno
io vidi negli occhi blu di Kaede Rukawa… dolcezza, tenerezza, delicatezza, che
non avrei mai pensato esistere in lui. E soprattutto non avrei mai pensato che
potesse guardare così me…
“Ayako, i-io v-voglio…” balbettò,
abbassando la sguardo. Era persino imbarazzato, l’avrei mai detto? Gli misi le
dita sulle labbra e gli sussurrai: “Anch’io… anch’io, Kaede…”; bè, era davvero
la serata delle stranezze …
Mi mise una mano sul viso, accarezzandomi
la guancia con il pollice, e poi mi attirò a sé per il mento. Mi baciò di
nuovo, ancora ed ancora. Mi alzai in punta di piedi, cercando di arrivargli più
vicina e gli portai le mie braccia attorno al collo. Di nuovo, fui trascinata
da quel vortice strano di sensazioni, che mi toglievano il fiato, colori stupendi
che nascevano sotto le mie palpebre chiuse. Fiori di fuoco fiorivano sulla mia
pelle, dove lui arrivava a sfiorarla, e il loro calore si espandeva soave tra i
miei tessuti; iniziò di nuovo a giocare con il fiocco della mia divisa, senza
che io provassi anche solo a fermarlo, mentre continuavamo a baciarci. Riuscì a
scioglierlo finalmente, mentre iniziava a solleticare i bottoni che chiudevano
quella sottile camicetta, troppo sottile per allontanarci l’uno dell’altra,
troppo spessa in quel momento nel dividermi da lui. Portai le mie dita sui
bottoni circolari della sua giacca, che si aprirono senza difficoltà. Mi guidò
verso la panchina che era lì vicina, e mi fece distendere su di essa, non
smettendo un secondo di baciarmi, il suo corpo che premeva sul mio e che mi
sovrastava. Finì di togliermi la camicia che mi sfilò manica dopo manica,
mentre io l’aiutavo, le sue labbra che lasciavo solchi umidi sulle mie labbra,
sul mio collo e sul mio seno. I nostri respiri crescevano sempre di più,
diventando uno solo, veloce, come il mio cuore che non mi lasciava in pace le
orecchie con il suo martellare continuo. Mi strinse più forte, come se temesse
che avessi freddo, ma non potevo, non riuscivo a sentire niente di diverso da
lui, lì sopra di me. Ripresi ad armeggiare con la sua giacca che cadde per
terra, assieme alla maglia bianca che portava sotto; passai le mie dita
inaspettatamente gelide sul suo torace scolpito e muscoloso, esattamente come
me lo ero sempre immaginata, quando lo vedevo correre per la palestra. Lui
prese la mia mano, baciandomi i polpastrelli uno alla volta, lentamente, prima
che io riprendessi a baciarlo. Lo sentii passare la mano, lungo la mia gamba,
fino ad arrivare all’orlo della gonna; stava per succedere, ormai stava per
accadere.
In quei momenti, dovresti sentire una
voce, che ti avverte, che ti dice di fermarti, che ti avverte del rischio che
stai correndo, ma non accade, mai, non succede mai. Mai succede che una voce
d’angelo ti dica nella mente di fermarti, prima che sia troppo tardi, non te lo
dicono mai… il Cielo magari pensa che te la caverai da sola e non spreca i suoi
preziosi angeli per mandarti un segnale. Non parla mai nessun’angelo custode
nel tuo cervello. E tu allora continui come un’idiota e ti incammini a passi
lunghi verso la rovina della tua vita. Sono certa, sono sicura che se allora
avessi conosciuto già il mio angelo, le cose sarebbero andate diversamente. Ma
non fu così: Kaede arrivò sotto quella piccola minigonna a pieghe, mentre io
tremavo e spalancavo ancora una volta gli occhi al cielo muto e spaventoso di
stelle. Aprii i suoi pantaloni e in un attimo lui entrò dentro di me, senza che
neanche me ne accorgessi, cielo e terra che si fondevano, scoppiando in un
nuovo big bang. I nostri nomi, pronunciati dalle labbra dell’altro, divennero
uno solo, fatto d’aria incandescente che moriva nella bocca dell’altro. Cessò
di esistere tutto, in lui, in lui in me, ogni luce moriva e diventava più forte
del sole; ogni cosa che ero stata, finì. Non era la prima volta, non lo era, e forse
non lo era nemmeno per Kaede… ma fu come la prima volta, davvero. Due, tre
volte morimmo l’uno dentro all’altra, finchè lui cadde su di me, poggiandosi
sulla mia spalla, il fiato ancora corto. Lo abbracciai forte, mentre una sola
domanda mi riempiva il cuore… che ne sarà adesso di me e di te?
Guardai il soffitto viola, con gli occhi
annacquati, e cercai di ricordarmi dove fossi. Non ricordavo dov’ero, come in
preda ad una meravigliosa ubriacatura. Sentii un respiro più forte vicino a me,
ed allora mi ricordai tutto. Mi voltai di fianco, guardando gli occhi chiusi di
Kaede che dormiva placidamente accanto a me, una mano sotto il cuscino. L’altro
braccio lo teneva disteso accanto a me, ma non mi toccava, era strano, quando
finivamo di fare l’amore, lui evitava persino di toccarmi fino alla volta dopo.
Avrei dovuto capirlo allora? Non lo so, magari a qualcuno sarebbe stato
evidente, ma a me non lo era. Non lo era assolutamente. Erano due mesi che
questa storia andava avanti, che io e Kaede finivamo a scadenze più o meno
regolari a letto assieme, senza che nessuno dei nostri amici immaginasse
minimamente qualcosa. In palestra, eravamo normalissimi, anzi persino più
freddi del solito, ci rivolgevamo pochissime volte la parola, evitavamo persino
di sfiorarci. Ma in fondo chi avrebbe potuto capire qualcosa? In giorni ben
precisi, quando uscivo dalla palestra, trovavo lui ad aspettarmi e ci
incamminavamo piano verso casa mia, in silenzio, io un’ automa incapace di
ribellarmi a quella strana malia che lui aveva su di me. E puntualmente eravamo
in camera mia. Che cosa eravamo, io e lui? Niente, lo capivo nel suo viso,
quando cercavo di portare il discorso su quella domanda. Mi sentivo una stronza
a fare questo a Ryota, a farlo ogni giorno, mentre lui continuava a ripetermi
da un capo e l’altro della palestra: “Ayakuccia!”, ma non riuscivo ad
impedirmelo. In nessuna maniera. In nessun ragionevole modo. Quando ero con
lui, mi sentivo viva. Mi sentivo vivere. Pienamente, al massimo, come se fosse
l’ultimo giorno della mia vita. E non mi era mai successo.
Amore?
Sarebbe stato troppo facile chiamarlo
così… non lo sapevo nemmeno io che diamine fosse, a dirla tutta non l’ho mai
saputo con estrema certezza, ma non era solo sesso… c’era qualcosa tra me e
lui… era come… come se appartenessi solamente a lui… non so se riesco a
spiegarmi… come se avessi un marchio a fuoco nell’anima, che mi faceva
ritornare puntualmente da lui… fatalità… ecco, la parola giusta, di nuovo è la
dannata parola giusta… non c’era strada diversa da quella che mi avrebbe
portato da lui…
Kaede si mosse piano nel letto e spalancò
i suoi occhi blu: “Che ore sono?”
Mi sporsi oltre il cuscino per guardare la
piccola sveglietta sul comodino, e mormorai: “Le otto e mezzo… devi andare a
casa?”… la mia voce mi parve così strana… ormai non mi riconoscevo più… ero un
cucciolo nelle sue mani… e pensare che mi ero sempre considerata forte,
testarda, e chi più ne ha, più ne metta… addirittura più forte di quello che
doveva essere una donna normale…
Lui sporse le labbra, quelle sue
meravigliose labbra che amavo tanto baciare, e disse dopo un po’: “No, posso
restare qui ancora un po’…”
“Vuoi che ti cucini qualcosa?”
“Non ho fame…”
La sua voce era fredda… ci ero abituata,
era sempre così, ma quella volta fece più male. Mi fece spezzare il cuore.
Avevo parlato con Haruko quella mattina, e lei stava sempre lì a fantasticare
su di lui, rimandando puntualmente il momento in cui gli avrebbe confessato i
suoi sentimenti. E, mentre pensavo al grande segreto che mi portavo dentro, mi
chiesi se valesse la pena, se valesse la pena rischiare di perdere tutto. Per
lui. Quelle poche sue parole sembravano una tacita risposta, un secco diniego.
Ma non ascoltai. Sono testarda. Mi
conosco. Non avrei mai ascoltato. Fino all’ultimo.
Mi alzai dal letto ed indossai una
maglietta lunga a maniche corte. Era di mio fratello. Come diamine c’era finita
sulla poltrona vicino al mio letto? Mio fratello… mi venne da piangere, ma mi
trattenni. Cuccioletta fino ad un certo punto, ma piangere davanti a lui nel
ricordo del mio defunto fratello, era troppo anche per me. Tirai su con il
naso, e mormorai secca: “Se devi rimanere solamente a poltrire, te ne puoi
anche andare a casa tua…”… magari, era mio fratello a darmi la forza… un angelo
custode?
Mi guardò stranito e mormorò: “Che hai?
Sei incazzata?”
“Fai un po’ te…” dissi, andando in bagno e
presi a spazzolarmi i capelli davanti allo specchio circolare. Dopo poco,
sentii i suoi passi dietro di me raggiungermi; si era messo i boxer, ma era
ancora a torso nudo. Mi mise le mani sulla vita, baciandomi dietro l’orecchio,
e poi mi chiese: “Che c’è, Ayako?”
Lo guardai dallo specchio, e dissi:
“Kaede, che cosa siamo io e te?”
“Che significa?” chiese, staccandosi da me
e guardandomi dal riflesso a sua volta
“Significa quello che ho detto…” replicai
nervosa, voltandomi per tornare in camera. Lo superai e mi misi ad armeggiare
con i miei vestiti: “Non fare l’idiota… mi hai capito benissimo…”
Sentii che mi stava guardando, ma non
parlava. Tipico. Non sapeva che dire. O non voleva parlare, come il 90% delle
volte.
“Mi sono stancata… di questa situazione…”
dissi tutto d’un fiato, non guardandolo ancora “Mi sono stancata di mentire a
Ryota e ad Haruko. Non so tu, ma io ci tengo a loro. Tanto. Mi sono stancata di
mentire per qualcosa… per qualcosa che non esiste, Kaede…”
“Non ti sei fatta tanti problemi a farlo
fino ad ora… che è cambiato?” disse arrogante, la sua voce resa fastidiosa da
quel tono consueto, poi si avvicinò a me e mi voltò forzatamente il viso verso
di lui, prendendomi per il mento: “E, cazzo, guardami in faccia, maledizione!”
Lo guardai senza farmi tanti problemi; mi
teneva forte per il viso e mi faceva male, ma le lacrime che splendevano nei
miei occhi non erano per quello.
Sbatté un paio di volte le palpebre e
disse, allentando la presa: “Stai piangendo…”
In un altro momento, centinaia di anni fa,
gli avrei risposto ironicamente, ma, si sa, il sesso cambia le cose, le
confonde e le rende diverse, nebbie luminescenti in un mare di buio.
Mi divincolai dalla sua presa e mi
accasciai sul letto, le mani a coprirmi il viso. Non volevo che mi vedesse
piangere, non volevo essere debole davanti proprio a lui… magari un altro sì,
ma non lui, maledizione, lui che tra quelle lenzuola si sentiva invece così
forte… lo sentii sedersi accanto a me e rimanere in silenzio. Poi, piano, mi
prese il viso bagnato e lo girò ancora verso di lui: “Guardami…”, e io lo
guardai, le lacrime che non volevano smettere di cadere dai miei occhi rossi.
“Non devi piangere, non devi piangere per me…
capito?” disse, accarezzandomi il viso “Sarà come tu vuoi… vuoi che lo diciamo
agli altri? Vuoi parlare con Miyagi ed Haruko? Fallo… io non ho problemi…”
“Non è questo, Kaede, non è questo…” dissi
ancora una volta, ma evidentemente lui non riusciva a capirmi “Io non so che
cosa sono io per te… non posso più… sono solo… un tuo passatempo…”
Allontanò i suoi occhi dai miei e disse,
gelido: “Non mi sembra nemmeno che io sappia che cosa tu provi per me… quindi
siamo pari… per quanto ne sappia, potrei essere anch’io un tuo passatempo…”
“Non è così…” sibilai seria
“E allora cosa?!” ritornò a guardarmi
“Cazzo, Ayako, lo vedi?! Lo vedi?! Che cosa dovrei dirti io, allora?!”; si alzò
e diede un calcio alla poltrona. Pensai attentamente a lui, ai tempi delle
medie e a quanto avevo sofferto per lui, al momento in cui me l’ero trovato di
nuovo davanti al liceo, alle partite che aveva giocato e a quello che avevo
provato mentre lo vedevo giocare. Pensai a quello che avevo provato in quei
mesi, pensai alle sue carezze, alle sue rade parole, a quei momenti in cui mi
sembrava che il mondo avesse finito di girare fuori da quella stanza, pensai a
quello che rischiavo, continuando questa storia. Fu un attimo, un solo secondo,
ma durò in me come mille vite mortali.
“Io ci tengo a te, tanto, molto più di
quanto pensi, Kaede…” dissi, alzandomi in piedi e mettendomi alle sue spalle
“Io ti voglio bene, moltissimo, immensamente… ma non so dove questa cosa ci
possa portare… e, se tu non senti la stessa cosa, non posso continuare. Non
voglio continuare, Kaede.”
Si voltò piano, le lacrime che ormai
ristagnavano sulle mie ciglia, e mi accarezzò di nuovo il viso: “Anch’io ci
tengo a te, è ovvio…”, le sue parole erano quasi le mie stesse ed identiche
frasi, ma non mi fecero effetto. Già allora non mi fecero effetto, non è una
riflessione a posteriori, non sentii il sentimento che invece vibrava nelle
mie. Non lo sentii, assolutamente. Ma quello era Kaede Rukawa, credo che non
sia ancora nata la persona che possa aprire del tutto il suo cuore. In quei
giorni, facevo credere a me stessa di poter essere io.
“Facciamo così…” mi disse, accarezzandomi
ancora il viso “Appena finirà il torneo nazionale, decideremo che cosa fare…
sono nervoso in questo periodo, lo sai…”
Annuii, accompagnando il mio gesto con uno
stanco ed inespressivo sorriso: “Voglio parlare con Ryota però… non parlerò di
me e di te, se non vuoi… ma non deve ancora illudersi così…”
Lui annuì, mi strinse tra le braccia e mi
sussurrò nell’orecchio: “Andrà tutto bene…”. Quello fu forse l’attimo più bello
tra me e lui, molto di più dei baci infuocati o di tutto quello che scorreva
tra noi. Una parola. Una sola parola, di quelle che lui si rifiutava sempre di
dire, mi fece andare avanti per ancora troppo tempo. Troppo tempo. Le parole sono
sempre troppo importanti. Anche se sono una bugia.
Mi misi una mano tra i capelli, cercando
di fermarli, mentre il vento li scompigliava, accompagnandoli nel loro volo
inquieto con foglie morte, polvere e buste di plastica, immense meduse di un
mare inaridito. Il mio cuore era gelido, ghiacciato tra i miei polmoni, e non
faceva freddo, faceva persino caldo in quella dolce giornata di giugno. Guardai
il cielo turchino e chiesi ancora una volta se era la cosa giusta, se stavo
facendo la cosa giusta, ma, come ho già chiarito, di solito non ho grandi
risposte da lassù. Sentii dei passi e mi voltai, trasalendo leggermente. Ero
alle spalle dell’edificio scolastico, e bè si sa che succede là… risse, scambi
di sostanze più o meno lecite, effusioni varie ed eventuali, anche esse più o
meno consentite. Il luogo, dove si seppelliscono i segreti degli studenti e
dove avrei seppellito il primo dei miei.
“Ciao Ryota…” dissi, simulando
un’espressione allegra, alla quale lui rispose con un sorriso tirato. Aveva
capito, chiaro… mi conosceva troppo bene, e io non so fingere. Non lo ho mai
saputo fare. E poi quel posto… il luogo delle estreme sentenze… o con me o
senza di me, mi suggerivano le sue pareti scrostate…
“Volevi parlarmi?” mi chiese,
avvicinandosi, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni della divisa. Lui
mi ama, sarà una cosa normale con lui, poter urlare che si sta assieme ai
quattro venti, andare a prendere un gelato all’uscita da scuola, vedere un film
stupido al cinema e piangere come una cretina, passeggiare per i negozi e
sorridere davanti alla vetrina di un negozio di giocattoli, farsi offrire una
crepe che poi so già che non finirò fino alla fine, perchè la cioccolata mi fa
ingrassare, parole stupide a dirmi che non è vero che sono grassa, e sorrisi
compiaciuti di quel nuovo vestito, che mi far apparire una taglia più magra.
Scossi la testa ed annuii: “I-io non so da
dove iniziare…”. Lo sapevo esattamente da dove iniziare invece, forse non era
tanto vero che le bugie non lo so dire… mento da due mesi, in fondo…
“Lasciami indovinare” disse lui, fingendo
un’espressione meditabonda “Ti sei innamorata, vero? E di una persona che non
si chiama Ryota Miyagi per caso?”
Annuii per semplicità di cose: “M-mi
dispiace, Ryota… i-io ti voglio bene, ma…”
“Lo sapevo, lo sapevo da tanto, Ayako…”
disse lui, voltandosi di lato e prendendo a calci una pietra, che si infranse
poco più lontano “Questi mesi… sei cambiata… sei diversa, sei brava a non
fartene accorgere, ma io ti conosco… l’avevo capito, appena mi hai detto che
volevi parlarmi…”
“In che senso, sono cambiata?” chiesi
invadente, spalancando gli occhi
“Non lo so, sei diversa… lo dovresti
sapere più tu in che cosa sei cambiata, Ayako… non te lo devo mica dire io…”
rispose tagliente. Giusta obiezione. Peccato che non so nemmeno io in che
cavolo sono cambiata. Sono diversa. Questo è un fatto.
“Digli che è fortunato…” mi disse Ryota,
prima di voltarsi ed andare via. La tentazione di dirgli di riferirglielo di
persona, non appena fosse tornato in palestra, era forte. Un’altra faccia del
senso di colpa.
Per la maggior parte delle ragazze,
guardare dei maschi sudati correre dietro ad un pallone era piacere puro per i
sensi. Altre avrebbero risposto che invece era una noia mortale, e non avresti
potuto dargli torto, specie se le avessi viste con fidanzati più o meno
ufficiali, troppo presi dal gioco e troppo poco da loro. In quella categoria,
io ero una netta eccezione. Il fatto che avessi una relazione con il giocatore
numero uno della nostra scuola non mi impediva di appoggiare stancamente i
gomiti sulle gambe e la testa sulle mani, il fatto che fossi la manager della
suddetta squadra mi vietava però in maniera inevitabile di potermi distrarre
troppo. A volte mi paragonavo ad Hikoichi Aida, che prendeva appunti freneticamente
come un pazzo; peccato che a lui piacesse e a me no… disegnai qualche
scarabocchio sul blocco degli appunti, mentre la palestra dello Shohoku
esplodeva del rumore di un altro canestro, messo a segno dalla squadra
avversaria. Stavamo perdendo. Inesorabilmente. Per fortuna, era solo
un’amichevole, una specie di allenamento prima dei nazionali. L’altra squadra
era proprio forte, e i nostri erano altrove… potevo avere la colpa della
distrazione di un solo quinto della squadra ed esattamente del nostro playmaker,
ma dubitavo che il resto della squadra potesse minimamente impensierirsi per le
mie patetiche vicende sentimentali. E in questa categoria annettevo anche la
super matricola, Kaede Rukawa. Sospirai rumorosamente, mentre il Sannoh Kogyo
segnava un altro canestro. Erano proprio forti. Ma, per la prima volta nella
mia vita da manager, me ne fregava meno di niente; mi portai la mano sulla
fronte, mi girava la testa ed era un paio di giorni che stavo male. Quella
storia con Kaede era difficile da affrontare, e stranamente ancora più
difficile, era rifiutare a me stessa di avvicinarlo e di parlargli. E di
toccarlo. Quel tacito patto che avevo siglato con me stessa, era la cosa più
complicata che avessi mai fatto, perchè, inutile negarlo e nasconderlo almeno
quando parlo a me stessa, avevo enormemente bisogno di lui. Bisogno di potermi
appoggiare a lui, quando ero stanca, quando finiva la giornata e ti chiedi
ossessivamente che cosa avessi fatto in quelle ventiquattro ore, che fosse
meritevole di nota. Sospirai ancora, ero innamorata allora? Guardai Kaede che
marcava con tutte le sue forze un giocatore avversario, che sembrava beffarlo con i suoi continui
palleggi… fossi o non fossi innamorata, non era quello il momento. Sarebbe
stato il momento, solo quando il basket avesse cessato di esistere dalla faccia
della Terra… paradossale, mi ero messa pure ad odiare il basket. Mi prese
ancora un capogiro, amplificato a dismisura dalle urla di incitazione di
Haruko, Kogure, Mito, Okusu, Noma e Takamiya… almeno la memoria mi era rimasta,
per una volta mi ricordai i nomi di tutti gli amici di Hanamichi. Mi alzai e
decisi di andare a prendermi qualcosa da bere.
“Dove vai, Ayako?! Mancano tre minuti e
siamo sotto di sette punti!” inveì Haruko contro di me
“Appunto, se mi allontano un attimo non
c’è rischio che mi perda niente…” dissi acida, mentre Haruko mi guardava,
spalancando i suoi occhi azzurri. Certo, cocca, fai anche lo sforzo di capirci
qualcosa… non ne verrai a capo, non capisci da un anno che Hanamichi ti viene dietro,
figuriamoci se arrivi a concepire che cosa sta succedendo a me.
Iniziai a camminare verso la scuola, per
raggiungere il distributore automatico, quando sentii un fischio sordo, alzai
il capo, un antifurto? Certo che è proprio potente, mi sta trapanando le
orecchie. Quando poi si fece tutto buio, e sentii le gambe piegarsi come
gelatina, capii che non era una causa ambientale. Ero solo io che cadevo a
terra, come una cretina. Cercavo di aprire gli occhi, ma erano come incollati.
E bè, a parte quel fischio, la mia testa rimbombava di voci, una su tutte,
quella di Ryota; mi sembra abbastanza semplice escludere che in quelle voci ci
fosse l’unica che io volessi sentire. Anche stavolta, aveva un alibi perfetto.
Il suo sangue freddo. Mentre giocava, nemmeno la morte di tutto il genere umano
lo avrebbe distolto da quella dannata palla.
Al risveglio, quando si è addormentati,
per qualche secondo, prima di riprendere coscienza, ti sembra che i sogni siano
realtà, anche nel caso si tratti di incubi infantili o di situazioni assurde.
Non vi è mai capitato? Ti sembra che ogni cosa che è accaduta mentre dormivi
sia vera, e tantissime volte mi sono risvegliata, preoccupandomi di quello che
mi era accaduto in sogno. Quella volta non mi ero propriamente addormentata, ma
comunque sobbalzai al mio risveglio, ritrovandomi nel letto bianco di una
stanza che non conoscevo; mi guardai attorno spaurita ed ebbi la sensazione che
il sogno che avevo fatto, porte aperte su infinite stanze immacolate, fosse
vero. Stropicciai gli occhi e feci per alzarmi dal letto, ma mi colse un
fortissimo senso di vertigine e un conato di vomito. Corsi verso la porta di un
bagno, che vedevo spalancata, ma non riuscii a rimettere e quindi, rassegnata,
tornai in camera. Una voce raggiunse le mie orecchie, una voce terribilmente
acuta e fastidiosa.
“Stai giù, Ayako!” mi intimò con voce
greve e pesante. Riconobbi all’istante quella voce, era l’infermiera Iromi, le
mandavo alle volte i ragazzi quando si facevano male. Indossava un camice
bianco stinto, che faceva risultare le unghie delle sue piccole mani tozze,
laccate di un rosso scrostato. Sembrava un grosso rospo nero, con i suoi
capelli appiccicaticci ed informi; i suoi occhi spenti erano coperti da un paio
di occhiali dalla montatura di strass bianchi.
“Mi scusi, signorina Iromi… cosa è
successo?” chiesi, cercando di essere gentile. Il suo aiuto ci era sempre
comodo, specialmente quando i ragazzi si picchiavano a sangue, e, con piccoli
regalini, lei taceva di fronte al preside il motivo delle loro continue visite
in infermeria. Cercai soprattutto di non insistere sul “Signorina”, lo odiava,
ed era abbastanza ovvio, se non era una giovane donna bella e disponibile, ma
una vecchia di quaranta anni brutta e zitella.
“Sei svenuta…” disse lei, accendendosi una
sigaretta e sedendosi accanto a me; il fumo mi fece venire la nausea ancora più
di prima, e mi portai impercettibilmente la mano alla bocca.
“Ah già…” disse lei, affrettandosi a
spegnere la sigaretta in un piattino, il cui originario scopo doveva essere
quello di fungere da piattino per il tè. Si alzò e mi guardò con un sorriso
finto, come i fiori nel vaso sul comodino; disse solamente: “Si sa che le donne
incinte non sopportano gli odori forti…”.
Per qualche secondo, pensai di aver capito
male, le chiesi infatti di ripetere. Lei ripeté la frase con sicurezza e con
una sorta di ironia cattiva, che rendeva le sue parole simili a qualcosa che
non poteva esistere, almeno per me. Mi sta prendendo in giro, come cavolo ha
fatto altrimenti? Mi ha fatto una ecografia mentale?
Scoppiai a ridere: “Mi sta prendendo in
giro?!”
“Assolutamente no” rise lei di rimando “Ne
ho viste tante, tesoro… i sintomi sono sempre gli stessi… e tu sei
perfettamente il tipo da avere un rapporto, senza precauzioni, diciamo così,
và…”
La mia risata iniziò a perdere vigore e
chiesi: “Sì, ma non è il mio caso… io sono solo stanca, glielo garantisco,
adesso devo tornare in palestra, i ragazzi stanno giocando…” e feci per
alzarmi.
“La partita è finita, ed hanno perso… 115
a 104…” rise ancora lei, incrociando le braccia e guardandomi dall’alto in
basso “Tiro anche ad indovinare… il padre è uno di loro? Aspetta, aspetta, non
dirmelo! Hisashi Mitsui, vero? Era una specie di teppista, quindi ti piace fare
la donna del boss…”. Mi alzai di scatto e chiusi la porta violentemente, quella
donna che rideva ancora.
Non tornai in palestra, non volevo vedere
nessuno. Pensai che potevano venirmi a cercare, che potevano essere
preoccupati, ma certamente Kaede, al termine di quella sconfitta, non avrebbe
pensato a me, fino a quando non avesse dato la colpa di quell’insuccesso a
tutto il resto della squadra. Il che, almeno stavolta mi faceva piacere,
estremamente piacere… uscii da scuola, fuori c’era ancora un gruppetto di
ragazzi del Sannoh Kogyo, che commentavano la partita, ridendo sguaitamente.
Uno di loro sollevò lo sguardo e mi additò ai suoi amici, dicendo ad alta voce:
“Quella non è la puttanella dello Shohoku? Che c’è, bambolina, ti sei agitata e
sei svenuta?”
Mi voltai a guardarlo, apparentemente
senza alcun interesse… potrei essere incinta… una rabbia furiosa mi
raggiunse le mani, che si contrassero febbrilmente, feci qualche passo e lo
affrontai a viso aperto: “Che cazzo vuoi? Ce l’hai con me?”
Lui strinse le labbra e mi spinse via,
puntellando le sue braccia sulle mie spalle, ridendo ancora. Lo guardai ancora
con indifferenza…“Andrà tutto bene…”… mi scagliai contro di lui,
furiosa, e gli diedi un calcio all’inguine. Quello si piegò in due dal dolore,
piangendo e i suoi amici mi guardarono collerici, muovendosi verso di me. Che
diamine stavo facendo? Mi sentii afferrare alle spalle e mi voltai di scatto,
spaventata. Era Mito.
“Scusatela!” disse sorridendo a mò di
scusa a quei ragazzi che lo guardarono, senza capire “E’ molto nervosa! Siete
stati bravi! Ottima partita!”, mi prese per un braccio e mi trascinò via,
mentre quelli continuavano ad imprecare al nostro indirizzo.
“Non farla tanto lunga, se ti ha fatto
tanto male lei, se ti prendo io a calci che succede?” urlò verso di loro,
continuandomi a tirare fino fuori al cancello. Sospirai di sollievo, mentre le
loro urla si spegnevano.
“Che cavolo t’è preso Ayako?” mi chiese,
non appena usciti fuori, mentre si portava la mano alla fronte, sollevato “Meno
male che ti ho vista, altrimenti… come stai?”
“Bene” mentii spudoratamente, rincarando
la dose: “Alla grande”
“Hanamichi e Miyagi ti stavano cercando…”
disse, affondando le mani nelle tasche “Te ne sei andata dall’infermeria? Che
avevi allora?”
“Niente” dissi nervosa, abbassando gli
occhi “Hai visto Kaede per caso?”
“Rukawa? Sì, se ne è andato… mezz’ora fa,
più o meno…”
Perfettamente consono. Adesso scaricava la
rabbia da qualche parte. Io? “E’ solo svenuta, mica è morta…”; o meglio la
frase adatta sarebbe: “Ayako? Ayako chi? Quella che mi faccio una volta ogni
tanto?”
“Io adesso me ne devo andare… puoi
avvisare tu Hanamichi e Ryota? Adesso sto bene, davvero…” dissi poco convinta.
Annuii e io mi allontanai, camminando velocemente. Devo togliermi questo
dubbio, mi dissi. Calma, Ayako, cerca di essere razionale. In fondo,
l’infermiera non sembra nemmeno laureata ed è una poveraccia, se vai a vedere
si diverte a far sobbalzare per invidia tutte le ragazze innamorate…
innamorate, ormai lo ammettevo pure a me stessa… che bello, mi ero pure
innamorata di Kaede Rukawa…
Arrivai nella strada principale della
città e camminai velocemente, ancora un po’, la gente che mi guardava strana.
Non mi ero nemmeno cambiata, avevo lasciato tutte le mie cose in palestra, che
cretina… mi fermai di botto sotto l’insegna luminescente di colore verde… una
farmacia… assomigliava a quella del Peppermint milk… mi sembrano secoli fa…
Respirai profondamente un paio di volte,
ma, nonostante questo, ci misi venti minuti buoni prima di entrare. Come
un’idiota, mi fermai a vedere una vetrina, poi mi feci un giro del palazzo, poi
mi presi un caffè. Alla fine, mi trascinai dentro la farmacia. Il bancone era
abbastanza lontano ed affollato, ed ebbi tempo di guardare da tutte le
angolazioni il manifesto che promuoveva la nuova lozione per la perdita di
capelli. Finalmente, l’ultimo cliente pagò le sue preziose pillole per la
circolazione e una signora bionda ossigenata mi guardò annoiata e chiese: “Mi
dica…”
Pigolai qualcosa, e lei mi chiese di
ripetere, sollevai lo sguardo e dissi, nervosa: “Un test di gravidanza, per
favore”
Lei, senza scomporsi, si voltò ed aprì un
cassetto, uscendo fuori uno stretto parallelepipedo bianco, mi disse il prezzo
e mi salutò con un asettico: “Buonasera…”. Lei sì che poteva dire di vederne
centinaia al giorno di ragazze che ordinavano test, fingendo che fosse per una
loro amica, per la loro mamma ultracinquantenne, oppure atteggiandosi a grandi
donne di mondo, scuotendo i riccioli, che coprivano i loro occhi infantilmente
rossi di lacrime, pesti di ombretti scuri, che fingessero dieci anni di più.
Uscì fuori correndo, adesso avevo freddo…
un gelo che mi penetrava nelle ossa… corsi fino a casa, senza fermarmi, se non
per aprire la porta. La chiusi e mi appoggiai stancamente contro di essa.
Gettai le chiavi sul tavolo, e corsi in bagno.
Mentre aspettavo il risultato, chiusi gli
occhi. Calma, Ayako, calma… andrà tutto bene, come erano odiose adesso quelle
parole, che cazzo volevano dire? Niente può andare tutto bene, mai, se va tutto
bene, vivremo in paradiso. Ma se poi è possibile che qualcosa vada bene, domani
vedo Kaede e gli dico che sono innamorata di lui e che voglio stare con lui e
che non voglio nascondermi più. Se poi va tutto male, bè si sa… o meglio non ne
ho la minima idea… quanti sono cinque minuti? Guardai l’orologio, cercando di
non sbirciare intanto il test, che giaceva accanto a me. Solo un minuto? Ma
quanto cavolo ci vuole?
Finalmente il tempo passa. Finalmente
sollevo lo sguardo. Finalmente prendo il test tra le mani.
Due linee. So esattamente che cosa
vogliono dire. Lo so esattamente, l’ho letto cinque volte prima. Ma rileggo la
scatola, di nuovo, una, due, venti volte, ma l’incarto del test si bagna di
lacrime.
Positivo.
Alzo gli occhi. Sulla mensola dello
specchio, c’è appoggiato uno spazzolino verde.
“Ho lasciato lo spazzolino a casa tua”… un maledetto e fioco sussurro, senza significato… lo prendo
tra le mani, poi lo getto con violenza contro lo specchio. Sono proprio forte.
Ho rotto lo specchio. Raccolgo i frammenti e mi taglio il dito. Le mie mani si
sporcano di sangue e lacrime, sale che brucia la mia anima.
Non lasciarmi qui,
con il calore delle tue mani
addosso,
anche se poi domani quel treno…
partirà…
Non restare, vai,
se devi farlo, ti prego, fallo
adesso,
anche se poi domani chissà…
Perché l’allegria, la nostalgia,
la voglia che ho di te,
tutto è qui dentro, qui dentro di
me…
Continua ad amarmi,
continua a cercarmi,
continua a ballare su di me,
che strana è la vita, ma guarda
com’è…
una luce scompare nel buio che
c’è…
e continua… continua…
continua a parlarmi ancora un po’
di noi, di noi…
Non andare via,
ho voglia di dormire tra le tue
braccia,
anche se poi domani chissà…
Perché l’allegria, la nostalgia,
la voglia che ho di te,
tutto è qui dentro, qui dentro di
me…
Io e te, distrattamente, io e te,
stupidamente,
e poi che ne sarà di noi…
io e te, immensamente, io e te,
continuamente,
e poi che ne sarà di noi…
(Dolcenera – Continua)
Finalmente
sono riuscita ad aggiornare! La verità è che sto scrivendo una fic su Harry
Potter, che mi sta prendendo molto ed allora non ho molto tempo per il resto,
anche se sono molto legata a questa storia! Credo che sia la cosa migliore che
abbia fatto, sono molto modesta lo so! Spero che questa storia vi stia
piacendo, anche se non è molto, diciamo, “convenzionale” rispetto alle altre di
Slam Dunk! Non so quando arriverà il prossimo chappy, come sempre del resto!
Sono molto indaffarata, specie dal punto di vista mentale! Ho milioni di idee,
e dovrei avere una giornata di 75 ore per fare tutto! Un mega ringraziamento ad
Apple, Sasa, Marchia… e per Lollo, che significa “eddaiii!!”, lo
devo prendere bene? Ciao ciao da Cassie chan!