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Autore: Cassie chan    04/10/2006    1 recensioni
Una storia strana, una storia qualunque. Due persone diverse, ma complementari. Due sapori diversi, ma complementari. Un destino che li unisce. Due vite che li dividono… le loro… E la consapevolezza di quello che sarebbe stato e non fu più. Una storia d’amore sul senso dell’amore… esiste qualcosa di più importante? E se dalla risposta, poi, dipendesse anche tutto il resto?
Genere: Drammatico, Romantico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ayako, Hanamichi Sakuragi, Haruko Akagi, Kaede Rukawa, Ryota Miyagi
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Capitolo 4 – Something fated (Ayako Kuno)

 

Capitolo 4 – Something fated (Ayako Kuno)

 

Mi ritrovai a baciare Kaede Rukawa, senza nemmeno accorgermene, come se non stesse accadendo a me, e stessi solamente vedendo una scena proiettata nel mio cervello. Una scena impossibile fino a quel momento, praticamente impossibile… impossibile che Kaede Rukawa mi stesse baciando, stesse baciando me, quella che gli passa le bottigliette dell’acqua e gli asciugamani. Affondai le mie unghie nel suo braccio, volevo resistere, volevo allontanarlo, ma non c’era alcun verso. Non perchè lui fosse più forte di me, lo sapevo di essere una persona violenta, e avrei potuto dargli un calcio nelle parti basse, e fargli malissimo.

Fatalità…

Credo che fosse questo, che fu questo… me ne ero già accorta da quando gli avevo parlato in palestra, che lui mi guardava in modo diverso, e il suo sguardo mi agitava dentro, accendeva qualcosa dentro di me, che si era addormentato da tantissimo tempo. In quella palestra, piena di ragazzi, che correvano dietro ad un pallone arancione, io ero ritornata ad essere una ragazza, una bella ragazza che si divertiva a giocare. Con lui. E Kaede lo sapeva, se ne era accorto. Il profumo del silenzio tra me e lui era cambiato, era dolce e pungente, come latte e menta, come qualcosa che si aspetta per secoli e non arriva mai, attesa snervante del desiderio. Mi accorsi che mi sopravanzava in altezza, mi accorsi come i suoi occhi si accendessero di scintille azzurre, quando ero nervoso o a disagio, mi accorsi di quei suoi piccoli movimenti, che ti piace fraintendere, mi accorsi di quelle sue mille parole, nascoste tra le sue labbra sottili e disegnate, che guardavo come se mi stesse dicendo chissà che cosa. E quando ci sfiorammo, fu anche peggio, morire e rinascere due, tre, quattro, infinite volte, e perdere qualcosa. Qualcosa… della mia ragione, del mio cervello, che andava simpaticamente a farsi benedire. Per sempre. Gli presi la mano come una fidanzatina alla prima uscita di coppia, e sorrisi, mentre lui momentaneamente cieco, non poteva vedermi. Un sorriso idiota… un sorriso che era una recita, una commedia, di un ruolo che non era il mio, e che se avesse visto Haruko, avrebbe avuto ragione di fraintendere.

Per questo, quando mi baciò, non mi sorpresi. Non mi spaventai. Non mi meravigliai. Nulla di tutto questo. Quasi mi chiesi perchè non fosse stato prima. La promessa di quel bacio era nata molto prima, fuori dalla palestra, dove io avevo smesso di essere la mascolina manager della seconda squadra del campionato e lui la supermatricola del torneo, la grande rivelazione del basket.

Eravamo solo Kaede e Ayako.

Abbandonai le sue braccia… in fondo, mi dicevo, non sono la ragazza di Miyagi, in fondo io non provo niente per Ryota, in fondo che conseguenze ci saranno… Kaede non ama me e io non amo Kaede… non ci saranno conseguenze… in fondo, non siamo nemmeno amici, che me ne frega se domani non mi parla più… non mi parla neanche di solito, quindi… non ci faremo male…

Mi avvicinai di più a lui, portando le mie braccia attorno alla sua vita, rendendo il nostro bacio più profondo. Sentivo la sua lingua arrivare a toccare la mia, mentre il mio respiro accelerava, come il ritmo che si stava creando tra me e lui. La mia anima bruciava nel mio corpo, prigioniera che reclamava la libertà, lui si staccò da me e mi mordicchiò il labbro inferiore. Sentii il sapore del sangue di nuovo in bocca… un dejà vu… era stato lui quella sera allora, non mi ero sbagliata… si abbassò, continuando a baciarmi su collo, mentre reclinavo la testa, gli occhi vuoti fissi sulle prime stelle del cielo. Le sue mani correvano oltre il sottile tessuto della mia divisa, lungo la mia schiena incandescente più delle sue dita, che bruciavano ogni centimetro quadrato della mia pelle. Poi si spostò sul davanti della mia divisa, cercando di sciogliere il nastro rosso che la cingeva. Lo fermai, e lui mi guardò come una cosa nuova, come se non fossi mai esistita fino a quel momento. Come pensavo… lo volevo con tutte le mie forze, una spina nello stomaco, che sanguinava senza sosta, e che niente avrebbe ricucito, se non lui. Ma, chissà perchè, qualcosa dentro di me… quel qualcosa, presentimento lo avrei chiamato dopo, mi disse qualcosa. Aveva quello strano desiderio verso di me, e questo lo spaventava, gli faceva paura, per questo quanto prima lo avesse accondisceso, tanto prima sarebbe stato libero. Di nuovo, lontano. Lontano da me e da chiunque altro. Non glielo avrei permesso, assolutamente. Questo mi dissi, da stupida qual’ero, mi dissi che lo avrebbe ricordato per sempre, che non sarebbe stato uno sfizio che si stava togliendo, quello con me, come non lo era per me. Gli avrei lasciato un segno dentro, in quello che gli altri chiamavano cuore e lui chissà come cavolo chiamava.

Lo guardai, respirando a fatica, mentre eravamo ancora stretti l’uno dell’altra, e gli sussurrai: “Sono qui, Kaede… non ci penso proprio ad andarmene…”, lui spalancò gli occhi e mi attirò di nuovo a sé, affondando il suo volto nell’incavo della mia spalla. Mi faceva tenerezza vederlo così piegato su di me, lui che non si spezzava mai, lui che sarebbe morto, giocando una partita, un’ultima partita con il destino. Gli accarezzai la nuca, come si fa con un bambino che aveva fatto un brutto sogno.

“Ayako…” sussurrò lui, stringendomi più forte

“Che c’è?” chiesi io, guardando la sua nuca ancora una volta

Non disse nulla per molto tempo, poi si allontanò da me, recuperando la sua altezza solita, e mi guardò dall’alto in basso, come faceva sempre; vuoi perchè era alto un metro e ottantasette, vuoi perchè si considerava superiore a chiunque, ma era il suo sguardo solito. Era sempre così che guardava tutti. Peccato che me ne dimenticai quel giorno, quella dannata sera che avrebbe cambiato la mia vita per sempre, quella sera da cui è nato ogni mio più immenso dolore ed ogni mia più folle gioia, quel giorno io vidi negli occhi blu di Kaede Rukawa… dolcezza, tenerezza, delicatezza, che non avrei mai pensato esistere in lui. E soprattutto non avrei mai pensato che potesse guardare così me…

“Ayako, i-io v-voglio…” balbettò, abbassando la sguardo. Era persino imbarazzato, l’avrei mai detto? Gli misi le dita sulle labbra e gli sussurrai: “Anch’io… anch’io, Kaede…”; bè, era davvero la serata delle stranezze …

Mi mise una mano sul viso, accarezzandomi la guancia con il pollice, e poi mi attirò a sé per il mento. Mi baciò di nuovo, ancora ed ancora. Mi alzai in punta di piedi, cercando di arrivargli più vicina e gli portai le mie braccia attorno al collo. Di nuovo, fui trascinata da quel vortice strano di sensazioni, che mi toglievano il fiato, colori stupendi che nascevano sotto le mie palpebre chiuse. Fiori di fuoco fiorivano sulla mia pelle, dove lui arrivava a sfiorarla, e il loro calore si espandeva soave tra i miei tessuti; iniziò di nuovo a giocare con il fiocco della mia divisa, senza che io provassi anche solo a fermarlo, mentre continuavamo a baciarci. Riuscì a scioglierlo finalmente, mentre iniziava a solleticare i bottoni che chiudevano quella sottile camicetta, troppo sottile per allontanarci l’uno dell’altra, troppo spessa in quel momento nel dividermi da lui. Portai le mie dita sui bottoni circolari della sua giacca, che si aprirono senza difficoltà. Mi guidò verso la panchina che era lì vicina, e mi fece distendere su di essa, non smettendo un secondo di baciarmi, il suo corpo che premeva sul mio e che mi sovrastava. Finì di togliermi la camicia che mi sfilò manica dopo manica, mentre io l’aiutavo, le sue labbra che lasciavo solchi umidi sulle mie labbra, sul mio collo e sul mio seno. I nostri respiri crescevano sempre di più, diventando uno solo, veloce, come il mio cuore che non mi lasciava in pace le orecchie con il suo martellare continuo. Mi strinse più forte, come se temesse che avessi freddo, ma non potevo, non riuscivo a sentire niente di diverso da lui, lì sopra di me. Ripresi ad armeggiare con la sua giacca che cadde per terra, assieme alla maglia bianca che portava sotto; passai le mie dita inaspettatamente gelide sul suo torace scolpito e muscoloso, esattamente come me lo ero sempre immaginata, quando lo vedevo correre per la palestra. Lui prese la mia mano, baciandomi i polpastrelli uno alla volta, lentamente, prima che io riprendessi a baciarlo. Lo sentii passare la mano, lungo la mia gamba, fino ad arrivare all’orlo della gonna; stava per succedere, ormai stava per accadere.

In quei momenti, dovresti sentire una voce, che ti avverte, che ti dice di fermarti, che ti avverte del rischio che stai correndo, ma non accade, mai, non succede mai. Mai succede che una voce d’angelo ti dica nella mente di fermarti, prima che sia troppo tardi, non te lo dicono mai… il Cielo magari pensa che te la caverai da sola e non spreca i suoi preziosi angeli per mandarti un segnale. Non parla mai nessun’angelo custode nel tuo cervello. E tu allora continui come un’idiota e ti incammini a passi lunghi verso la rovina della tua vita. Sono certa, sono sicura che se allora avessi conosciuto già il mio angelo, le cose sarebbero andate diversamente. Ma non fu così: Kaede arrivò sotto quella piccola minigonna a pieghe, mentre io tremavo e spalancavo ancora una volta gli occhi al cielo muto e spaventoso di stelle. Aprii i suoi pantaloni e in un attimo lui entrò dentro di me, senza che neanche me ne accorgessi, cielo e terra che si fondevano, scoppiando in un nuovo big bang. I nostri nomi, pronunciati dalle labbra dell’altro, divennero uno solo, fatto d’aria incandescente che moriva nella bocca dell’altro. Cessò di esistere tutto, in lui, in lui in me, ogni luce moriva e diventava più forte del sole; ogni cosa che ero stata, finì. Non era la prima volta, non lo era, e forse non lo era nemmeno per Kaede… ma fu come la prima volta, davvero. Due, tre volte morimmo l’uno dentro all’altra, finchè lui cadde su di me, poggiandosi sulla mia spalla, il fiato ancora corto. Lo abbracciai forte, mentre una sola domanda mi riempiva il cuore… che ne sarà adesso di me e di te?

 

 

Guardai il soffitto viola, con gli occhi annacquati, e cercai di ricordarmi dove fossi. Non ricordavo dov’ero, come in preda ad una meravigliosa ubriacatura. Sentii un respiro più forte vicino a me, ed allora mi ricordai tutto. Mi voltai di fianco, guardando gli occhi chiusi di Kaede che dormiva placidamente accanto a me, una mano sotto il cuscino. L’altro braccio lo teneva disteso accanto a me, ma non mi toccava, era strano, quando finivamo di fare l’amore, lui evitava persino di toccarmi fino alla volta dopo. Avrei dovuto capirlo allora? Non lo so, magari a qualcuno sarebbe stato evidente, ma a me non lo era. Non lo era assolutamente. Erano due mesi che questa storia andava avanti, che io e Kaede finivamo a scadenze più o meno regolari a letto assieme, senza che nessuno dei nostri amici immaginasse minimamente qualcosa. In palestra, eravamo normalissimi, anzi persino più freddi del solito, ci rivolgevamo pochissime volte la parola, evitavamo persino di sfiorarci. Ma in fondo chi avrebbe potuto capire qualcosa? In giorni ben precisi, quando uscivo dalla palestra, trovavo lui ad aspettarmi e ci incamminavamo piano verso casa mia, in silenzio, io un’ automa incapace di ribellarmi a quella strana malia che lui aveva su di me. E puntualmente eravamo in camera mia. Che cosa eravamo, io e lui? Niente, lo capivo nel suo viso, quando cercavo di portare il discorso su quella domanda. Mi sentivo una stronza a fare questo a Ryota, a farlo ogni giorno, mentre lui continuava a ripetermi da un capo e l’altro della palestra: “Ayakuccia!”, ma non riuscivo ad impedirmelo. In nessuna maniera. In nessun ragionevole modo. Quando ero con lui, mi sentivo viva. Mi sentivo vivere. Pienamente, al massimo, come se fosse l’ultimo giorno della mia vita. E non mi era mai successo.

Amore?

Sarebbe stato troppo facile chiamarlo così… non lo sapevo nemmeno io che diamine fosse, a dirla tutta non l’ho mai saputo con estrema certezza, ma non era solo sesso… c’era qualcosa tra me e lui… era come… come se appartenessi solamente a lui… non so se riesco a spiegarmi… come se avessi un marchio a fuoco nell’anima, che mi faceva ritornare puntualmente da lui… fatalità… ecco, la parola giusta, di nuovo è la dannata parola giusta… non c’era strada diversa da quella che mi avrebbe portato da lui…

Kaede si mosse piano nel letto e spalancò i suoi occhi blu: “Che ore sono?”

Mi sporsi oltre il cuscino per guardare la piccola sveglietta sul comodino, e mormorai: “Le otto e mezzo… devi andare a casa?”… la mia voce mi parve così strana… ormai non mi riconoscevo più… ero un cucciolo nelle sue mani… e pensare che mi ero sempre considerata forte, testarda, e chi più ne ha, più ne metta… addirittura più forte di quello che doveva essere una donna normale…

Lui sporse le labbra, quelle sue meravigliose labbra che amavo tanto baciare, e disse dopo un po’: “No, posso restare qui ancora un po’…”

“Vuoi che ti cucini qualcosa?”

“Non ho fame…”

La sua voce era fredda… ci ero abituata, era sempre così, ma quella volta fece più male. Mi fece spezzare il cuore. Avevo parlato con Haruko quella mattina, e lei stava sempre lì a fantasticare su di lui, rimandando puntualmente il momento in cui gli avrebbe confessato i suoi sentimenti. E, mentre pensavo al grande segreto che mi portavo dentro, mi chiesi se valesse la pena, se valesse la pena rischiare di perdere tutto. Per lui. Quelle poche sue parole sembravano una tacita risposta, un secco diniego.

Ma non ascoltai. Sono testarda. Mi conosco. Non avrei mai ascoltato. Fino all’ultimo.

Mi alzai dal letto ed indossai una maglietta lunga a maniche corte. Era di mio fratello. Come diamine c’era finita sulla poltrona vicino al mio letto? Mio fratello… mi venne da piangere, ma mi trattenni. Cuccioletta fino ad un certo punto, ma piangere davanti a lui nel ricordo del mio defunto fratello, era troppo anche per me. Tirai su con il naso, e mormorai secca: “Se devi rimanere solamente a poltrire, te ne puoi anche andare a casa tua…”… magari, era mio fratello a darmi la forza… un angelo custode?

Mi guardò stranito e mormorò: “Che hai? Sei incazzata?”

“Fai un po’ te…” dissi, andando in bagno e presi a spazzolarmi i capelli davanti allo specchio circolare. Dopo poco, sentii i suoi passi dietro di me raggiungermi; si era messo i boxer, ma era ancora a torso nudo. Mi mise le mani sulla vita, baciandomi dietro l’orecchio, e poi mi chiese: “Che c’è, Ayako?”

Lo guardai dallo specchio, e dissi: “Kaede, che cosa siamo io e te?”

“Che significa?” chiese, staccandosi da me e guardandomi dal riflesso a sua volta

“Significa quello che ho detto…” replicai nervosa, voltandomi per tornare in camera. Lo superai e mi misi ad armeggiare con i miei vestiti: “Non fare l’idiota… mi hai capito benissimo…”

Sentii che mi stava guardando, ma non parlava. Tipico. Non sapeva che dire. O non voleva parlare, come il 90% delle volte.

“Mi sono stancata… di questa situazione…” dissi tutto d’un fiato, non guardandolo ancora “Mi sono stancata di mentire a Ryota e ad Haruko. Non so tu, ma io ci tengo a loro. Tanto. Mi sono stancata di mentire per qualcosa… per qualcosa che non esiste, Kaede…”

“Non ti sei fatta tanti problemi a farlo fino ad ora… che è cambiato?” disse arrogante, la sua voce resa fastidiosa da quel tono consueto, poi si avvicinò a me e mi voltò forzatamente il viso verso di lui, prendendomi per il mento: “E, cazzo, guardami in faccia, maledizione!”

Lo guardai senza farmi tanti problemi; mi teneva forte per il viso e mi faceva male, ma le lacrime che splendevano nei miei occhi non erano per quello.

Sbatté un paio di volte le palpebre e disse, allentando la presa: “Stai piangendo…”

In un altro momento, centinaia di anni fa, gli avrei risposto ironicamente, ma, si sa, il sesso cambia le cose, le confonde e le rende diverse, nebbie luminescenti in un mare di buio.

Mi divincolai dalla sua presa e mi accasciai sul letto, le mani a coprirmi il viso. Non volevo che mi vedesse piangere, non volevo essere debole davanti proprio a lui… magari un altro sì, ma non lui, maledizione, lui che tra quelle lenzuola si sentiva invece così forte… lo sentii sedersi accanto a me e rimanere in silenzio. Poi, piano, mi prese il viso bagnato e lo girò ancora verso di lui: “Guardami…”, e io lo guardai, le lacrime che non volevano smettere di cadere dai miei occhi rossi.

“Non devi piangere, non devi piangere per me… capito?” disse, accarezzandomi il viso “Sarà come tu vuoi… vuoi che lo diciamo agli altri? Vuoi parlare con Miyagi ed Haruko? Fallo… io non ho problemi…”

“Non è questo, Kaede, non è questo…” dissi ancora una volta, ma evidentemente lui non riusciva a capirmi “Io non so che cosa sono io per te… non posso più… sono solo… un tuo passatempo…”

Allontanò i suoi occhi dai miei e disse, gelido: “Non mi sembra nemmeno che io sappia che cosa tu provi per me… quindi siamo pari… per quanto ne sappia, potrei essere anch’io un tuo passatempo…”

“Non è così…” sibilai seria

“E allora cosa?!” ritornò a guardarmi “Cazzo, Ayako, lo vedi?! Lo vedi?! Che cosa dovrei dirti io, allora?!”; si alzò e diede un calcio alla poltrona. Pensai attentamente a lui, ai tempi delle medie e a quanto avevo sofferto per lui, al momento in cui me l’ero trovato di nuovo davanti al liceo, alle partite che aveva giocato e a quello che avevo provato mentre lo vedevo giocare. Pensai a quello che avevo provato in quei mesi, pensai alle sue carezze, alle sue rade parole, a quei momenti in cui mi sembrava che il mondo avesse finito di girare fuori da quella stanza, pensai a quello che rischiavo, continuando questa storia. Fu un attimo, un solo secondo, ma durò in me come mille vite mortali.  

“Io ci tengo a te, tanto, molto più di quanto pensi, Kaede…” dissi, alzandomi in piedi e mettendomi alle sue spalle “Io ti voglio bene, moltissimo, immensamente… ma non so dove questa cosa ci possa portare… e, se tu non senti la stessa cosa, non posso continuare. Non voglio continuare, Kaede.”

Si voltò piano, le lacrime che ormai ristagnavano sulle mie ciglia, e mi accarezzò di nuovo il viso: “Anch’io ci tengo a te, è ovvio…”, le sue parole erano quasi le mie stesse ed identiche frasi, ma non mi fecero effetto. Già allora non mi fecero effetto, non è una riflessione a posteriori, non sentii il sentimento che invece vibrava nelle mie. Non lo sentii, assolutamente. Ma quello era Kaede Rukawa, credo che non sia ancora nata la persona che possa aprire del tutto il suo cuore. In quei giorni, facevo credere a me stessa di poter essere io.

“Facciamo così…” mi disse, accarezzandomi ancora il viso “Appena finirà il torneo nazionale, decideremo che cosa fare… sono nervoso in questo periodo, lo sai…”

Annuii, accompagnando il mio gesto con uno stanco ed inespressivo sorriso: “Voglio parlare con Ryota però… non parlerò di me e di te, se non vuoi… ma non deve ancora illudersi così…”

Lui annuì, mi strinse tra le braccia e mi sussurrò nell’orecchio: “Andrà tutto bene…”. Quello fu forse l’attimo più bello tra me e lui, molto di più dei baci infuocati o di tutto quello che scorreva tra noi. Una parola. Una sola parola, di quelle che lui si rifiutava sempre di dire, mi fece andare avanti per ancora troppo tempo. Troppo tempo. Le parole sono sempre troppo importanti. Anche se sono una bugia.

 

 

Mi misi una mano tra i capelli, cercando di fermarli, mentre il vento li scompigliava, accompagnandoli nel loro volo inquieto con foglie morte, polvere e buste di plastica, immense meduse di un mare inaridito. Il mio cuore era gelido, ghiacciato tra i miei polmoni, e non faceva freddo, faceva persino caldo in quella dolce giornata di giugno. Guardai il cielo turchino e chiesi ancora una volta se era la cosa giusta, se stavo facendo la cosa giusta, ma, come ho già chiarito, di solito non ho grandi risposte da lassù. Sentii dei passi e mi voltai, trasalendo leggermente. Ero alle spalle dell’edificio scolastico, e bè si sa che succede là… risse, scambi di sostanze più o meno lecite, effusioni varie ed eventuali, anche esse più o meno consentite. Il luogo, dove si seppelliscono i segreti degli studenti e dove avrei seppellito il primo dei miei.

“Ciao Ryota…” dissi, simulando un’espressione allegra, alla quale lui rispose con un sorriso tirato. Aveva capito, chiaro… mi conosceva troppo bene, e io non so fingere. Non lo ho mai saputo fare. E poi quel posto… il luogo delle estreme sentenze… o con me o senza di me, mi suggerivano le sue pareti scrostate…

“Volevi parlarmi?” mi chiese, avvicinandosi, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni della divisa. Lui mi ama, sarà una cosa normale con lui, poter urlare che si sta assieme ai quattro venti, andare a prendere un gelato all’uscita da scuola, vedere un film stupido al cinema e piangere come una cretina, passeggiare per i negozi e sorridere davanti alla vetrina di un negozio di giocattoli, farsi offrire una crepe che poi so già che non finirò fino alla fine, perchè la cioccolata mi fa ingrassare, parole stupide a dirmi che non è vero che sono grassa, e sorrisi compiaciuti di quel nuovo vestito, che mi far apparire una taglia più magra.

Scossi la testa ed annuii: “I-io non so da dove iniziare…”. Lo sapevo esattamente da dove iniziare invece, forse non era tanto vero che le bugie non lo so dire… mento da due mesi, in fondo…

“Lasciami indovinare” disse lui, fingendo un’espressione meditabonda “Ti sei innamorata, vero? E di una persona che non si chiama Ryota Miyagi per caso?”

Annuii per semplicità di cose: “M-mi dispiace, Ryota… i-io ti voglio bene, ma…”

“Lo sapevo, lo sapevo da tanto, Ayako…” disse lui, voltandosi di lato e prendendo a calci una pietra, che si infranse poco più lontano “Questi mesi… sei cambiata… sei diversa, sei brava a non fartene accorgere, ma io ti conosco… l’avevo capito, appena mi hai detto che volevi parlarmi…”

“In che senso, sono cambiata?” chiesi invadente, spalancando gli occhi

“Non lo so, sei diversa… lo dovresti sapere più tu in che cosa sei cambiata, Ayako… non te lo devo mica dire io…” rispose tagliente. Giusta obiezione. Peccato che non so nemmeno io in che cavolo sono cambiata. Sono diversa. Questo è un fatto.

“Digli che è fortunato…” mi disse Ryota, prima di voltarsi ed andare via. La tentazione di dirgli di riferirglielo di persona, non appena fosse tornato in palestra, era forte. Un’altra faccia del senso di colpa.

 

 

Per la maggior parte delle ragazze, guardare dei maschi sudati correre dietro ad un pallone era piacere puro per i sensi. Altre avrebbero risposto che invece era una noia mortale, e non avresti potuto dargli torto, specie se le avessi viste con fidanzati più o meno ufficiali, troppo presi dal gioco e troppo poco da loro. In quella categoria, io ero una netta eccezione. Il fatto che avessi una relazione con il giocatore numero uno della nostra scuola non mi impediva di appoggiare stancamente i gomiti sulle gambe e la testa sulle mani, il fatto che fossi la manager della suddetta squadra mi vietava però in maniera inevitabile di potermi distrarre troppo. A volte mi paragonavo ad Hikoichi Aida, che prendeva appunti freneticamente come un pazzo; peccato che a lui piacesse e a me no… disegnai qualche scarabocchio sul blocco degli appunti, mentre la palestra dello Shohoku esplodeva del rumore di un altro canestro, messo a segno dalla squadra avversaria. Stavamo perdendo. Inesorabilmente. Per fortuna, era solo un’amichevole, una specie di allenamento prima dei nazionali. L’altra squadra era proprio forte, e i nostri erano altrove… potevo avere la colpa della distrazione di un solo quinto della squadra ed esattamente del nostro playmaker, ma dubitavo che il resto della squadra potesse minimamente impensierirsi per le mie patetiche vicende sentimentali. E in questa categoria annettevo anche la super matricola, Kaede Rukawa. Sospirai rumorosamente, mentre il Sannoh Kogyo segnava un altro canestro. Erano proprio forti. Ma, per la prima volta nella mia vita da manager, me ne fregava meno di niente; mi portai la mano sulla fronte, mi girava la testa ed era un paio di giorni che stavo male. Quella storia con Kaede era difficile da affrontare, e stranamente ancora più difficile, era rifiutare a me stessa di avvicinarlo e di parlargli. E di toccarlo. Quel tacito patto che avevo siglato con me stessa, era la cosa più complicata che avessi mai fatto, perchè, inutile negarlo e nasconderlo almeno quando parlo a me stessa, avevo enormemente bisogno di lui. Bisogno di potermi appoggiare a lui, quando ero stanca, quando finiva la giornata e ti chiedi ossessivamente che cosa avessi fatto in quelle ventiquattro ore, che fosse meritevole di nota. Sospirai ancora, ero innamorata allora? Guardai Kaede che marcava con tutte le sue forze un giocatore avversario,  che sembrava beffarlo con i suoi continui palleggi… fossi o non fossi innamorata, non era quello il momento. Sarebbe stato il momento, solo quando il basket avesse cessato di esistere dalla faccia della Terra… paradossale, mi ero messa pure ad odiare il basket. Mi prese ancora un capogiro, amplificato a dismisura dalle urla di incitazione di Haruko, Kogure, Mito, Okusu, Noma e Takamiya… almeno la memoria mi era rimasta, per una volta mi ricordai i nomi di tutti gli amici di Hanamichi. Mi alzai e decisi di andare a prendermi qualcosa da bere.

“Dove vai, Ayako?! Mancano tre minuti e siamo sotto di sette punti!” inveì Haruko contro di me

“Appunto, se mi allontano un attimo non c’è rischio che mi perda niente…” dissi acida, mentre Haruko mi guardava, spalancando i suoi occhi azzurri. Certo, cocca, fai anche lo sforzo di capirci qualcosa… non ne verrai a capo, non capisci da un anno che Hanamichi ti viene dietro, figuriamoci se arrivi a concepire che cosa sta succedendo a me.

Iniziai a camminare verso la scuola, per raggiungere il distributore automatico, quando sentii un fischio sordo, alzai il capo, un antifurto? Certo che è proprio potente, mi sta trapanando le orecchie. Quando poi si fece tutto buio, e sentii le gambe piegarsi come gelatina, capii che non era una causa ambientale. Ero solo io che cadevo a terra, come una cretina. Cercavo di aprire gli occhi, ma erano come incollati. E bè, a parte quel fischio, la mia testa rimbombava di voci, una su tutte, quella di Ryota; mi sembra abbastanza semplice escludere che in quelle voci ci fosse l’unica che io volessi sentire. Anche stavolta, aveva un alibi perfetto. Il suo sangue freddo. Mentre giocava, nemmeno la morte di tutto il genere umano lo avrebbe distolto da quella dannata palla.

 

 

Al risveglio, quando si è addormentati, per qualche secondo, prima di riprendere coscienza, ti sembra che i sogni siano realtà, anche nel caso si tratti di incubi infantili o di situazioni assurde. Non vi è mai capitato? Ti sembra che ogni cosa che è accaduta mentre dormivi sia vera, e tantissime volte mi sono risvegliata, preoccupandomi di quello che mi era accaduto in sogno. Quella volta non mi ero propriamente addormentata, ma comunque sobbalzai al mio risveglio, ritrovandomi nel letto bianco di una stanza che non conoscevo; mi guardai attorno spaurita ed ebbi la sensazione che il sogno che avevo fatto, porte aperte su infinite stanze immacolate, fosse vero. Stropicciai gli occhi e feci per alzarmi dal letto, ma mi colse un fortissimo senso di vertigine e un conato di vomito. Corsi verso la porta di un bagno, che vedevo spalancata, ma non riuscii a rimettere e quindi, rassegnata, tornai in camera. Una voce raggiunse le mie orecchie, una voce terribilmente acuta e fastidiosa.

“Stai giù, Ayako!” mi intimò con voce greve e pesante. Riconobbi all’istante quella voce, era l’infermiera Iromi, le mandavo alle volte i ragazzi quando si facevano male. Indossava un camice bianco stinto, che faceva risultare le unghie delle sue piccole mani tozze, laccate di un rosso scrostato. Sembrava un grosso rospo nero, con i suoi capelli appiccicaticci ed informi; i suoi occhi spenti erano coperti da un paio di occhiali dalla montatura di strass bianchi.

“Mi scusi, signorina Iromi… cosa è successo?” chiesi, cercando di essere gentile. Il suo aiuto ci era sempre comodo, specialmente quando i ragazzi si picchiavano a sangue, e, con piccoli regalini, lei taceva di fronte al preside il motivo delle loro continue visite in infermeria. Cercai soprattutto di non insistere sul “Signorina”, lo odiava, ed era abbastanza ovvio, se non era una giovane donna bella e disponibile, ma una vecchia di quaranta anni brutta e zitella.  

“Sei svenuta…” disse lei, accendendosi una sigaretta e sedendosi accanto a me; il fumo mi fece venire la nausea ancora più di prima, e mi portai impercettibilmente la mano alla bocca.

“Ah già…” disse lei, affrettandosi a spegnere la sigaretta in un piattino, il cui originario scopo doveva essere quello di fungere da piattino per il tè. Si alzò e mi guardò con un sorriso finto, come i fiori nel vaso sul comodino; disse solamente: “Si sa che le donne incinte non sopportano gli odori forti…”.

Per qualche secondo, pensai di aver capito male, le chiesi infatti di ripetere. Lei ripeté la frase con sicurezza e con una sorta di ironia cattiva, che rendeva le sue parole simili a qualcosa che non poteva esistere, almeno per me. Mi sta prendendo in giro, come cavolo ha fatto altrimenti? Mi ha fatto una ecografia mentale?

Scoppiai a ridere: “Mi sta prendendo in giro?!”

“Assolutamente no” rise lei di rimando “Ne ho viste tante, tesoro… i sintomi sono sempre gli stessi… e tu sei perfettamente il tipo da avere un rapporto, senza precauzioni, diciamo così, và…”

La mia risata iniziò a perdere vigore e chiesi: “Sì, ma non è il mio caso… io sono solo stanca, glielo garantisco, adesso devo tornare in palestra, i ragazzi stanno giocando…” e feci per alzarmi.

“La partita è finita, ed hanno perso… 115 a 104…” rise ancora lei, incrociando le braccia e guardandomi dall’alto in basso “Tiro anche ad indovinare… il padre è uno di loro? Aspetta, aspetta, non dirmelo! Hisashi Mitsui, vero? Era una specie di teppista, quindi ti piace fare la donna del boss…”. Mi alzai di scatto e chiusi la porta violentemente, quella donna che rideva ancora.

 

 

Non tornai in palestra, non volevo vedere nessuno. Pensai che potevano venirmi a cercare, che potevano essere preoccupati, ma certamente Kaede, al termine di quella sconfitta, non avrebbe pensato a me, fino a quando non avesse dato la colpa di quell’insuccesso a tutto il resto della squadra. Il che, almeno stavolta mi faceva piacere, estremamente piacere… uscii da scuola, fuori c’era ancora un gruppetto di ragazzi del Sannoh Kogyo, che commentavano la partita, ridendo sguaitamente. Uno di loro sollevò lo sguardo e mi additò ai suoi amici, dicendo ad alta voce: “Quella non è la puttanella dello Shohoku? Che c’è, bambolina, ti sei agitata e sei svenuta?”

Mi voltai a guardarlo, apparentemente senza alcun interesse… potrei essere incinta… una rabbia furiosa mi raggiunse le mani, che si contrassero febbrilmente, feci qualche passo e lo affrontai a viso aperto: “Che cazzo vuoi? Ce l’hai con me?”

Lui strinse le labbra e mi spinse via, puntellando le sue braccia sulle mie spalle, ridendo ancora. Lo guardai ancora con indifferenza…“Andrà tutto bene…”… mi scagliai contro di lui, furiosa, e gli diedi un calcio all’inguine. Quello si piegò in due dal dolore, piangendo e i suoi amici mi guardarono collerici, muovendosi verso di me. Che diamine stavo facendo? Mi sentii afferrare alle spalle e mi voltai di scatto, spaventata. Era Mito.

“Scusatela!” disse sorridendo a mò di scusa a quei ragazzi che lo guardarono, senza capire “E’ molto nervosa! Siete stati bravi! Ottima partita!”, mi prese per un braccio e mi trascinò via, mentre quelli continuavano ad imprecare al nostro indirizzo.

“Non farla tanto lunga, se ti ha fatto tanto male lei, se ti prendo io a calci che succede?” urlò verso di loro, continuandomi a tirare fino fuori al cancello. Sospirai di sollievo, mentre le loro urla si spegnevano.

“Che cavolo t’è preso Ayako?” mi chiese, non appena usciti fuori, mentre si portava la mano alla fronte, sollevato “Meno male che ti ho vista, altrimenti… come stai?”

“Bene” mentii spudoratamente, rincarando la dose: “Alla grande”

“Hanamichi e Miyagi ti stavano cercando…” disse, affondando le mani nelle tasche “Te ne sei andata dall’infermeria? Che avevi allora?”

“Niente” dissi nervosa, abbassando gli occhi “Hai visto Kaede per caso?”

“Rukawa? Sì, se ne è andato… mezz’ora fa, più o meno…”

Perfettamente consono. Adesso scaricava la rabbia da qualche parte. Io? “E’ solo svenuta, mica è morta…”; o meglio la frase adatta sarebbe: “Ayako? Ayako chi? Quella che mi faccio una volta ogni tanto?”

“Io adesso me ne devo andare… puoi avvisare tu Hanamichi e Ryota? Adesso sto bene, davvero…” dissi poco convinta. Annuii e io mi allontanai, camminando velocemente. Devo togliermi questo dubbio, mi dissi. Calma, Ayako, cerca di essere razionale. In fondo, l’infermiera non sembra nemmeno laureata ed è una poveraccia, se vai a vedere si diverte a far sobbalzare per invidia tutte le ragazze innamorate… innamorate, ormai lo ammettevo pure a me stessa… che bello, mi ero pure innamorata di Kaede Rukawa…

Arrivai nella strada principale della città e camminai velocemente, ancora un po’, la gente che mi guardava strana. Non mi ero nemmeno cambiata, avevo lasciato tutte le mie cose in palestra, che cretina… mi fermai di botto sotto l’insegna luminescente di colore verde… una farmacia… assomigliava a quella del Peppermint milk… mi sembrano secoli fa…

Respirai profondamente un paio di volte, ma, nonostante questo, ci misi venti minuti buoni prima di entrare. Come un’idiota, mi fermai a vedere una vetrina, poi mi feci un giro del palazzo, poi mi presi un caffè. Alla fine, mi trascinai dentro la farmacia. Il bancone era abbastanza lontano ed affollato, ed ebbi tempo di guardare da tutte le angolazioni il manifesto che promuoveva la nuova lozione per la perdita di capelli. Finalmente, l’ultimo cliente pagò le sue preziose pillole per la circolazione e una signora bionda ossigenata mi guardò annoiata e chiese: “Mi dica…”

Pigolai qualcosa, e lei mi chiese di ripetere, sollevai lo sguardo e dissi, nervosa: “Un test di gravidanza, per favore”

Lei, senza scomporsi, si voltò ed aprì un cassetto, uscendo fuori uno stretto parallelepipedo bianco, mi disse il prezzo e mi salutò con un asettico: “Buonasera…”. Lei sì che poteva dire di vederne centinaia al giorno di ragazze che ordinavano test, fingendo che fosse per una loro amica, per la loro mamma ultracinquantenne, oppure atteggiandosi a grandi donne di mondo, scuotendo i riccioli, che coprivano i loro occhi infantilmente rossi di lacrime, pesti di ombretti scuri, che fingessero dieci anni di più.

Uscì fuori correndo, adesso avevo freddo… un gelo che mi penetrava nelle ossa… corsi fino a casa, senza fermarmi, se non per aprire la porta. La chiusi e mi appoggiai stancamente contro di essa. Gettai le chiavi sul tavolo, e corsi in bagno.

Mentre aspettavo il risultato, chiusi gli occhi. Calma, Ayako, calma… andrà tutto bene, come erano odiose adesso quelle parole, che cazzo volevano dire? Niente può andare tutto bene, mai, se va tutto bene, vivremo in paradiso. Ma se poi è possibile che qualcosa vada bene, domani vedo Kaede e gli dico che sono innamorata di lui e che voglio stare con lui e che non voglio nascondermi più. Se poi va tutto male, bè si sa… o meglio non ne ho la minima idea… quanti sono cinque minuti? Guardai l’orologio, cercando di non sbirciare intanto il test, che giaceva accanto a me. Solo un minuto? Ma quanto cavolo ci vuole?

Finalmente il tempo passa. Finalmente sollevo lo sguardo. Finalmente prendo il test tra le mani.

Due linee. So esattamente che cosa vogliono dire. Lo so esattamente, l’ho letto cinque volte prima. Ma rileggo la scatola, di nuovo, una, due, venti volte, ma l’incarto del test si bagna di lacrime.

Positivo.

Alzo gli occhi. Sulla mensola dello specchio, c’è appoggiato uno spazzolino verde.

“Ho lasciato lo spazzolino a casa tua”… un maledetto e fioco sussurro, senza significato… lo prendo tra le mani, poi lo getto con violenza contro lo specchio. Sono proprio forte. Ho rotto lo specchio. Raccolgo i frammenti e mi taglio il dito. Le mie mani si sporcano di sangue e lacrime, sale che brucia la mia anima.

 

Non lasciarmi qui,

con il calore delle tue mani addosso,

anche se poi domani quel treno… partirà…

Non restare, vai,

se devi farlo, ti prego, fallo adesso,

anche se poi domani chissà…

Perché l’allegria, la nostalgia, la voglia che ho di te,

tutto è qui dentro, qui dentro di me…

 

Continua ad amarmi,

continua a cercarmi,

continua a ballare su di me,

che strana è la vita, ma guarda com’è…

una luce scompare nel buio che c’è…

e continua… continua…

continua a parlarmi ancora un po’ di noi, di noi…

 

Non andare via,

ho voglia di dormire tra le tue braccia,

anche se poi domani chissà…

Perché l’allegria, la nostalgia, la voglia che ho di te,

tutto è qui dentro, qui dentro di me…

 

Io e te, distrattamente, io e te,

stupidamente,

e poi che ne sarà di noi…

io e te, immensamente, io e te,

continuamente,

e poi che ne sarà di noi…

 

(Dolcenera – Continua)

 

 

Finalmente sono riuscita ad aggiornare! La verità è che sto scrivendo una fic su Harry Potter, che mi sta prendendo molto ed allora non ho molto tempo per il resto, anche se sono molto legata a questa storia! Credo che sia la cosa migliore che abbia fatto, sono molto modesta lo so! Spero che questa storia vi stia piacendo, anche se non è molto, diciamo, “convenzionale” rispetto alle altre di Slam Dunk! Non so quando arriverà il prossimo chappy, come sempre del resto! Sono molto indaffarata, specie dal punto di vista mentale! Ho milioni di idee, e dovrei avere una giornata di 75 ore per fare tutto! Un mega ringraziamento ad Apple, Sasa, Marchia… e per Lollo, che significa “eddaiii!!”, lo devo prendere bene? Ciao ciao da Cassie chan!

   
 
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