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Autore: Sylphs    06/03/2012    2 recensioni
Ehilà! Ho scritto questa favola un po' folle quando avevo 14 anni ed è in assoluto il primo romanzo che ho finito a quell'epoca, perciò ho deciso di tentare la sorte e pubblicarlo su efp, confido nella vostra pietà :) la storia si ispira alla mia fiaba preferita, "La bella e la bestia", salvo che la protagonista è un peperino ed è tutto fuorché una graziosa fanciulla. Spero che qualcuno leggerà!
Genere: Azione, Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 7

 
 
 
 
 
 
Le settimane seguenti furono anche peggiori di quel primo giorno. Se Isadora aveva pensato che sarebbe cambiato qualcosa, nel tempo, beh si sbagliava.
Ogni mattina doveva alzarsi alle cinque, indossare i suoi vestiti sudici, consumare la ben magra colazione con Katrina e prendere da sotto la terza gamba del tavolo l’onnipresente foglio con su scritti gli ordini del giorno, ogni volta più faticosi e difficili. A quel punto si mettevano al lavoro nel disperato tentativo di dare una pulita a quel maniero in decadenza. Nessuna delle due poteva mai uscirne.
Isadora cominciò ben presto a odiare quel foglio che era costretta a leggere, quelle anguste camere che era costretta a pulire, quei compiti sadici. Ma soprattutto odiava l’orco. Non era che un’ombra che vedeva solo di sera, quando gli preparava la cena. Aveva sempre da lamentarsi di qualcosa e in più di un’occasione le urlò contro. Qualsiasi cosa lei facesse, le trovava sempre qualcosa da ridire. Se aveva pulito bene e aveva cucinato decentemente, non diceva nulla e non le riconosceva l’impegno. Se, nella maggior parte dei casi, aveva sbagliato qualcosa, andava su tutte le furie.
L’unica presenza amica rimase quella di Katrina, che divenne a tutti gli effetti la sua nume tutelare. Isadora si appoggiava a lei per qualunque cosa, e la sua compagna la aiutava come poteva.
Il marchese non tornò mai a salutarla. A volte si metteva alla finestra, la sera, e guardava fuori sperando di vederlo comparire. Ma lui non c’era mai. Finiva per tornarsene tristemente in camera sua. La sua vecchia vita le appariva di giorno in giorno più lontana: aveva dimenticato il sapore del cibo vero, il calore del sole, la soddisfazione di indossare un bel vestito. Era stata imprigionata in quel lugubre affresco e ora, volente o nolente, ne faceva parte. Ma non riusciva ad adattarsi. Sentiva che quello non era il suo posto: non era nata per fare la sguattera, per essere maltrattata e irrisa di continuo.
Un altro enorme problema era Bruto. Lui e Isadora si erano presi in antipatia, ma mentre lei lo evitava, lui le faceva mille dispetti, sentendosi disprezzato. Non c’era modo di scacciarlo, e Katrina non poteva aiutarla.
Una volta, per esempio, comparve mentre Isadora era china sul vasto pavimento dell’atrio, intenta a fregarlo con uno strofinaccio pieno di sapone. Era esausta e nervosa, con la bandana di traverso e il grembiule ben rimboccato sulle ginocchia. I piedi, dentro gli zoccoli, li aveva fasciati con bende ricavate da un qualche straccio, per proteggerli dalle vesciche. Mentre strofinava con furia quel pavimento sporco, logorandosi le ginocchia e le braccia, udì il solito abbaio che preannunciava la venuta di Bruto. “Oh, no” pensò.
Il grosso meticcio nero apparve sulla soglia e rimase lì a osservare la ragazza inginocchiata sul pavimento. Isadora si sforzò di ignorarlo e immerse lo strofinaccio nel secchio pieno di acqua insaponata che aveva posto lì vicino, poi lo strizzò, e ricominciò a pulire. Bruto, con aria dispettosa, entrò e lasciò impronte nere sul pulito. Al che Isadora, già abbastanza nervosa, depose a terra lo strofinaccio, si alzò e sbottò: “Và via, Bruto!”
Ma quello niente. La ragazza si rimboccò la gonna e gli venne incontro con aria minacciosa: “Ti ho detto di andar via, stupido cane!” fece la mossa di dargli un calcio, ma lui balzò all’indietro agilmente. Isadora strinse minacciosamente gli occhi azzurri: “Allora vuoi la guerra, eh?”
Provò ad acchiapparlo buttandosi in avanti, ma lui fu più lesto e le sgusciò fra le gambe, facendola inciampare. Con un grido, Isadora scivolò sul pavimento bagnato e crollò a terra con un tonfo, impigliandosi nel grembiule. Mentre ansimava per liberarsi, Bruto corse in direzione del secchio pieno. La ragazza sgranò gli occhi: “Bruto, no!”
Divertito, lui colpì con la coda il secchio e lo rovesciò sul pavimento. L’acqua schiumante si sparse a terra. Isadora rimase inorridita: ci aveva messo ore a fregare la saponetta nell’acqua…dopo un primo attimo di disperazione, sopraggiunse una collera mortale nei confronti dell’artefice di quel pasticcio. “Questa me la paghi, maledetto!” stavolta gli si lanciò addosso a sorpresa e avvinghiò le dita sulla sua folta pelliccia. Con un abbaio di sorpresa, Bruto si scosse per liberarsi. Isadora strinse la presa: lottavano, lei gridando, lui abbaiando, un mucchio confuso di pelo e stoffa che si dimenava sul pavimento. Isadora si infradiciò i vestiti rotolandosi nel punto in cui il secchio era caduto. Pensò a come si era ridotta: se la prendeva con un cane…ma questo non diminuì la sua rabbia.
Fatto sta che il portone d’ingresso si spalancò di colpo e l’orco apparve nell’atrio. Isadora rimase a bocca spalancata per la sorpresa: era solo primo pomeriggio, e lui tornava sempre la sera. Bruto, furbo, sgattaiolò via con aria innocente, lasciando la ragazza a terra, tutta scarmigliata e fradicia, in mezzo al lago d’acqua. Arrossendo violentemente, scattò in piedi e tentò senza risultati di ripulirsi un po’: “Posso spiegare…”
“Allora fallo” sibilò l’orco. La fissava glaciale, a braccia conserte, come ogni volta che ne combinava una. Lei provò disperatamente a giustificarsi: “Bruto mi ha…”
“Scaricare la propria inettitudine sugli altri non ti aiuterà” replicò l’orco, secco. Isadora trasalì, come ogni volta che veniva rimproverata. Avvertiva un potente senso di umiliazione, ma stavolta, con esso, c’era anche la rabbia. Lui storse le labbra in una smorfia di disgusto: “Ogni giorno che passa peggiori sempre di più. Speravo che si riuscisse a cavare qualcosa di buono da te, ma a quanto pare mi sbagliavo”.
Isadora taceva, paonazza. L’orco diede un calcio al secchio rovesciato, scagliandolo lontano: “Mi aspetto che tu ripulisca questo pasticcio da cima a fondo, chiaro?”
La fissò, ma lei non disse il solito “sì”. Si fece fosco in viso: “Chiaro?” ripeté alzando la voce. A quel punto, lei decise di buttarsi. Quel che è troppo è troppo: stavolta non era nemmeno colpa sua! Così alzò gli occhi, li fissò in quelli ardenti dell’orco, e superando la paura sbottò: “No. Ci sono molte cose che non mi sono chiare. Primo: perché non mi viene riconosciuto niente di quello che faccio. Secondo: perché non vengo mai creduta. Terzo, il più importante: una moglie non è una sguattera”.
Sentiva le guance in fiamme, e un curioso senso di esaltazione in petto. Ce l’aveva fatta! Si era ribellata! Però…lui cosa le avrebbe fatto?
L’orco era rimasto immobile durante tutto il discorso. Fremeva di rabbia, e parve quasi sul punto di alzare le mani su di lei, cosa che, meno male, finora non aveva mai fatto. Poi però si dominò, serrò i pugni e ringhiò: “Non devo giustificarmi con te, ragazza. Questa è casa mia, si fa come dico io”.
“Ora è anche casa mia!” dichiarò coraggiosamente Isadora. L’orco digrignò i denti: lei ne udì lo scricchiolio minaccioso: “Dovrei trascinarti in soffitta per i capelli e lasciarti lì tutto il giorno, così la smetteresti subito di fare l’impudente. Ma mi servi. Perciò dimenticherò quello che mi hai detto”.
Isadora lo fissava accigliata. Lui riacquistò quasi subito il suo contegno glaciale: “Domani sera ho invitato qui alcuni amici. Dovrai cucinare la cena per tutti noi, le indicazioni le troverai sul foglio”.
“Verranno qui altri…orchi?” Isadora dimenticò per un attimo la sua ribellione, stupita. Non c’erano mai stati ospiti, da quando era arrivata. Il pensiero che il maniero avrebbe presto pullulato di copie del marito la riempì di inquietudine. L’orco annuì seccamente: “Non ti scuserò incurie, domani sera. Dovrà essere tutto perfetto, e tu mi obbedirai. Ti concedo una grande fiducia, considerati i tuoi recenti insuccessi: vedi di meritartela, ragazza”.
Se ne andò di nuovo, lasciandola lì. Isadora gli gridò dietro: “Per tua informazione, mi chiamo Isadora!”
 
“Ha invitato i suoi amici?” chiese Katrina allarmata, dopo che Isadora le ebbe raccontato della notizia. La ragazza annuì: “Una brutta notizia?”
“Il padrone pretenderà il massimo da noi” sospirò la vecchia domestica: “Dovrai impegnarti molto a cucinare quella cena”.
“Vorrà che mi sieda a tavola?”
“No, ma sei uno spuntino prelibato per quella gente” Katrina era davvero preoccupata: “Cerca di sembrare il meno attraente possibile. Mettiti i tuoi soliti vestiti e sporcati la faccia, poi indossa intorno al collo una treccia d’aglio”.
Isadora tremò al pensiero di rischiare d’essere mangiata. In effetti era meglio ubbidire all’orco per evitare che la consegnasse di sua volontà ai suoi amici. Così ripassò ciò che aveva imparato circa l’arte culinaria in quelle settimane e stette a pensarci a lungo, anche a letto.
Il giorno dopo l’orco se ne andò prima del solito e le due donne si videro sole ad affrontare quella cena da preparare. Il foglio che aveva lasciato loro era molto lapidario. Isadora lo lesse corrugando la fronte: “Apparecchiare per otto in sala da pranzo, cucinare carne arrosto, pane abbrustolito, spezzatino di cinghiale e patate arrostite”.
“Cominciamo” disse Katrina, prendendo l’occorrente dalla credenza. Isadora aprì tutti i cassetti alla ricerca del sacco delle patate. Trovò una tarantola e un ratto ben diverso dal suo Armageddon e si affrettò a chiudere i cassetti che li ospitavano. Ormai non si stupiva più di nulla. Alla fine trasse dal cassetto giusto il pesante sacco di tela e lo appoggiò con sforzo sul pavimento: “Quante ne dobbiamo fare?”
“Il più possibile” le rispose Katrina che stava già abbrustolendo il pane: “È raccomandabile che non rimangano affamati”.
Isadora annuì, prese dalla parete un coltello piuttosto piccolo e si inginocchiò sul pavimento per pelare le patate. Lo fece con molta attenzione, decisa stavolta a guadagnarsi una lode. Solo adesso ricordava le parole di Natalie, che per tutto quel tempo aveva tentato di scacciare: “Sii brava e servizievole, e ti faciliterai alquanto la vita”.
Passò diverso tempo a sbucciar patate che poi riponeva su di una teglia di metallo, resistendo alla tentazione di mangiarle anche crude. In quel periodo era diventata più magra, e le sue guance tonde si erano fatte scarne. Poi, dopo che ebbe pelato una gran quantità di patate, le raccolse in una pentola annerita e le tagliò in spicchi perfetti, che insaporiva con ciuffi di rosmarino e di altre erbe. Con un acciarino diede vita ad un fuocherello su cui mise a cuocere le patate.
Lo spezzatino fu più impegnativo. Prima dovette macellare la carne di un altro cinghiale, attenta a farlo bene, poi cucinò una salsa saporita che sparse in gran quantità sulla carne cotta. L’odore la fece mancare: aveva davvero un’aria appetitosa. Con la scusa di controllare se era caldo, ne prese una cucchiaiata e se la infilò in bocca. Un fuoco d’artificio le esplose sul palato. Era buonissimo, così buono che le salirono le lacrime agli occhi. Il suo stomaco faceva le fusa: erano giorni che consumava solo pane e zuppa di lenticchie.
“Che buon profumino!” commentò Katrina, di ritorno dalla sala da pranzo. Guardò con malcelato desiderio lo spezzatino fumante: “Ha un’aria appetitosa”.
“Prendine un pezzo” la incitò Isadora, porgendole il cucchiaio. Alla domestica prese un colpo come se le avesse appena chiesto di ascendere in paradiso: “Non posso! È per il padrone e i suoi ospiti!”
“Oh, andiamo, Katrina” borbottò Isadora, premendole la carne sulle labbra che già si schiudevano: “Un pezzo non fa differenza…” la osservò masticare la carne al rallentatore per godersi al massimo il piacere. I suoi tratti si distesero in un’espressione di pura beatitudine. Alla povera vecchia mancò il cuore e si appoggiò contro la parete. Una lacrima le sfuggì dall’occhio e si infilò in una ruga profonda. Alla fine parlò, con voce appena udibile: “Avevo dimenticato quanto era buono il cibo. Non mangiavo una cosa simile da quando…da quando avevo la tua età”.
Scoppiò in un pianto dirotto. Isadora la circondò con le braccia e le permise di sfogare la commozione. Infine Katrina tornò in sé, raccolse con la punta delle dita le ultime lacrime e le rivolse un sorriso tremante: “Grazie…”
“Prendiamone un altro pezzo” propose Isadora. Il secondo assaggio fu un altro colpo per entrambe. Alla fine, quando ripresero a cucinare, Katrina guardò adorante la giovane compagna: “Tu sei come una luce, Isa. Una luce che ha portato splendore in questo castello e nel mio cuore…ora il buio è ancora denso e non riesci a illuminarlo…ma accadrà molto, molto presto. Hai portato la bontà in un luogo di cattiveria. Io non sapevo nemmeno cosa fosse la vita, prima che tu arrivassi…l’avevo dimenticato”.
Isadora pensò di non meritare quelle lodi. Una luce? Si sentiva fin troppo al buio. Finì di cucinare il gustoso spezzatino, tentata di prenderne ancora un po’, mentre Katrina preparava la carne arrosto. Come due vecchie amiche, presero di nascosto una delle patate arrostite, la divisero e la mangiarono assaporandone la scorza croccante. Isadora fece rosicchiare un po’ della crosta del pane ad Armageddon.
Poi apparecchiarono la tavola. Mentre disponevano in bell’ordine piatti e bicchieri, completando il tutto con candele e centrotavola, Isadora chiese a Katrina se si era sistemata bene. Indossava i suoi soliti vestiti da sguattera, ma si era imbrattata viso e mani di sporco e coperta del tutto la chioma bionda col fazzolettaccio. Al collo le pendeva una collana d’aglio. Katrina la scrutò a lungo con evidente apprensione: “Hai fatto bene, anche se, a parer mio, resti comunque molto carina…speriamo bene”.
Avevano appena finito di apparecchiare, che scorsero, fuori nella foresta, un gruppo di massicce sagome che si avvicinava al maniero. Katrina deglutì: “È ora”.
Le due donne si misero in sala da pranzo, tutte in riga, immobili come baccalà, mentre un frastuono tremendo di passi infuriava da sotto. Isadora rabbrividì: “Mi chiedo come facciano ad avere tanto successo a caccia: con quel passo faranno scappare tutti gli animali”.
“Sanno essere molto silenziosi quando vogliono” le bisbigliò Katrina.
Insieme ai passi si sentì un brusio di voci cavernose che sghignazzavano e parlavano fra loro. Tra di esse, Isadora riconobbe quella del padrone. Katrina le soffiò: “Sei troppo tesa. Non devi mai mostrare paura, con loro, specialmente se sei giovane”.
Isadora si sforzò di tenere a bada il panico. La porta della sala da pranzo venne brutalmente aperta e un gruppo di orribili ceffi, uno più minaccioso dell’altro, comparve in sala da pranzo. A far strada al corteo c’era l’orco, già di per sé spaventoso, ma Isadora dovette ammettere che alcuni dei suoi amici lo superavano. Erano tutti vestiti rozzamente e avevano ghigni malvagi stampati sulle facce allegre. C’erano orchi col naso schiacciato e la bocca larga, orchi molto nerboruti, orchi tatuati e orchi che esibivano con orgoglio armi di vario tipo che portavano addosso come se niente fosse. C’erano anche due orchesse, ma erano così androgine che Isadora riconobbe loro un’effettiva femminilità solo grazie ai vestiti lunghi e ai seni formosi. Un lungo brivido le percorse la schiena, e sentì la mano di Katrina stringerle il braccio con aria confortante.
Gli orchi si azzittirono di colpo quando le giunsero di fronte. Si sentì fissata dai loro occhi famelici e abbassò prontamente i suoi, sull’orlo dello svenimento. Un orco con una lunga cicatrice bianca in fronte biascicò con voce rude: “Non ci avevi detto che questa piccola umana era così appetitosa”.
“Già” si aggiunse un altro orco, così alto da arrivare quasi ai tre metri: “Niente a che vedere con la tua vecchia e sciupata domestica. Proprio una bella cenetta, eh, ragazzi? Come la vogliamo cucinare?”
Isadora provò un nodo di terrore che le serrò il petto in una morsa. Tuttavia, a sorpresa, il padrone di casa si adombrò e borbottò: “Lei non è da mangiare” poi, rivolgendosi alla ragazza col solito tono di comando, le disse: “Porta la cena”.
Lei fu ben lieta di potersi eclissare in cucina. Una volta lì, fissò Katrina con uno sguardo stralunato: “Quei brutti ceffi vogliono mangiarmi!”
“Non oseranno” la rassicurò Katrina: “Non finché sei qui. Non provocherebbero mai chi li ha ospitati in casa sua”.
Questo non la rassicurava affatto. Forse, però, l’ottimo spezzatino li avrebbe distratti dalla loro fame di lei. Prese il vassoio che lo conteneva, mentre Katrina recava le patate abbrustolite e il pane caldo. In sala da pranzo, gli orchi si erano tutti accomodati a tavola e ridevano sguaiatamente. Erano più brutti del solito. Tremando convulsamente sotto l’abito da sguattera, Isadora portò loro lo spezzatino e si fece leggermente da parte. Il padrone di casa si sporse, afferrò il vassoio, lo trasse a sé e prese una forchettata di spezzatino. Isadora aspettò di sentire la solita sfuriata. L’orco masticò a lungo, come se si stesse concentrando per trovargli qualche difetto. Poi, però, si limitò a rivolgersi alla tavolata: “Possiamo incominciare”.
Eccitata, Katrina afferrò Isadora per le spalle e la fissò dritto negli occhi: “Complimenti, Isa!” le disse a bassa voce: “Il tuo spezzatino ha superato l’esame!”
Ma lei era troppo spaventata per gioire di quella conquista. Gli orchi, infatti, sebbene mangiassero avidamente lo spezzatino, la cercavano con gli occhi, riempiendola di un desiderio insistente. Si sentiva come un’enorme salsiccia. Mentre passava per togliere qualche piatto sporco, una delle due orchesse la agguantò per il braccio, facendola trasalire, e le rivolse uno sguardo aspro: “Ha paura, Mildred” biascicò rivolta alla vicina di posto: “È così spaventata che le posso contare le goccioline di sudore sulla fronte”.
Isadora, terrorizzata, tentò di liberare il braccio. Ma la mano dell’orchessa vi si serrò, implacabile. L’altra, Mildred, ghignò come una iena: “Guarda, sta provando a filarsela. Ehi, ragazzina, la sai una cosa? Ti sei cacciata in questa situazione per un padre che se ne frega alla grande di te”.
Isadora saltò su come se l’avesse punta. “Cosa stai dicendo?”
“Lui ci ha detto tutto di te” sibilò l’orchessa che la teneva per il braccio, indicando l’orco a capotavola: “Che storiella commovente la tua, eh, marchesina Isadora? Ehi Mildred, secondo me si sente malissimo a dover indossare quei vestiti che si ritrova”.
“Ti sei ridotta proprio male” proseguì Mildred con cattiveria: “E mentre tu languisci in questo castello, sai cosa fa tuo padre? Se la gode un mondo tra gli agi di Soledad, infischiandosene di te!”
“Non è vero!” senza rendersene conto, aveva urlato, ma quando ci fu silenzio ed ebbe l’attenzione generale, era troppo tardi. Rossa in viso, ripeté rivolta alle due orchesse: “Non è vero che mio padre se ne infischia di me!”
“E allora perché non è mai venuto a trovarti?” sibilò l’altra orchessa. Isadora, però, continuò a scuotere la testa e ripeté: “Non è vero!”
“Questa ha l’aria di piantare un sacco di grane” intervenne l’orco sfregiato. Isadora sussultò e si girò a fissarlo. L’orco più alto fece un sorriso astuto: “Secondo me è più utile arrostita che viva. Quanto vuoi per lei? Venti fiorini? Cinquanta? Ho una signora per cena domani, con lei come piatto forte farei una gran bella figura”.
“Naa, non li vale cinquanta fiorini” biascicò lo sfregiato: “Direi dieci al massimo. A parer mio è insipida”.
“Un pizzico di sale ed è fatta” rise Mildred.
Isadora ascoltava con orrore crescente quelle offerte mostruose sulla sua vita, sempre più sconvolta e furiosa. Guardò l’orco, aspettandosi che li mettesse a tacere: ma lui restava immobile a capotavola e le riservava uno sguardo scocciato, come se fosse colpa sua se gli altri si comportavano così.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Di colpo tornarono a galla l’umiliazione di quei giorni, la fatica dei suoi compiti, i pasti esigui al massimo, i rimproveri sadici, e ora quella terribile trattativa. Una rabbia cieca l’assalì, meravigliandola per la sua potenza. Era diretta perfino contro suo padre.
“Ne ho abbastanza di questo posto!” pensò, uscendo di corsa dalla sala da pranzo. Non sapeva cosa stava per fare, non sapeva nemmeno cosa voleva: era mossa solo dall’istinto, e da quella rabbia esplosa all’improvviso. Corse con un’aria da insensata nella sua stanza, dove si liberò furiosamente degli abiti da sguattera, facendoci la lotta. Armageddon comparve da sotto il letto, stupito. “Ce ne andiamo di qui” ringhiò Isadora. Non importava dove sarebbe andata, cosa avrebbe fatto: bastava allontanarsi da quel maniero orribile. Tirò fuori dal baule uno dei suoi vecchi vestiti, che era di seta blu, e lo indossò in fretta. Poi si gettò un vecchio mantello sulle spalle, si mise il cappuccio e si fissò furiosamente la fede di legno al dito: se la tolse e la gettò a terra con violenza. Rimbalzò sulla pietra e finì lontano. Isadora gioì. Finalmente avrebbe riconquistato la libertà che le era stata tolta. Ne aveva davvero abbastanza.
“Vieni, Armageddon: torniamo a casa” prese lo stupefatto topolino e lo infilò al caldo sotto al mantello. Suo padre l’avrebbe riaccolta, volente o nolente. Al che spalancò la porta della camera e uscì con espressione furiosa, il mantello che le sbatteva sulle gambe.
A metà strada incontrò Katrina. La domestica era corsa a vedere come stava, preoccupata da quell’improvviso cedimento. Bastò un’occhiata agli abiti da viaggio, alla sua espressione, perché capisse. Una disperazione senza fine le contrasse il viso: “Non farlo, Isa” la implorò, correndole dietro mentre si dirigeva a grandi passi verso il portone d’ingresso: “Non prendere decisioni affrettate”.
“Questa è l’unica cosa giusta che faccio da quando sono arrivata qui” rispose la ragazza con furia. Gli occhi strabici di Katrina si fecero lucidi. La afferrò per il mantello: “Ma io ti voglio bene! Non lasciarmi sola di nuovo, ti prego! Ho bisogno di te!”
L’espressione di Isadora si ammorbidì leggermente, ma continuò a marciare verso il portone: “Mi dispiace, Katrina, ma non intendo restare qui un minuto di più. Si è passato ogni limite”.
“Ti prego, Isa…”
“No. Non mi farai cambiare idea. Addio” e aperto il portone, uscì dal maniero senza aggiungere altro. Katrina restò immobile, svuotata.
Il freddo della notte ghermì Isadora senza pietà, riempiendola di brividi. Si strinse nel mantello. Il vento soffiava con furia sulla foresta, facendo stormire le fronde degli alberi scuri e scompigliandole i capelli. Armageddon si avvolse più stretto nel mantello. Isadora non si fece scoraggiare da quel gelo e si allontanò in fretta dal maniero, infilandosi tra i rami. Battendo i denti, disse rivolta al topolino: “Non temere, Armageddon. Non sono questi spifferi a farci paura. Ora siamo liberi!”
Vagò alla cieca tra gli alberi. Il vento era così forte e così gelido che tremava convulsamente, le braccia serrate sul petto come per proteggersi. Le labbra e il naso le divennero rapidamente bluastri. Sebbene fosse così stanca, umiliata e intirizzita, provò a ragionare: “Soledad è a sud. Se solo fosse giorno, potrei orientarmi col sole!”
Sollevò il viso. La stella della sera scintillava sopra la sua testa, illuminando le torri appena visibili del maniero. Doveva soltanto andare nella direzione opposta, si disse. Mosse qualche passo rigido e debole. Il vento stavolta le soffiava proprio contro, scagliandole il mantello all’indietro per pungerle il corpo come mille spilli. Con il solito altruismo verso coloro che amava, prese Armageddon tra le mani e lo tenne al sicuro in quella piccola, rosea casetta: “Non avere paura” bisbigliò, ma più che a lui lo diceva a se stessa. Era stata troppo precipitosa.
No! No, aveva fatto la cosa giusta! Non poteva arrendersi proprio ora che era finalmente libera. Ma la foresta immensa in cui si stava aggirando era più che mai minacciosa: non si vedeva quasi niente, se non rami puntuti e cespugli che si muovevano. Un lembo del vestito le si impigliò in un ramo adunco, costringendola a liberarlo con uno strattone. Cominciava a venirle la paura, quella vera.
L’ululato di un lupo la fece trasalire. Si voltò di qua e di là, sperduta. Niente. Gli occhi le lacrimavano, per il freddo e per lo sconforto. Soledad le apparve come un miraggio impossibile da raggiungere. “È tutto un incubo” mormorò: “Nulla di tutto questo è davvero successo. Sono ancora a Soledad”.
All’improvviso udì dei passi che si avvicinavano. Il terrore la strinse nella sua gelida morsa. Strinse ancora più Armageddon e si raggomitolò su se stessa. I passi continuavano. Erano una marea. A quel punto prese ad urlare con la voce arrochita dal freddo e dallo sforzo: “Aiuto! Che qualcuno mi aiuti!”
Dagli alberi emersero i due orchi che avevano parlato di lei poco prima. Isadora spalancò gli occhi e si fece rapidamente pallidissima. Cercò di indietreggiare, anche se sapeva di non avere scampo. Loro erano in due, e molto più forti di lei. Non erano come i giovanotti che si divertiva a sconfiggere a Soledad. Armageddon, scrutando quei due brutti ceffi in rapido avvicinamento dalle fessure delle dita della ragazza, lanciò uno squittio disperato.
“Salve, bel bocconcino” grugnì l’orco sfregiato. Aveva un ghigno malefico stampato in faccia: “Ti abbiamo sentita urlare. Cosa c’è? Hai bisogno di aiuto?”
Isadora si sentiva soffocare dal terrore. Si fece piccola piccola, come se sperasse di poter scomparire: “State lontani da me!” farfugliò. L’orco altissimo scoppiò in una risata agghiacciante: “Ah no, ora siamo noi che dettiamo legge. Sei uscita dal maniero, giusto? Ora non sei sotto la protezione di nessuno. Possiamo fare di te ciò che vogliamo”.
Era vero! E Katrina gliel’aveva anche detto! Vedendoseli venire incontro sempre più voraci e pericolosi, Isadora premette la schiena contro un albero. La sua resistenza fu fievole: “Mio padre vi darà la caccia e ve la farà pagare”.
“Tuo padre?” sbuffò divertito l’orco sfregiato: “Quel patetico ometto non oserà neanche chiederci indietro ciò che resterà di te”.
Isadora capì, con fredda precisione, di non avere scampo. Poteva provare a scappare, ma loro l’avrebbero ripresa. Tentare di difendersi era altrettanto inutile. Era dunque destinata a far da spuntino a quei due orchi? Le lacrime presero a rigarle le guance. Trovò a malapena le forze per urlare: “Aiuto…” con più disperazione che veemenza.
“Sì, grida” sibilò l’orco alto: “Tanto non ti sentirà nessuno. Sei spacciata come una mosca nella tela del ragno!”
Armageddon assestò un morsetto alla mano della padroncina, incitandola a far qualcosa. Ma cosa avrebbe potuto fare, lei? Già si vedeva data in pasto a quei due Mister Incubo. L’orco sfregiato indicò il topolino con un cenno del capo: “Quello sarà il dessert, che ne dici?”
“Non osate toccare Armageddon!” strillò Isadora, serrandoselo al petto. L’orco alto le rise in faccia: “No, è meglio usarlo come antipasto: così potremo goderci la faccia della ragazzina mentre lo cuciniamo!”
“Aiuto!” ripeté Isadora, piangendo disperatamente. I due orchi erano ormai ad un passo da lei.
Di colpo, in un modo così inaspettato da far trasalire Isadora, Armageddon e perfino i due orchi, un lampo nero sfrecciò verso il centro dello scontro e si piazzò tra la ragazza in trappola e i suoi due aguzzini. Isadora rimase così stupefatta che non realizzò subito il miracolo che le era appena capitato.
Ma la vera sorpresa fu constatare che il suo salvatore intervenuto a sorpresa altri non era che l’orco che era stata costretta a sposare. Rimase a bocca spalancata. L’orco si ergeva in tutta la sua considerevole stazza davanti a lei, il volto alterato da una rabbia autentica. Ma stavolta quella rabbia non era diretta verso di lei, bensì sui due orchi stupefatti che si erano un attimo fermati di lì a due passi. Per qualche istante ognuno rimase nella propria posizione. Sembravano un affresco: la buia e fredda foresta da sfondo, la piangente Isadora appiattita al tronco dell’albero, i due orchi in atteggiamento minaccioso, e l’orco piantato tra le due fazioni.
Infine, l’orco parlò, con una voce ancora più tonante del solito: “Lasciate stare immediatamente questa ragazza”.
“Perché dovremmo?” chiese incollerito lo sfregiato. “Sì” aggiunse lo spilungone: “Non siamo tenuti a farlo. Ora ha superato il confine col tuo territorio, non è più di tua proprietà”.
“Vi dico che dovete lasciarla stare. Avete a disposizione un’intera popolazione mondiale per i vostri spuntini” disse l’orco con disprezzo. Isadora, dal canto suo, senza muoversi da dove stava, alternava lo sguardo dall’orco ai due ceffi. Non riusciva ancora a credere che fosse accorso a difenderla. Anche Armageddon scrutava perplesso la scena.
“Fatti da parte” sbraitò lo sfregiato: “Quella ragazza non è tua. Non ti appartiene in nessun modo”.
“Credi?” sibilò l’orco: “Forse hai dimenticato che è mia moglie” detto questo, si voltò verso Isadora, le afferrò il braccio sinistro e lo mostrò ai due orchi. Non c’era niente da vedere. Con un brutto presentimento che appariva chiaro dalla sua espressione, l’orco si rivolse alla ragazza bisbigliando per non farsi sentire dagli altri due: “Dov’è l’anello?”
Isadora impiegò alcuni minuti a capire a cosa si riferiva. Fissandolo con aria vergognosa, confessò: “L’ho gettato via”.
“Perfetto” commentò l’orco alzando gli occhi al cielo. Frattanto i due orchi avevano ripreso a sogghignare come iene: “Hai fatto male i tuoi calcoli” gongolò lo sfregiato: “Fatti da parte e lasciaci quello spuntino”.
L’orco corrugò la fronte. Isadora lo fissò implorante: era diventato la sua unica speranza. Strana la vita, a volte. Pensò che aveva tutte le ragioni per cederla a quei due ceffi: si era dimostrata una pessima padrona di casa e una potenziale ribelle. Come se non bastasse aveva pure provato a scappare.
Lui prese un brusco respiro: “Sta indietro, ragazza” le disse a bassa voce. Stupita, Isadora non ebbe neanche il tempo di comprendere il senso di quelle parole. Vide l’orco scagliarsi sui due energumeni con furia disumana, vide i due energumeni fare lo stesso, e le venne istintivo indietreggiare dallo scontro.
Era uno spettacolo dalla violenza inaudita: i tre orchi si azzuffavano senza una logica, vibrando pugni, calci, stoccate e graffi ogni volta che ne avevano l’occasione, rotolando sul fogliame che ricopriva il terreno. Lei osservava la scena con le mani premute sul petto, appoggiata al solito tronco, e sperava vivamente che l’orco avesse la meglio. Quasi non respirava. Com’era possibile che proprio quel rude orco che l’aveva comandata, umiliata e bistrattata le avesse salvato la vita? Com’era possibile che si stesse battendo per una massaia così scadente?
“Niente qui ha un senso” pensò.
Fortunatamente, l’orco sembrava avere la meglio. Anche se era più basso dello spilungone e meno nerboruto dello sfregiato, era più agile e forte di tutti e due e riusciva sempre a liberarsi da una presa e a colpire nei punti giusti. In poco tempo, riuscì a mettere fuori combattimento lo spilungone, facendolo crollare svenuto a terra. Restava solo lo sfregiato. Era tumefatto e ansimante, ma continuava a fissare Isadora con occhi famelici. Lui e l’orco si assalirono con nuova foga. Per un po’ si colpirono a vicenda senza che nessuno dei due avesse la meglio, poi l’orco, con un grido di rabbia, ferì l’avversario dandogli un violento calcio sulla tempia. Lo sfregiato stramazzò e non si mosse più.
Solo allora Isadora si ricordò di respirare. Attonita, vide l’orco alzarsi faticosamente in piedi. Ansimava. Aveva i vestiti a brandelli e un occhio vistosamente nero. Un sottile filo di sangue gli scendeva dalle labbra. Era una visione spaventosa, ma ora lei non aveva più paura. Si fissarono in silenzio. Isadora avrebbe voluto dire qualcosa, scusarsi della fuga, forse solo ringraziare. Ma la bocca si rifiutò di collaborare.
L’espressione dell’orco tornò dura all’istante, una maschera severa che bandiva ogni altra emozione: “Io torno al maniero” non riusciva ad impedirsi di avere la voce ansimante: “Tu fa come ti pare”.
Le voltò bruscamente le spalle e si avviò con andatura leggermente barcollante nella direzione da cui era venuto. Isadora esitò a lungo là dov’era, guardando ora verso sud, ora verso l’orco che stava scomparendo a passi pesanti. In cuor suo seppe di aver preso una decisione. Cercò di addolcirsela pensando che lo faceva perché c’era un freddo terribile e perché non conosceva la strada per Soledad, ma sapeva che era anche gratitudine, e desiderio di tornare al più presto in un luogo caldo.
Chinò il capo e accennò una corsetta per raggiungere l’orco. Lui le gettò una strana occhiata da dietro la spalla, poi tornò a guardare dritto davanti a sé. Tornarono lentamente al maniero.
 
Katrina li stava aspettando entrambi piena di ansia, e quando entrarono nell’atrio la sua gioia fu immensa: “Isa!” esclamò felice non appena la ragazza fu entrata con aria stanca: “Grazie al cielo sei tornata! Temevo che ti fosse accaduto qualcosa di terribile!” Isadora si lasciò abbracciare e mormorò: “Sto bene, Katrina, davvero” non sapeva perché, ma dopo aver sperimentato il gelo di fuori, era contenta di essere tornata nel maniero.
L’orco si era un attimo fermato a riprendere fiato. Le contemplava con aria esausta, logorato dalla lotta di poco prima. Alla fine si mise a salire le scale a fatica: “Fammi trovare del vino in cucina, Katrina” disse stancamente. Isadora si distrasse dall’abbraccio della vecchia domestica e guardò la scala dove lui era sparito. Katrina fece una smorfia: “Vediamo di obbedirgli”.
Mentre andavano in sala da pranzo, Isadora non riusciva a liberarsi dal ricordo di quanto era accaduto poco prima. Le era inconcepibile, al punto da impedirle di dire grazie, di chiedere. Aveva sempre creduto che l’orco fosse malvagio e senza scrupoli, che nel suo cuore non ci fosse la minima bontà. Tuttavia, era stato capace di salvarla. Dopo averla sfruttata per così tanto tempo. E probabilmente l’indomani sarebbe tornato tutto come prima…ma…
“Avevo tanta paura per te, Isa” le confidò Katrina. Isadora mormorò: “Ho rischiato di morire, ma lui mi ha salvata…”
“Il padrone?!” strepitò Katrina. Tutto il viso le si illuminò: “Che ti avevo detto? Non è poi così male!”
La lasciò per andare a prendere il vino in cucina. Isadora si fermò sulla soglia della sala da pranzo. L’orco era in ginocchio presso il tavolo, intento a calmare Bruto che l’aveva assalito festante, felice di rivederlo. Lo accarezzava con le grandi mani e si lasciava leccare e annusare senza innervosirsi. Ad un certo punto perfino sorrise, guardando il cane con affetto. Isadora li osservava senza rivelarsi, sempre più confusa. Non capiva. Non sapeva più neanche se il risentimento per quei lavori forzati viveva ancora in lei.
Katrina tornò con un vassoio con sopra la fiasca del vino e i resti dello spezzatino di Isadora. L’orco calmò Bruto con qualche carezza sulla testa e sedette al suo solito posto. Isadora guardò lo spezzatino con desiderio: era un po’ che non mangiava nulla.
Si avvicinò a passi esitanti, senza sapere bene cosa dire. L’orco non alzò gli occhi su di lei e bevve un lungo sorso di vino, accasciandosi esausto sulla sedia. La fievole parola pronunciata dalla ragazza spezzò il silenzio con la sua piccola eco: “Grazie”.
L’orco sussultò. La guardò fissamente: “Cosa?”
“Grazie per avermi salvata” sussurrò Isadora fissando il pavimento. Percepì chiaramente lo stupore dell’orco, poi lui fece una cosa commovente: arrossì e distolse lo sguardo. Sembrava a corto di parole. Toltasi quel peso dal cuore, Isadora tornò accanto a Katrina, che li osservava con l’espressione di chi ha avuto una piacevole sorpresa. Alla fine l’orco, sempre piuttosto rosso in faccia, tagliò qualche pezzo di spezzatino e le tese il piatto: “Mangia. Sarai affamata”.
Isadora fissò lo spezzatino con pura meraviglia. Non osava prendere il piatto: “Posso davvero?”
“Ti ho già detto che puoi” sospirò l’orco. Lei prese il piatto con una sorta di timore reverenziale. Mangiò il succulento spezzatino a piccoli morsi, medicina benefica per il suo stomaco vuoto. Era bellissimo averne un piatto tutto per sé. Intanto l’orco si era alzato in piedi, lasciando il restante spezzatino nel piatto, e si era avviato con Bruto che gli trotterellava al fianco all’uscio: “Io vado a letto. Katrina, se vuoi puoi finire lo spezzatino” parve voler aggiungere qualcos’altro, poi scosse la testa e si ritirò con una mano sulla fronte.
Stupefatta, Katrina chiese: “Ma che diavolo è accaduto al padrone?”
“Non…non lo so” rispose piano Isadora.

 
  
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