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Autore: Sylphs    10/03/2012    2 recensioni
Ehilà! Ho scritto questa favola un po' folle quando avevo 14 anni ed è in assoluto il primo romanzo che ho finito a quell'epoca, perciò ho deciso di tentare la sorte e pubblicarlo su efp, confido nella vostra pietà :) la storia si ispira alla mia fiaba preferita, "La bella e la bestia", salvo che la protagonista è un peperino ed è tutto fuorché una graziosa fanciulla. Spero che qualcuno leggerà!
Genere: Azione, Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 8

 
 
 
 
 
 
Da quella notte, Isadora percepì chiaramente che qualcosa era cambiato. Il giorno dopo Katrina venne a svegliarla un’ora dopo il solito coprifuoco e trovò la sua vecchia tenuta pulita di tutto punto. Il foglio sotto la terza gamba del tavolo conteneva soltanto quattro mansioni da svolgere, il che provocò uno svenimento di Katrina che costrinse Isadora a correre nello sgabuzzino a cercare i sali.
Comunque, la ragazza era decisa a svolgere i compiti che l’orco le aveva assegnato nel migliore dei modi per sdebitarsi. Così si rimboccò le maniche, e tolse la polvere fino all’ultimo granello dalle tende dell’ala est del castello, spazzò di buona lena l’atrio e la sala da pranzo, si arrampicò sulla finestra della sua camera da letto per disincastrare con un lungo bastone il nido di vespe che aveva trovato collocazione tra i rami di un albero che dava sul maniero e liberò le pareti dalle ragnatele. Katrina quasi non dovette far nulla, osservando la ragazza con evidente ammirazione: “Oggi ti ci sei messa proprio d’impegno, Isa”.
“Il lavoro tempra il carattere!” canticchiò Isadora, tutta intenta a spazzare l’atrio. Smise di tenere le tende accostate, così come le aveva trovate: perché farlo? Le tirò con decisione e inondò il maniero di potenti raggi di sole. Sembrava molto meno minaccioso, era quasi normale. Quando Bruto passò di lì, gli abbozzò perfino un sorriso, poi le venne un’idea: “Bruto si è mai fatto un bagno?”
Katrina impallidì: “Dio mio, Isa, non ci provare: mi ha quasi staccato una mano quando ci ho provato, diversi anni fa”.
Solo un quarto d’ora dopo, Isadora stava lottando con Bruto per trascinarlo di peso in bagno, dove aveva già riempito la vasca d’acqua pulita. Il grosso meticcio nero non faceva che ringhiare e dibattersi, ma lei lo teneva ben stretto: “Non fare storie” disse con sforzo, tirandolo in bagno: “Sarai bellissimo quando avrò finito con te”.
Il cane abbaiò disperatamente, piantando le unghie a terra. Armageddon uscì dalla manica di Isadora e lo morse su un orecchio. Il cane trasalì e allentò la presa. Scambiando col topolino un’occhiata complice, Isadora se ne approfittò e lo lanciò con forza dentro la vasca piena d’acqua. Bruto emise un verso carico di terrore e sollevò atterrando mille schizzi che inondarono la ragazza, ma lei si limitò a ridere vedendolo emergere con la pelliccia nera tutta fradicia e lo sguardo torvo: “Non è stato così difficile, vero?”
Bruto lanciò un ringhio di avvertimento, come a dire: “Questa me la paghi”.
“Tra poco mi ringrazierai” replicò lei. Prese del sapone e iniziò a strofinarlo. Bruto sobbalzò e si dimenò un po’, ma se lo lasciò fare.
Katrina assisteva sconvolta: “Bruto accetta di farsi lavare?!”
Bruto dovette ammettere che era piacevole essere strofinati in quel modo. Per di più il tocco di Isadora era delicato ed esperto: non a caso aveva lavato Armageddon sempre di persona. Alla fine, quando lo vide abbaiare di piacere, sogghignò: “Ti piace, eh?”
Bruto la schizzò un po’ per non dargliela vinta, ma aveva uno sguardo sonnacchioso. Finito di strofinarlo, Isadora lo aiutò ad uscire dalla vasca, poi prese un pettine da una mensola e incominciò a pettinargli la pelliccia. Quando ebbe finito, e lo mostrò a Katrina con un misto di orgoglio e stanchezza, faceva tutt’altro effetto col pelo liscio e lucente, tutto profumato e lucidato. Aveva un’aria fiera: capiva di essere un gran bel cagnone.
Isadora preparò una cena davvero appetitosa: pollo alla cacciatora, di cui trovò la ricetta in un vecchio libro di cucina che Katrina non usava mai, vino caldo e caldarroste abbrustolite. Assaggiare era una tentazione impellente, ma si costrinse a trangugiare la solita zuppa.
Quando, a sera, l’orco tornò dalla sua solita battuta di caccia, stentò a riconoscere la sua stessa casa. Le finestre erano tutte spalancate sul tramonto che inondava di luce le sale anguste, il pavimento era pulito, e il suo stesso cane era lindo e pinto come quello di un lord. Un profumo delizioso proveniva dalla cucina. Ma la più grande sorpresa gliela fece Isadora, che andò ad accoglierlo nell’atrio assieme a Katrina: “Bentornato” gli disse timidamente. Non era pronta a trattarlo con familiarità, ma gli riconosceva di averla salvata. Ora toccava a lui: se voleva che convivessero in pace, doveva fare la mossa giusta.
L’orco osservò stupito la casa in ordine, il sorriso delle due donne, e infine Bruto che dimenava allegro la coda lucente. Poi, con difficoltà ed evidente impaccio, disse: “Avete fatto un buon lavoro”.
Questo sciolse la tensione. Il sorriso tremulo di Isadora acquistò solidità, e Katrina sospirò di sollievo. Gli fecero strada in sala da pranzo, e durante tutto il tragitto lui non smise mai di contemplare le sale luminose e splendenti. C’era ancora tanto lavoro da fare, ma quel semplice miglioramento aveva già cambiato parecchie cose.
Isadora aveva già posato sul rozzo tavolo di legno il delizioso menu che aveva preparato ed ora faceva il suo figurone là sopra, spargendo il suo profumo prelibato per tutto il maniero. Nel notare una vaga ombra di desiderio sul volto torvo dell’orco, si sentì sollevata. Lo osservò sedere impacciato a tavola e restare in silenzio mentre gli tagliavano la carne. Poi buttò fuori con fare quasi aggressivo: “Che significa tutto questo?”
Temeva una trappola, temeva che ci fosse un inganno in quell’improvvisa gentilezza da parte di Isadora. Non concepiva l’altruismo, come lei non aveva concepito il suo salvataggio. Guardava il cibo quasi con sospetto, come se temesse che gliel’avesse avvelenato. La ragazza rispose senza guardarlo in faccia, mettendogli il pollo nel piatto: “Voglio sdebitarmi. Sono in debito con te, e a casa mia i debiti si ripagano”.
Al che l’orco rifece quella cosa commovente: arrossendo, voltò la faccia dall’altra parte. Il contegno torvo non aveva retto. Piluccò il cibo che aveva nel piatto mentre Isadora restava immobile a qualche metro di distanza….poi, Katrina gli vide fare una cosa che non gli aveva mai visto fare da quando era venuto al mondo: si sporse, batté qualche goffo colpetto sulla sedia accanto alla sua, quella sedia su cui non sedeva mai nessuno, e disse a bassa voce, rivolto ad Isadora: “Siedi qui”.
Isadora rimase stupita quanto lei: “Lì?”
“Sì. Mangia con me. Hai lavorato tanto, oggi. Te lo meriti” fece lui goffamente. In effetti, a stare in piedi Isadora ci pativa parecchio, e le gambe non chiedevano che un sollievo. Con un sorriso sollevato, si fece avanti timidamente e sedette sull’ampia sedia di legno. L’orco tornò alla sua cena in fretta. La ragazza si servì di quel ben di dio parcamente: già solo poterlo addentare le pareva un sogno. Ne conservò un po’ anche per Katrina. L’orco l’aveva osservata mentre, tutta timorosa, si riempiva il piatto, e gli era passato sul volto un barlume di senso di colpa: “Non è giusto che tu cucini solo per me” disse. Parlava a fatica, come ogni volta che diceva qualcosa che poco si confaceva al suo ruolo: “Da oggi in poi, avrai diritto ad una parte delle mie cene. Katrina potrà averne un quarto”.
“Davvero, padrone?” singhiozzò la povera Katrina, prossima all’infarto. Fu lei, in un certo senso, a rompere l’incantesimo. L’orco ritornò per un attimo alla sua espressione aspra: “Sì, ma non farti strane idee, tu”.
“Perfetto!” disse invece Isadora, che vedeva d’improvviso la sua vita lì meno buia di prima: “Avrò bisogno di lievito e creme dolci, così mi cimenterò in dolci di tutti i tipi!”
“Te li farò avere domani sera” le rispose l’orco. Isadora non stava nella pelle. Cucinare per tutti e tre era molto meglio che farlo solo per uno. L’orco sorvolò con lo sguardo la bandana che le copriva i capelli, il vestito sudicio e il grembiule macchiato: “Hai il permesso di indossare i tuoi vestiti, da domani”.
Isadora si sentiva travolta da tutte quelle buone novità. Doveva cucinare bene più spesso, pensò. “Sono certa che con un po’ d’impegno si vivrà più felici tutti” annunciò. Katrina annuì, convinta, l’orco la guardò con una luce strana negli occhi meno roventi del solito.
 
E così fu.
La mattina dopo, quando Isadora aprì gli occhi sulla sua piccola stanzetta, non la vide buia come ogni volta, ma piena di luce. Fuori dalla finestra il sole era già alto: doveva essere tarda mattinata. Terrorizzata, scattò a sedere sulla branda: ma quanto aveva dormito?! Perché Katrina non era venuta a svegliarla alla solita ora?!
Era così su di giri che non si era affatto accorta di quanto fosse carica e già del tutto sveglia: quel lungo sonno le aveva giovato. Frenetica, scostò la coperta e tolse dal baule un vestito color crema che le aveva portato suo padre da uno dei suoi innumerevoli viaggi. Nell’indossarlo, sospirò di sollievo: era comodo e morbido, ma soprattutto lo erano le scarpe in tinta che sostituirono i tremendi zoccoli. Si pettinò in fretta i lunghi capelli biondi, se li legò con un nastro e fu pronta.
Trovò Katrina in cucina. La vecchia domestica era stravaccata sul pavimento di pietra in atteggiamento di totale beatitudine e pescava fragoline di bosco da una terrina lì vicino, infilandosele in bocca con lento languore. Isadora la fissò stupita: “Katrina! Ma perché non mi hai svegliata? Che ore sono?”
“Le undici” biascicò lei tra un morso e l’altro, con la bocca sporca di succo rosso: “Ma tanto il padrone ha detto che potevi dormire quanto volevi. Ah, ti ha lasciato quelli per colazione” indicò il tavolo della sala da pranzo. Di fronte alla sedia sulla quale Isadora si era seduta la sera prima erano posati una piccola forma di formaggio, due uova e una fetta di pane e miele. La ragazza provò un balzo di gioia al cuore. Si gettò vorace sulla gustosa colazione e mangiò con foga. Si sentiva così bene, ben riposata e sazia.
Katrina, facendosi dondolare davanti agli occhi una fragola particolarmente grossa e succosa, le disse: “Sai, inizio a pensare che sia stato un miracolo che tuo padre sia capitato qui. Pensa se non l’avessi ospitato! Ah, ma è stato il cuore a suggerirmelo”.
Isadora non la pensava proprio allo stesso modo. Soledad e suo padre continuavano a mancarle moltissimo, ma era come se quell’Isadora fosse morta: era un’altra persona, una persona senza problemi che menava padellate ai corteggiatori insistenti, alzava gli occhi al cielo alle prediche di Natalie e faceva lunghissime conversazioni col marchese. Come ogni volta che pensava a lui, provò una fitta di risentimento e di nostalgia. Non si era fatto più vivo.
Per scacciare quei pensieri tristi, tolse il foglio dal suo solito posto. Aprendolo, vide stupita che c’erano solo due voci, che dicevano rispettivamente: raccogliere la legna nel bosco e preparare la cena.
“Vuole che usciamo” disse, porgendo il foglio a Katrina. Lei si illuminò: “Bene! Mettiti il mantello, Isa, io intanto vado a prendere la scure. Ehi, stai benissimo con questi vestiti, lo sai?”
Quando uscirono, la foresta aveva perso completamente il suo aspetto pericoloso, ora che c’era il sole e che il maniero vegliava su di loro. Katrina le spiegò quale punto non dovevano attraversare: “Più in là non è più terra del padrone, capisci? Si potrebbero fare brutti incontri. Hai un metodo infallibile per capire qual è il confine” inoltrandosi tra gli alberi, le mostrò un curiosissimo cespuglio a forma di cuore: “Ecco. Più in là di quello non devi andare”.
Isadora sorrise, divertita da quello strano gioco della natura. Katrina sollevò la pesante scure e provò ad abbattere un alberello contorto, ma le braccia magre non ce la facevano. Così la ragazza le prese la scure dalle mani, la impugnò con forza e la piantò nel tronco. In pochi colpi l’ebbe abbattuto, e fecero una catasta di legna da ardere che ammucchiarono in una carriola portata dal maniero. A quel punto, si fissarono un attimo: “Ce ne abbiamo di tempo a disposizione” propose Isadora: “Riposiamoci un po’. Si sta bene qui”.
Individuarono una piccola radura lasciata libera dagli alberi. Era quasi gradevole: certo, l’erba era molto alta e non c’erano fiori, ma aveva un aspetto pulito e riposante. Isadora si tolse le scarpe e si buttò distesa tra gli steli color smeraldo, col sole che le riscaldava il viso. Katrina fece lo stesso, e per un poco rimasero così, a riposarsi.
“Sai, il territorio del padrone non è piccolo come sembra” le disse Katrina ad un certo punto: “Oltre il maniero, a nord, si estende per un bel po’ di leghe. È qui sul lato sud che scarseggia. Il padrone và sempre a caccia sul lato nord, perché è più ricco di selvaggina. Pensa, c’è perfino un villaggio! Era lì che vivevo io, sotto la sua tutela”.
“Davvero?” chiese Isadora interessata, girandosi su un fianco: “Parlami un po’ di come hai passato la vita da quando hai offerto te stessa per tuo padre”.
“Sai che c’era il vecchio padrone, all’inizio. Sei fortunata a non avere beccato lui. Mi picchiava ogni volta che ne aveva l’occasione. Dava certi calci sui fianchi che ti costringeva a sputare sangue una volta sì e una no! Fossi stata vecchia e debole come adesso, sarei morta, ma ero giovane e riuscii a sopportarlo. Però deperivo sempre di più. Ero una bella ragazzona, ai tempi, forte e in salute, ma ne sono uscita completamente trasformata. A volte il padrone mi chiudeva in soffitta: era orribile! Era tutto buio, faceva un freddo terribile e il pavimento era ricoperto di balle di stoffa trafitte da spilli che mi pungevano dappertutto. Per non parlare della padrona!”
“C’era una padrona?” si interessò Isadora. Katrina annuì con un brivido: “Restò al maniero per pochissimo tempo, ma il padrone picchiava anche lei e le dava calci sulla pancia perfino quando era incinta. Lei però era un’orchessa, lei se le prendeva senza fare un fiato. Sembrava fatta di caucciù. Quando c’era il padrone era zitta e sottomessa, ma appena lui se ne andava, se la prendeva sempre con la povera Katrina. Si sfogava, capisci? Mi tirava i capelli e me li tagliava per farci vestitini per il nascituro. Io avevo i capelli rossi e forti, e lei diceva che erano proprio dei bei capelli e che su di me avrebbero solo sfigurato. Mi ritrovavo calva una volta al mese. Lei aspettava che mi ricrescessero appena appena”.
“Ma è orribile!” esclamò Isadora, raccapricciata. Fu costretta ad ammettere che a lei era andata fin troppo bene. Katrina aveva lo sguardo perso in lontananza: “Poi nacque il piccolo padrone, e il vecchio padrone scacciò la padrona. Le femmine perdono importanza non appena partoriscono un figlio. Per un po’ il vecchio padrone lasciò in pace la povera Katrina. Era troppo impegnato ad addestrare suo figlio. Ogni volta partivano per andare a visitare il lato nord e mi lasciavano qui. Io ero già vecchiotta, allora. Saranno stati vent’anni fa. Comunque, tempo dopo, il vecchio padrone tornava al maniero sempre ubriaco e di pessimo umore. Pensa che se la prendeva perfino con il figlio!
“Una volta, nel salire le scale per andare a letto, completamente ubriaco, inciampò e batté la testa. Lo trovammo la mattina dopo, ed era già troppo tardi. Poveretto, in fondo non se lo meritava. Così il padrone prese il suo posto. L’unica volta che lo vidi comportarsi davvero male fu quando si presentò al maniero un forestiero sperduto: decise di cucinarselo per cena. Ti risparmio i particolari. Poi siete arrivati voi”.
Isadora rifletté a lungo su quelle parole. Comprese perché Katrina fosse così deteriorata, strabica e pazzerella, perché potesse apparire così strana. Ne aveva passate tante. Ad un certo punto domandò: “Non ti hanno mai permesso di visitare questo lato nord?”
“Oh, no” disse Katrina: “Era la mia terra natale, temevano che potessi scappare. Non lo vedo da…bah, saranno cinquant’anni”.
Un’idea prese forma nella testa di Isadora. Il lato nord incuriosiva anche lei. E poi voleva fare qualcosa per Katrina, che l’aveva aiutata fin dal primo momento. Vedeva chiaramente che desiderava rivedere la sua terra natia.
 
Quella sera a cena, Isadora si accomodò a tavola con l’orco, perché ormai era stato deciso così, e divise con lui il pasto che aveva preparato: pasticcio di carne, pannocchie e fragoline di bosco.
L’orco, a sorpresa, era tornato prima del solito. Si era presentato alle sette e un quarto di sera, con il sacco mezzo vuoto, con l’aria di chi fino al giorno prima detestava tornare a casa, ma che adesso cominciava ad apprezzarne l’aspetto. In effetti, così luminoso e pulito, il maniero aveva un’aria molto più invitante, unito al pensiero che qualcuno lo stava aspettando.
Per un po’ l’orco ed Isadora mangiarono in silenzio. Il rumore era solo quello delle posate che urtavano il coccio dei piatti. Lei si stava chiedendo come affrontare l’argomento che si era prefissata nella radura. Decise di iniziare parlando d’altro. Posò la forchetta, incrociò le braccia sul tavolo e chiese all’orco: “Cosa hai fatto oggi?”
Lui si immobilizzò con la forchetta a mezz’aria. La abbassò e le rivolse uno sguardo perplesso: “Prego?”
“Cosa hai fatto oggi?” ripeté lei un po’ più forte. L’orco si guardò rapidamente intorno quasi comicamente, come se si stesse chiedendo se era a lui che si rivolgeva, poi rispose con un’altra domanda: “Vuoi sapere cosa ho fatto oggi?”
“Beh…sì” fece lei, perplessa. Non capiva dove fosse il problema. L’orco deglutì: “Di solito nessuno si interessa a quello che faccio”.
“Vuol dire che finora hai conosciuto solo maleducati” disse lei perentoria. L’orco arrossì violentemente, si ingobbì al suo posto, poi balbettò: “Sono andato a caccia”.
“Ah. E cosa hai cacciato di bello?”
“Due conigli”.
“Bello” commentò Isadora. Poi prese a parlare a raffica, sicura di avere rotto il ghiaccio: “La donna che ha sposato mio padre, Natalie, detesta la caccia, sai? Pensa che sia una cosa da barbari. Io però credo che sia un modo come un altro di svagarsi, se praticato con moderazione. Natalie non la pensa così. Lei rabbrividisce al solo pensiero di mangiare carne e ci propina degli insipidi ravanelli ogni volta, ma io sono convinta che sia una vegetariana del cavolo, perché voleva affogare il mio topolino, che è un animale come un altro. A parer mio, il concetto di “animale” lei lo limita a quegli orrendi gatti infiocchettati che si adottano Anastasia e Genoveffa, le befane più befane di Soledad!”
Prese fiato e addentò una pannocchia. L’orco l’aveva fissata attonito durante tutto il discorso, senza mangiare, seguendola con stupore. Isadora, accigliata, lo fissò e aggiunse: “Guardati sempre da soggetti come Anastasia e Genoveffa. Sono state loro a sparlare di me col figlio del Re, che non mi ha invitata il giorno del suo compleanno!”
L’orco aprì la bocca, ma non sapeva cosa dire. Isadora accennò un sorriso intimidito: “Oh, ma ti ho travolto di chiacchiere! Non temere, ora sto zitta”.
“No” intervenne lui a bassa voce. Soggiunse, sempre molto piano: “Continua pure a parlare. Che dicevi di quelle due ragazze?”
Isadora non aspettava altro che l’occasione per immergersi nell’antico piacere di spettegolare: “Però ho ottenuto la mia vendetta. Sta a sentire che figuraccia che hanno fatto al ballo del Principe: lui le ha snobbate per tutta la sera, perché sono davvero due befane, e ha corteggiato una ragazza scema come un’oca, che però almeno era carina e ben vestita. Insomma, te la faccio breve: scocca la mezzanotte, e la ragazza, che aveva una matrigna fissata con il coprifuoco a quell’ora, fugge a gambe levate dal palazzo e perde una scarpetta. Disperato, il Principe la raccoglie e chiede un po’ qua e un po’ là dove sia la proprietaria. Allora le due Befane con la b maiuscola architettano un piano e sostengono di essere loro le proprietarie della scarpetta.
“Il Principe non nota la minima somiglianza, ma dato che si proclama Gentiluomo con la G maiuscola, acconsente a far loro provare la scarpetta. Quelle due hanno dei piedoni da elefante, e anche poco puliti, per cui provano a infilarsi la scarpa, ma niente. E intanto tutti ridono loro dietro. Alla fine il Principe le invita cortesemente ad andarsene, e tornano in lacrime dalla loro madre, Befana pure lei. Ben gli sta! Io non ho mai fatto niente a nessuna di loro, mentre loro non fanno che farmi dispetti”.
Sorrise compiaciuta. A Natalie non l’aveva raccontata proprio così, perché lei adorava le due Befane e le trovava simpatiche e adorabili. Fin da quando Isadora era bambina, l’aveva obbligata ad andare da loro sperando in un’impossibile amicizia. Era così bello poter esprimere ad alta voce quello che pensava di loro!
L’orco, come poco prima, l’aveva ascoltata in silenzio, ma sembrava più colpito dal fatto che parlasse con tale animosità che da ciò che diceva. Katrina, al contrario, era piegata in due dalle risate, con la sua solita esagerazione: “Che racconto divertente!” disse alla fine, riprendendo fiato: “Dovresti essere così loquace più spesso, Isa. Finora parlavo quasi sempre io”.
Isadora accennò un piccolo sorriso. Poi l’orco attaccò a parlare con la stessa voce fievole di prima: “Racconta qualcos’altro” dopo un breve attimo aggiunse, arrossendo: “…per favore”.
“Vi racconterò di quel cugino di mio padre che una volta acquistò una strana pianta di fagioli…”
Finì che andò avanti tutta la notte. Raccontò mille avventure di mille conoscenti, gesticolando e parlando con enfasi. Per ogni racconto aveva un aneddoto divertente e un pizzico di critica e di ironia. Narrò di Giacomino e della sua pianta di fagioli, di quello zio che da ragazzo estrasse una spada imprigionata in una roccia in compagnia di uno strambo mago col cappello a punta, del nonno che si avventurò in una foresta di rovi e svegliò con un bacio una marchesa addormentata da un crudele maleficio, ereditandone il titolo, di quella cugina di terzo grado che aveva una matrigna che voleva avvelenarla con una mela, e della piccola sorella di Natalie che si era persa in un bosco minacciato da un lupo cattivo.
Alla fine, bevve un sorso d’acqua per placare la gola affaticata. Era notte fonda, quasi l’alba. Davanti a lei, l’orco e Katrina l’avevano ascoltata rapiti per tutto il tempo, silenziosi come tombe. Durante l’ultimo racconto, però, la domestica si era un po’ insonnolita (era davvero tardi) ma non l’orco, che restava attento e ben sveglio. Quando lei tacque, le chiese con tono sognante: “I tuoi parenti hanno davvero fatto tutte queste cose?”
“Parola di Isadora” rispose lei, mettendosi una mano sul cuore. Katrina, sbadigliando sonoramente, biascicò: “Ehi, allora sei famosa”.
“La mia famiglia, non me” replicò Isadora: “Io non ho fatto niente di esaltante”.
“Comunque è la prima volta che ci hai tenuti inchiodati in sala da pranzo ben oltre il coprifuoco. Brava!” esclamò Katrina battendo le mani. L’orco la guardava con occhi raddolciti: “Sì. È stato…gradevole” dopo una breve pausa, disse con una timidezza che la commosse: “Spero che ci racconterai storie spesso”.
“Ma certo” disse allegramente: “Ne ho giusto un paio pronte per domani sera!”
“Evviva!” gridò Katrina. Poi sbadigliò di nuovo. L’orco accennò soltanto un sorriso e si alzò in piedi: “Andate a letto. Sarete esauste. Dormite quanto vi pare. Non avete impegni per domani”.
Isadora, con uno sbadiglio, decise di posticipare il discorso del lato nord al giorno dopo. Era davvero stanca. Mentre l’orco si allontanava in direzione delle scale, Katrina esclamò: “Buonanotte, padrone”.
Lui rispose, scomparendo su per le scale: “Buonanotte, Katrina. Buonanotte, Isadora”.
La ragazza, tutta intenta a stiracchiarsi, si bloccò con le braccia alzate. L’aveva chiamata per nome.
 
“Che ne pensate finora?” domandò il cantastorie dopo aver ripreso fiato. Aveva raccontato per un bel pezzo senza interruzioni mentre sorgeva la luna e il villaggio diventava buio, e i bambini l’avevano ascoltato senza appisolarsi nemmeno un istante. C’erano stati colpi di scena, avventure e vicissitudini che avevano seguito con attenzione. Ora anche il volto di Tom era perso dietro alla storia.
“Penso che sia forte” disse Josh, prendendo la parola: “La situazione è stata ribaltata completamente!”
“Sono contenta per Isadora” esclamò Annie: “Ma come mai il marchese non è mai venuto a trovarla?”
“Non temere” le rispose il cantastorie incappucciato: “Ho ancora tante cose da raccontarvi”. In quel momento la madre della bambina uscì da una capanna, preoccupata che la figlia fosse fuori a quell’ora tarda: “Annie! È ora di andare a letto!”
“Oh, no, mamma, ancora cinque minuti!” la implorò Annie, disperata: “Il cantastorie ci deve ancora raccontare la storia!”
“Che carino” commentò la donna, rassicurata dal numero di bambini assiepato in piazza: “E che favola vi sta raccontando? Cappuccetto Rosso?”
“No, è banale” le rispose Julie perentoria: “È la moglie dell’orco”.
Sul volto della donna comparve un gran disappunto: “La moglie del cosa?”
“Non vi preoccupate, signora” disse calmo il cantastorie: “Vostra figlia è al sicuro qui con me. Ve la riporterò domani mattina!”
Poco convinta, la madre di Annie tornò nella capanna. Al che Alex scalpitò: “Continuate, ve ne prego!” un mormorio d’assenso seguì le sue parole. Il cantastorie sorrise, si accomodò meglio e ricominciò: “Allora. Dove eravamo rimasti? Ah, già. Dunque, il giorno seguente…”

 
  
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