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Autore: Bethesda    10/03/2012    1 recensioni
Un carattere complesso ed enigmatico come quello del famoso detective Sherlock Holmes deve avere delle origini profonde, dettate da qualcosa accaduto nella sua infanzia. Questa storia tratta proprio quella, un periodo totalmente tralasciato dal buon Doyle.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo
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Breve premessa: la storia qui raccontata non segue il canone vero e proprio. L'idea mi è venuto leggendo l'apocrifo "Soluzione sette per cento" di N.Meyer e tratta l'infanzia di Holmes. Non tutta, ovviamente: un evento in particolare che credo di riuscire a concludere in due capitoli (questo compreso). Le informazioni sulla famiglia, non presenti nei romanzi ufficiali (se non per quanto riguarda Mycroft) le ho tratte da  "Sherlock Holmes of Baker street" di Baring-Gould. Sono quindi tutte speculazioni.
Un avvertimento: per chi non avesse letto il libro di Mayer qui è presente la rivelazione finale che lo stesso Holmes fece a Freud sotto ipnosi. 
Spero che la lettura vi piaccia! 
Beth



«Sherlock! Vieni subito qui!!»
Il ragazzino sentì la presenza imponente e minacciosa del fratello dietro di sé e si sollevò dal libro che stava consultando, voltandosi di scatto e incontrando il suo sguardo furente. Cercò di nascondere l’ingombrante tomo ma l’impossibilità di vedere cosa le sue stesse mani stessero facendo alle sue spalle lo rendeva piuttosto sospettoso.
«Cosa c’è?»
«Osi ancora chiedermelo? So benissimo che sei stato tu a rubarmi il mio libro di anatomia! Sai quanto ci tenga!»
«Cosa ti fa pensare che sia stato io? Potrebbe essere stato chiunque!»
«Ah, sì?»
Con una mossa repentina il fratello maggiore si slanciò contro Sherlock, buttandolo a terra nonostante il vano tentativo di fuggire. Lo bloccò con il proprio peso, prendendogli una caviglia con l’unica mano libera.
«Mollami, Mycroft!»
Un’esclamazione vittoriosa uscì dalla bocca del ragazzo in vantaggio, sovrastando il gemito di dolore del piccoletto.
«Ti sei scordato di pulirti le scarpe prima di entrare in camera e hai lasciato una traccia di fango molto lieve sul pavimento! Ma guarda un po’! La suola coincide!»
Mollò la caviglia, alzandosi e recuperando il maltolto.
Sherlock guardò il fratello con aria di sfida, conscio di non aver possibilità: Mycroft, da poco diciottenne, superava il fratello di circa dieci centimetri e sembrava intento a non smettere di crescere. Pigro per natura aveva però un fisico che lo avrebbe facilmente aiutato nel nuoto –se solo ne avesse avuto voglia- o nel canottaggio. Noto come il miglior studente della scuola e perenne primo in classifica nelle varie borse di studio, era destinato a intraprendere la carriera matematica.
Quindi, si chiedeva il fratello di undici anni, cosa se ne faceva lui di un libro di anatomia?
«Sei un despota.»
«E tu un ladro di infima qualità. Non sei neanche capace di prendermi un libro senza che io me ne accorga!»
Il ragazzino si sentì pesantemente offeso: se avesse voluto avrebbe potuto anche rubargli i pantaloni mentre ancora li aveva addosso!
«Dai, alzati.»
Sherlock si sollevò da terra ignorando la mano che gli stava tendendo il fratello e lo guardò con freddezza: avrebbe riprovato a riprenderlo quella notte stessa.
Il ragazzino uscì dalla stanza, lieto di poter andare a ideare un nuovo piano per la conquista di quel meraviglioso tomo.
Erano da poco passate le undici di mattina e il sole estivo stava per giungere al suo zenit, riscaldando la campagna del Sussex e asciugando le pozzanghere causate da violento ma passeggero temporale la notte precedente.
Di lì a poco sapeva che sarebbe arrivato il precettore di matematica suo e del fratello, il professor Moriarty. Non provava una gran simpatia per quell’uomo nonostante la materia, studiata da lui a livelli superiori rispetto a un normale studente di undici anni,  non gli causasse problemi di sorta.
Anche se avesse voluto scampare quella nuova lezione e si fosse nascosto sarebbe poi dovuto comunque tornare e incorrere in una sfuriata del padre.
Sospirò rassegnato e puntò gli occhi grigi -dono della madre- verso il cielo limpido e sgombro di nuvole.
 
 
 
«Perfetto, signorino Mycroft. Perfetto!»
Sherlock lanciò un’occhiata in tralice al minuto professore, abbandonando momentaneamente i propri esercizi, e vide il fratello ricevere le lodi senza scomporsi: sapeva di essere bravo e non tentava certo di sminuirsi. La modestia non era una sua dote. E neanche lui la possedeva, doveva ammetterlo.
«Quando le ripareranno la bicicletta?»
Moriarty si voltò verso il proprio studente più giovane.
«Mi è stato detto entro Gio…come sa che mi si è rotta la bicicletta?!»
Il ragazzino unì le punte delle dita appoggiando i gomiti sui braccioli della sedia e allungando le gambe come per mettersi comodo, posizione che lo avrebbe accompagnato durante tutta la vita.
«So ovviamente che lei prende la bicicletta per venire qui tutte le volte possibili, escluso quando vuole passeggiare. Questo lo fa solo nelle giornate estive particolarmente asciutte, quando la strada non è infangata. Ora, lei sicuramente, se ne avesse avuto l’occasione, avrebbe utilizzato la bicicletta per venire fin qui se fosse stata in suo possesso e integra. Certamente avrebbe evitato di lordarsi le scarpe e l’orlo dei pantaloni in quel modo. Scommetto che ha incontrato anche qualcuno a cavallo, su un carro o con qualche mezzo del genere.»
«U-una carrozza» balbettò stupito il professore. «Ma come…»
«Alcuni schizzi, molto piccoli, raggiungono la coscia sinistra. Probabilmente l’hanno schizzata mentre passavano ma lei è riuscito a evitare di essere lordato completamente, forse scostandosi da un lato. Effettivamente dovrebbero rendere queste strade più percorribili: quando piove sembrano dei veri e propri guadi.»
Dietro all’allibito Moriarty Mycroft scuoteva la testa con un ghigno.
«…bè, è tutto vero, signorino. Purtroppo ci sono dei problemi con il manubrio ed è impossibile da manovrare.»
Un sorrisino innocente comparve sul volto di Sherlock che, pago del suo momento di gloria, riprese a fare gli esercizi.
Passò un’ora circa senza eventi di sorta quando una donna entrò nello studio.
I due fratelli alzarono lo sguardo verso la madre, Violet Holmes, subito accolta dal piccolo professore con entusiasmo: si capiva bene che il professore fosse infatuato della bella donna.
Come poteva non esserlo? Alta e magra, con un portamento elegante e il sorriso sempre sulle labbra. Era incantevole e, nonostante avesse quarant’anni e due figli, sembrava ancora una fresca sposa.
I capelli corvini erano ben acconciati dietro la nuca e indossava uno dei suoi abiti preferiti che ne risaltavano le forme. 
Puntò gli occhi del color dell’acciaio contro Moriarty, chiedendogli come procedessero i figli.
«Oh, signora Holmes! Buon pomeriggio! Ottimamente entrambi: il signorino Mycroft ha ormai appreso anche i livelli più avanzati e temo che fra poco non avrò più nulla da insegnargli, mentre il signorino Sherlock migliora a vista d’occhio. Non ha l’abilità del fratello ma sicuramente ha una mente logica e adatta o questo tipo di studi.»
Un brivido percorse la schiena del ragazzino al pensiero che il precettore avrebbe potuto avanzare l’ipotesi che anche lui, come il fratello, avrebbe dovuto seguire la carriera matematica.
«Per oggi abbiamo concluso. Tornerò Venerdì alla stessa ora.»
La donna sorrise all’uomo, ringraziandolo e accompagnandolo alla porta.
Sherlock si stiracchio, assonnato e desideroso di sgranchirsi le gambe: avrebbe preso il moschetto del padre e sarebbe andato ad infilzare il vecchio spaventapasseri nell’attesa che calasse la sera. Allora avrebbe avuto inizio il suo piano.
Sua madre lo distolse dai suoi pensieri, abbracciandolo e dandogli un bacio fra i neri capelli scompigliati.
«Madre!»
Il giovanotto tentò di divincolarsi e avvertendo su di se lo sguardo del fratello cercò di darsi un contegno.
«Oh, su. Non essere sciocco, Sherlock!»
«Già, non essere sciocco, Sherlock», ripeté il fratello con scherno.
Madre e figlio fulminarono nello stesso istante, con lo stesso identico sguardo, il povero Mycroft.
«Guarda che ce n’è anche per te!»
«Sono troppo grande per le vostre effusioni.»
«Quando questo inverno eri affetto da quella brutta influenza non dicevi così e lasciavi che ti coccolassi!»
Assistendo a quello scambio di battute che fece arrossire Mycroft fino alla punta dei capelli, Sherlock pensò che sua madre, a dispetto di quelle dei suoi coetanei, fosse parecchio diversa: oltre a sembrare sempre giovane e bella si comportava come una ragazza, senza nascondere i propri sentimenti e lanciandosi in gesti d’affetto che presso molte famiglie sarebbero sembrati fuori luogo. Si stupiva sempre di come lei e suo padre, Siger Holmes, fossero diversi, domandandosi cosa li avesse fatti unire. Era sicuro che non potesse essere stato solo un matrimonio puramente per interessi economici: il padre amava teneramente la moglie e anche Violet cercava spesso di dimostrare il proprio affetto. Purtroppo per lei la sua personalità austera e rigida non si raddolciva davanti agli estranei e anche i figli avevano avuto ben poche occasioni di vederlo esternare i propri sentimenti. Probabilmente, pensava il ragazzino, era la rigida carriera militare che lo aveva impostato in quel modo.
Scioltosi dall’abbraccio ottenne un altro bacio e gli venne concesso di andare dove desiderava.
«Basta che tu non ti faccia scoprire da tuo padre: sai che è contrario al fatto che utilizzi il suo moschetto…»
«Sono abile e in grado di badare a me stesso: non farò nulla che possa nuocermi.»
Detto questo si allontanò, lasciando il fratello a concludere i propri compiti e la madre a leggere su una delle comode poltrone dello studio.
 
 
 
Quando calava la notte, in quella zona lontana dal centro abitato, sembrava che qualche scrittore pasticcione avesse rovesciato, sul luminoso foglio del giorno, un’intera boccetta di inchiostro nero e denso.
Sherlock, con il favore delle tenebre e seguito solo da una luna fioca e piccola, decise di mettere in atto il suo piano.
   
 
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