Gli uomini bianchi
In una città presso Perugia, circolavano delle strane voci su un edificio abbandonato ai margini di un bosco. L’edificio era proprietà di una ditta andata in fallimento verso gli anni del crollo della borsa newyorchese: non essendoci di conseguenza i soldi per gli operai, fu chiuso in un battibaleno fino a giorni odierni.Il fatto strano non era questo, bensì che, dopo la sua chiusura, chiunque vi entrava dopo le nove di notte veniva sempre ritrovato morto il giorno seguente, ma in tanti piccoli pezzettini. I tagli erano precisi e fatti in modo netto come un macellaio esperto nel tagliare la sua carne di maiale: nella peggiore dei casi i pezzi superarono la ventina, mentre nelle migliori (per modo di dire essendoci sempre un morto) massimo tre o quattro.
Si venne a pensare così di un assassino o di un pazzo o di un pazzo assassino. Questo soprattutto nei casi di Alessandro Mosca (il primo cadavere) o di Marta Cogli (la seconda). Ma l’ipotesi venne meno nel momento in cui uno sconsiderato miscredente della tesi si appostò per tutta una notte a meno di dieci metri dall’edificio e ritornò vivo il giorno dopo. Tuttavia non aveva messo piede al suo interno neppure una volta.
Il fatto si fece così più inspiegabile: si ipotizzarono altre possibilità come la presenza di una fonte di gas allucinogeni o persino di fantasmi dentro l’edificio. Sta di fatto che la risposta non fu mai trovata e i casi aumentavano per via di altri sconsiderati amanti del pericolo.
Alla fine il sindaco della città, spinto dalle pressioni di alcuni cittadini, mandò l’ordinanza di chiudere l’edificio (si preferì non raderlo al suolo per evitare di propagare il suo male per la città). I casi cominciarono a diminuire e infine cessarono. Fu allora che si cercò di dimenticare la storia.
Ma le voci su quel luogo circolavano ininterrotte fino ai giorni nostri e non sembravano voler smettere: la gente, nonostante cinquant’anni senza cadaveri mutilati, aveva ancora paura della cosiddetta “maledizione”, tant’è che insegnarono ai ragazzi di non andarci mai.
Tuttavia le regole, come si sa, sono fatte per essere infrante e così accadde l’episodio che sto per raccontarvi.
Un gruppo di ragazzi, tre femmine e due maschi, si era riunito a pochi passi dall’edificio “senza ritorno” (veniva ormai chiamato così dalla nuova generazione). Avevano deciso il giorno avanti di festeggiare il compleanno di Lucia (ovvero una delle tre ragazze) presso sto luogo: il tema della festa era una prova di coraggio che consisteva nel trascorrere un’intera nottata lì dentro.
Il posto dava davvero i brividi: l’edificio era semidistrutto e sembrava in procinto di crollare. Le finestre, sbarrate con degli assi di legno, erano tutto rotte o erano diventate opache per la polvere.
Alcuni erano ancora dubitanti a ignorare i consigli dei loro genitori. Si dicevano che se erano così impauriti un qualche motivi o veridicità ci doveva essere; ma i due ragazzi ed Anna, la più intraprendente, erano invece convinti che quelle voci erano solo storielle per spaventare i bambini. In fondo non c’erano prove, ergo nessuna ragione nel doverle credere.
Convinti anche questi, il gruppo si diresse verso l’ingresso: alle porte erano stati lasciati due enormi lucchetti ormai del tutto arrugginiti, il ché semplificò il lavoro di Andrea, uno dei due ragazzi. Infatti, avendo pensato ad un eventuale possibilità, si era attrezzato con un ed ecco che in pochi secondi il passaggio era aperto a tutti.
Lucia notò poco prima di entrare ufficialmente nel luogo maledetto, di sentirsi costantemente osservata. Si disse che non poteva essere, poiché le uniche persone lì presenti erano i suoi amici i quali erano già dentro: così entrò anche lei.
In realtà su una cosa si sbagliava di grosso e l’errore l’avrebbe provato fra poco sulla sua pelle: non erano da soli e, a dir la verità, il loro arrivo era già stato notato.