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Autore: Brin    11/03/2012    2 recensioni
Non si può restare a guardare quando una mano sconosciuta porta via ciò che di più caro hai al mondo: questo è quanto Sari Kalabis sperimenta sulla propria pelle nel momento in cui uno dei pilastri della sua vita le viene strappato per sempre.
Non sa, però, che il desiderio di sapere perché la porterà su strade pericolose, lastricate di interessi a cui non dovrebbe avvicinarsi. Verso i sotterranei di un carcere da cui non si può uscire, nella pancia di un incubo folle e delirante che non dovrebbe esistere.
Genere: Fantasy, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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7



7.

RAPIMENTO



*



Quando l’allarme squarciò il silenzio, rimbombando lugubre tra i corridoi del carcere, il caos che ne derivò fu immediato: le guardie correvano ovunque senza una direzione, ignorando il perché fosse stata attivata quella sirena assordante. Sapevano solamente che dovevano correre, con i sensi all’erta e la mente pronta a obbedire a ogni ordine. E quando una voce gracchiò dagli altoparlanti, esigendo che l’evaso fosse fermato, si divisero subito in squadre come perfetti soldati: in pochi minuti coprirono quasi tutta l’area dell’edificio, le armi in pugno e pronte a far fuoco.
Corsero veloci, preparati a stanare la preda e catturarla senza pietà, disposti a sacrificare anche l’ostaggio se fosse stato necessario, quando l’altoparlante squillò di nuovo.
«Si sta dirigendo verso il generatore!»
C’era apprensione nella voce di chi aveva appena dato l’allarme, lo capirono subito. Come intuirono il pericolo, che diventava sempre più concreto di minuto in minuto: il carcerato si stava dirigendo in una zona senza vie di fuga.
Verso il cuore del carcere.
Verso la sua fonte di energia.
Non potevano permetterglielo: dovevano fermare la sua fuga quanto prima, o le conseguenze sarebbero potute essere disastrose.
Tutte le squadre si diressero verso la stessa zona, ma non furono abbastanza veloci: quando sentirono un rumore di spari provenire dal generatore, capirono di essere arrivati tardi.
Qualcuno gridò, poi di nuovo spari.
E poi fu improvvisa.
Assordante.
Terrorizzante.
L’esplosione ferì i timpani; le orecchie sembravano non voler smettere di fischiare, ma loro non potevano fermarsi. Raggiunsero la sala del generatore senza troppe speranze di riprendere il prigioniero, e ciò che videro era esattamente ciò che si aspettavano di trovare: corpi riversi a terra, agonizzanti nel loro stesso sangue; fiamme e lamiere contorte su se stesse; e lì dove una volta c’era il muro, un enorme squarcio dal quale entravano vento freddo e fiocchi di neve.
E sul manto candido che circondava il carcere, due paia di orme. Riuscirono anche a vederle: due sagome che si allontanavano, sfidando il gelo e il vento che ululava come se volesse rendere noto a tutti che quella sarebbe stata la loro fine.
Perché di una cosa tutti erano sicuri: anche se si scappava da Artika, non si poteva essere altrettanto fortunati con il freddo.
Ci avrebbe pensato la neve ad arrestare la folle corsa dell’evaso.


*


«Fermati» Sari arrancò esausta, con le caviglie sprofondate nella neve. Camminare stava diventando sempre più difficile, e ogni passo le costava un’enorme forza di volontà. Era sfinita, infreddolita e impaurita, e il pensiero di essere da sola con un assassino di massa non l’aiutava.
Da quando erano fuggiti non erano passate che un paio d’ore, e il pensiero di tentare una fuga aveva fatto capolino nella sua testa solo una volta, ricacciato subito dalla conclusione che sarebbe probabilmente morta molto presto, per mano del suo sequestratore o stroncata dal freddo.
Al diavolo la neve, pensò concedendosi un breve istante di riposo. Quando lui la strattonò tirandola per il polso, il suo corpo non fu abbastanza pronto a rispondere e Sari si ritrovò carponi nella neve.
Soffocò a stento un’imprecazione, sentendo i pantaloni bagnarsi e le lacrime pizzicarle gli angoli degli occhi.
Non fare la bambina. Non è il momento, pensò.
Liberò il polso dalla stretta del fuggiasco con un gesto improvviso, e quando lui si voltò a guardarla, lei non abbassò lo sguardo. Si rimise in piedi senza esitare, a testa alta; lo guardò a lungo, con astio.
«Ma brava… Dopo questo sfoggio di coraggio ti senti più forte?» la canzonò con un sogghigno che minacciò di far perdere la testa a Sari.
La ragazza strinse i pugni, imponendosi di tacere: aveva i nervi a fior di pelle, ma doveva resistere. Si era già spinta oltre nel momento in cui gli si era opposta liberando il polso dalla sua stretta, e non poteva permettersi di irritare Warknife più di quello che già aveva fatto.
Lo guardò in silenzio, sicura che non sarebbe riuscita a trattenere parole inopportune se gli avesse risposto.
«Forza, cammina.»
E Sari non se lo fece ripetere. Anche se ogni passo le costava una fatica enorme, anche se il suo corpo gridava per la stanchezza e il freddo che lo intorpidiva, lei non si era mai sentita così risoluta.
Avanzò nella neve, decisa a superare Warknife e a dimostrargli che le sue parole sprezzanti non sarebbero riuscite ad abbatterla, ma il suo corpo la tradì dopo pochi passi: sentì le gambe cedere all’improvviso, così velocemente da non avere neppure il tempo di sorreggersi con le mani.
Si ritrovò distesa sul fianco, sprofondata nella neve mentre malediceva quei piedi che non l’avevano sostenuta. Mentre imprecava contro quella situazione assurda, contro il suo rapitore, ma soprattutto contro se stessa: aveva fatto di testa sua, e a causa della sua ostinazione si era cacciata in un guaio dal quale non sarebbe riuscita a uscire.
Sentì Warknife sbuffare, e lo immaginò mentre la guardava scocciato.
«Muoviti, non ho intenzione di stare qui fino a notte fonda.»
«Perché, secondo te io sí?» lo rimbeccò Sari rialzandosi lentamente, e soltanto allora notò che il suo rapitore non sembrava affatto irritato: la guardava con le braccia conserte e un’espressione ansiosa che non prometteva nulla di buono.
Quando le fu abbastanza vicino, le afferrò il polso e glielo torse, riducendo Sari di nuovo in ginocchio.
La ragazza gemette di dolore, costretta a piegarsi su se stessa per cercare un po’ di sollievo. «Mi fai male, lasciami!»
«Allora cammina» una luce eccitata illuminò lo sguardo di Warknife. Il suo tono di voce parlava chiaro: godeva nel vederla in ginocchio, sottomessa, col capo chino. Sconfitta.
E quel pensiero era come vento per il fuoco che bruciava dentro la psicologa, per quella rabbia che solo la paura di ciò che lui avrebbe potuto farle sembrava riuscire a bloccare.
Lo guardò con disprezzo, cosa che sembrò irritare ulteriormente l’evaso. La presa sul polso di Sari si fece più salda, la torsione sempre più innaturale, e il dolore divenne insopportabile.
«LASCIAMI!» gridò, arrabbiata.
Impotente.
Spaventata.
Era nelle mani di quell’assassino, mai come in quel momento ne era stata consapevole: la forza con cui le stava torcendo il polso era solo un assaggio di quello che avrebbe potuto farle nel caso in cui lei non avesse obbedito.
Non aveva possibilità per contrastarlo, e si sentiva messa con le spalle al muro, in trappola.
Stava per supplicarlo, quando sentì la pressione sul polso venir meno. Il sollievo fu immediato.
Quando alzò lo sguardo, Warknife si voltò verso di lei, guardandola irritato.
«Cammina o ti ammazzo.»
Nella sua voce non c’era più l’eccitazione perversa di poco prima, ma non era il momento di rischiare. Sari si rialzò barcollando, esausta, ma cercò di lottare contro il suo stesso corpo. Raggiunse il suo rapitore, con i polmoni in fiamme per l’aria gelida e i muscoli ormai senza forze, intorpiditi dal freddo.
Capì che non sarebbe riuscita a proseguire oltre quando lo guardò negli occhi, e le venne naturale domandarsi com’era possibile che lui, vestito solo con la casacca del carcere, non subisse gli effetti del freddo. Come potesse avere ancora tutta quella forza, quando lei riusciva a mala pena a reggersi in piedi.
Non riuscì a chiederglielo: sentì le forze abbandonarla improvvisamente, e anche parlare le risultò impossibile. Le gambe le cedettero di nuovo, le palpebre divennero macigni e gli occhi le si chiusero senza che lei potesse impedirlo.
Avrebbe voluto rialzarsi, avrebbe desiderato continuare a camminare, ma la stanchezza l’aveva prosciugata di ogni energia. Le uniche cose di cui fu consapevole prima di perdere conoscenza furono le braccia che la strapparono dalla neve, e il piacevole tepore che avvertì nel momento in cui qualcosa di solido e caldo aderì al suo petto.


*


Dal suo studio, Amos non poteva fare a meno di osservare con l’attenzione di un falco quello che stava accadendo nel cortile: il piccolo palco in pietra, utilizzato spesso nelle conferenze con gli organi d’informazione del regno, era circondato di persone. Giornalisti, nello specifico.
Una schiera di seccatori impiccioni e rumorosi, venuti lì apposta per lui. Per conoscere cos’era accaduto nei dettagli.
Quando l’avevano informato della fuga del prigioniero da Artika, Amos si era illuso di riuscire a tenere segreta la cosa, ma evidentemente qualcuno si era lasciato andare a delle confidenze fatte alle orecchie sbagliate. E ora erano tutti lì, affamati di novità, ad assediare il palazzo.
Quando sentì bussare alla porta, non faticò a immaginare di cosa si trattasse.
«Signore, i giornalisti stanno diventando impazienti.»
Era Jasper naturalmente, e qualcosa nella sua voce sembrava implorare Amos.
Poteva immaginarlo dietro la porta mentre lo aspettava saltellando sui talloni, incapace di stare fermo. Indaffarato e diligente come una formica operaia, mentre cercava di svolgere al meglio il suo lavoro e avere cura di tutto ciò che riguardava il mago anziano.
Avrebbe fatto aspettare volentieri Jasper e i giornalisti, ma aveva la netta impressione che se l’avesse fatto, l’avrebbero tormentato per il resto della giornata.
Quando uscì in corridoio, sorpassando il suo assistente, non lo degnò di uno sguardo. Si diresse verso il cortile, accompagnato da Jasper che camminava un passo indietro a lui, con il solito atteggiamento di riverenza che la gerarchia imponeva.
Raggiunse l’esterno, e poco distante dal porticato cominciò a intravedere la folla. Si fermò, approfittando della sicurezza offerta dalla distanza che lo separava dai giornalisti, sicuro di non venire visto né sentito da nessuno che non fosse Jasper.
«Se dovesse esserci necessità, sai quando intervenire» gli disse prima di dirigersi verso il palco. All’inizio sembrarono non accorgersi di lui: continuarono a ciarlare tra loro, creando un mormorio diffuso che risultava quasi fastidioso. Poi qualcuno esclamò il suo nome, e la folla aprì lentamente un varco per permettergli di passare.
Nell’istante in cui Amos mise piede sul palco, il chiacchiericcio scemò rapidamente e il mago divenne il centro dell’attenzione per tutte quelle persone che pendevano dalle sue labbra.
Una situazione a cui Amos era ormai abituato da molto tempo, ma che in quell’occasione non faceva altro che far aumentare il principio di mal di testa che gli attanagliava le tempie.
«Signor Kalabis, ci può spiegare esattamente che cos’è accaduto?»
A parlare era stata una donna: non più nel fiore degli anni, ma di bell’aspetto, era vestita con un tailleur elegante che probabilmente utilizzava per le occasioni migliori. In mano reggeva un oggetto di forma ovale, luminoso, proteso quanto più possibile verso il mago. Un registratore di suoni, compagno inseparabile di chiunque lavorasse come giornalista.
Amos squadrò la donna, impassibile come sempre. Con quello sguardo che sapeva incutere soggezione e che lui amava così tanto ostentare. La guardò come se fosse senza valore, come se non fosse degna di attirare la sua attenzione. Non si sarebbe soffermato un istante di più a impegnare il suo prezioso tempo con chi non stava al proprio posto.
Con chi lo interrompeva.
Con chi parlava al suo posto.
«Nulla che non sia già stato reso noto, signorina» liquidò la faccenda con un cenno della mano.
Un brusìo si levò tra la folla di giornalisti, ma Amos non vi diede importanza. Se desideravano commentare il suo modo di fare, la cosa non lo turbava minimamente: preferiva essere etichettato come persona sgarbata, piuttosto che perdere tempo in chiacchiere inutili.
«Se il prigioniero è riuscito a evadere e a fuggire con un ostaggio dobbiamo dedurre che il carcere non è una struttura sicura come era stato assicurato?» era stato un elfo a parlare, questa volta, e la postura di Amos si fece improvvisamente rigida. Stava per ribattere che sarebbero stati presi seri provvedimenti a riguardo, che i cittadini non dovevano fare altro che stare tranquilli perché la Corporazione li avrebbe protetti, ma non gli fu possibile.
«Si dice che questo prigioniero sia pericoloso: è vero?» domandò un’altra giornalista. Amos tossì, irritato.
«Una domanda alla volta, per favore.»
«Che crimine aveva commesso l’uomo che è fuggito?»
«É un pluriomicida» spiegò, dicendo in fondo una mezza verità.
«E come mai non è stato condannato a morte, signor Kalabis?»
«Semplicemente perché la sentenza doveva ancora essere eseguita. Se c’è una cosa che si fa ad Artika è rispettare qualsiasi decisione presa dalla Corporazione» rispose Amos, ancora una volta con quello sguardo impassibile, indecifrabile. Sembrava che non ci fosse nulla che potesse toccare il mago al punto da fargli assumere una qualunque espressione che non fosse l’indifferenza, nessuna domanda abbastanza imbarazzante o fuori luogo, nessun argomento che potesse metterlo a disagio.
Nulla, almeno fino a quel momento.
«Si dice che il carcerato fosse rinchiuso in una zona particolare del carcere, chiamata zona rossa: ci può dire se esiste realmente e, se è vero, che cos’è?» domandò un altro giornalista, con il registratore in mano, pronto a catturare qualunque dichiarazione interessante venisse fatta dal mago.
Non fu abbastanza accorto per notare l’espressione di Amos. Più di mille notizie inaspettate, quello sguardo spento che si rabbuiava all’improvviso sarebbe stata l’esclusiva perfetta.
Ma il mago era abile, e sapeva dissimulare molto bene ciò che sentiva: gli bastò un battito di ciglia per indossare di nuovo quella maschera imperturbabile che si addiceva così bene al suo viso vecchio e stanco.
«Non ho mai sentito nominare nulla del genere, mi dispiace.»
Fu facile ingannarli: nessuno si accorse del cambiamento nel suo sguardo, e questo era esattamente quello che il mago desiderava. C’erano cose di cui era meglio non parlare.
Cose che non dovevano essere conosciute.
Cose che stavano sfuggendo al suo controllo.
E questo Amos non poteva davvero permetterselo.
Quando vide Jasper salire sul palco, provò un enorme sollievo: era finita, almeno per quel giorno.
«Per oggi la conferenza stampa è terminata. Il signor Kalabis rilascerà al più presto una dichiarazione durante la prossima conferenza e spiegherà in maniera più approfondita quanto è accaduto» il giovane mago congedò la folla con un sorriso tenue e cortese. Era il momento perfetto per dileguarsi, ora che l’attenzione della folla, intenta a protestare contro quella cacciata inattesa, era tutta rivolta verso Jasper: Amos ne approfittò per scendere dal palco, velocemente.
Era perso nei propri pensieri; così preso dall’urgenza di sottrarsi agli sguardi avidi dei giornalisti, da non accorgersi della strana donna in ultima fila. Il suo aspetto era piuttosto comune: capelli neri, occhi azzurri e una frangia che le spezzava il viso lungo e magro. Ciò che la rendeva insolita, a una più attenta osservazione, era il comportamento: aveva continuato a fissare in silenzio Amos per tutta la durata dell’incontro, immobile tra i giornalisti che si sbracciavano per fare una domanda.
Aveva seguito a braccia conserte ogni movimento del mago, spiando ogni più piccola contrazione dei suoi muscoli, memorizzando tutte le informazioni che riusciva a ottenere dalle sue analisi.
Aveva compiuto il proprio lavoro come le era stato ordinato, e ora che l’intervista era terminata, non aveva più motivo di trattenersi oltre.
Si allontanò dalla folla, dirigendosi verso la boscaglia che costeggiava il cortile. Un passo dopo l’altro, cercando di apparire naturale, di non farsi notare, con in mente una scusa già pronta da sciolinare nell’eventualità che qualcuno la potesse notare mentre prendeva quell’insolita direzione.
Solo quando fu abbastanza lontana dal cortile e sufficientemente protetta dalla vegetazione, si permise di agire.
Si morse un dito, incidendo la pelle del polpastrello con i canini acuminati che caratterizzavano la sua razza, e il sapore ferroso del proprio sangue le bagnò le labbra.
Quindi fu la volta del cerchio: lo disegnò tracciando delle rune demoniache sul tronco più largo che riuscì a trovare. L’istante dopo, lì dove c’era l’albero su cui aveva tracciato la formula magica per manipolare lo spazio, si aprì il portale: un vortice bianco, sfavillante, oltre il quale poteva intravedere i contorni del luogo che doveva raggiungere.
Non indugiò. Con un passo entrò nel passaggio, e il portale si richiuse alle sue spalle, risucchiandola in un luogo lontano. Poi fu silenzio.
Non un rumore, non un movimento nel bosco.
Non erano rimaste neppure le rune di sangue a suggerire che fino a pochi istanti prima in quella piccola boscaglia vi fosse stato un demone.
Niente.
Come se nulla fosse accaduto.


*


Quando l’agente Silver sentì la porta del proprio ufficio sbattere rumorosamente, capì subito che chiunque fosse appena entrato non era di buon umore. Non gli sarebbe servito neppure alzare lo sguardo dai documenti su cui stava lavorando, per sapere di chi si trattasse.
E, soprattutto, aveva già un paio di ipotesi riguardanti il motivo di tutto quel trambusto. Un motivo che preoccupava anche lui, a dirla tutta.
Quando si decise a rimandare l’esame dei documenti a qualche altro momento e a concentrarsi sul problema che gli era piombato letteralmente in ufficio, sorprese Amaya a trafficare con il piccolo lettore di ologrammi che giaceva abbandonato in un angolo della stanza: stava cercando di inserire un piccolo chip, ma l’operazione sembrava più complicata del previsto.
L’elfa si lasciò sfuggire un’imprecazione che fece sorridere Silver.
«Quando ti deciderai a cambiare quest’affare?»
«Quando avremo soldi da spendere, suppongo.»
Amaya sbuffò. Stava quasi per rinunciare e darsi per vinta, quando finalmente il chip scivolò all’interno della feritoia: in quell’istante comparve la familiare schermata verde.
Al suo interno, era riprodotto un testo. Un articolo di giornale, a giudicare dall’impaginatura.
«Spiegami che cosa significa» la voce di Amaya era tagliente, e Silver capì subito che i propri sospetti erano fondati.
Un pericoloso pluriomicida è evaso ieri dal carcere di massima sicurezza di Artika e ha con sé un ostaggio, la dottoressa Sari Kalabis.”
«Che cosa significa, Victor? Che ci faceva lì Sari? Come ci è arrivata?» domandò Amaya con tono incalzante, rabbioso. Lo stava accusando, Silver lo intuì, ma non poteva biasimarla: se Sari era riuscita a penetrare ad Artika, era ovvio che qualche persona influente l’aveva aiutata ad arrivare così lontano.
E, ipotizzando il ragionamento di Amaya, lui era la persona più vicina alla loro amica. Quella che non sarebbe mai riuscita a negarle un aiuto.
Ed era colpa sua se ora lei era prigioniera di un assassino.
Si lasciò sfuggire un sospiro, amareggiato. Colpevole.
«Mi ha chiesto di farla infiltrare nel carcere per riuscire a rintracciare quel tale, quel Gaynor.»
«E tu l’hai aiutata a entrare procurandole dei documenti falsi» Amaya si coprì gli occhi con la mano, lasciandosi cadere sulla sedia di fronte a Silver. Lui non disse nulla. Non ne ebbe il coraggio.
Abbassò lo sguardo sui documenti che giacevano sulla scrivania, senza realmente guardarli. Sarebbe stata questione di pochi minuti prima che l’elfa perdesse la calma, ne era sicuro. Si sarebbe lasciata andare alla rabbia e gli avrebbe dato addosso, accusandolo di non aver fatto il suo lavoro.
Di non aver saputo proteggere Sari rifiutando la sua richiesta.
Di essere irresponsabile.
Ma per quanto aspettasse, Amaya rimaneva in silenzio con il viso coperto dalle mani, e Silver cominciò a pensare che forse la predica non sarebbe mai arrivata.
Quando finalmente l’elfa si decise a guardare il poliziotto, Silver si scoprì molto più turbato di quanto fosse stato in precedenza: qualcosa nello sguardo di Amaya gli suggeriva che c’era qualcosa che la affliggeva, qualcosa di cui lui era ancora allo scuro e che riguardava Sari.
Qualcosa che non gli sarebbe piaciuto affatto.
«Sari si è ficcata in un guaio più grosso di quello che sembra.»
Silver la guardò senza capire di che cosa parlasse. «Che cosa vuoi dire?»
«Vieni con me» Amaya si alzò, spense il lettore di ologrammi, e uscì dall’ufficio assieme a Silver. Il poliziotto intuì subito dove erano diretti non appena svoltarono l’angolo e la vide: la sala convegni.
Era vuota, come ogni volta che Silver vi era entrato per questioni private. Amaya azionò il lettore di ologrammi, che decodificò subito le informazioni contenute nella memoria in immagini: ne riprodusse una dal contenuto ben nitido e definito.
Due sagome che fuggivano dalla facciata di un edificio.
Fumo che si levava alto.
«È quello che le telecamere del perimetro esterno del carcere hanno registrato. Queste immagini hanno iniziato a fare il giro del regno già due ore dopo l’accaduto» spiegò Amaya, ma Silver studiava l’immagine senza capire dove volesse arrivare l’elfa.
Doveva esserci qualcosa di strano in quella fotografia, qualcosa che spiegasse perché era stato trascinato nella sala convegni, ma per quanto si sforzasse di cercare, non trovava nulla che gli sembrasse rilevante.
Sospirò, sconfitto.
«So che la situazione è critica, ma non vedo come possa essere ancora più grave di quello che già non è.»
Amaya premette alcuni pulsanti in rilievo sulla superficie del piedistallo, e l’immagine divenne più grande.
«Se noi ingrandiamo l’immagine del 2000% e la rendiamo più nitida, forse capirai meglio cosa voglio dire…»
Silver si concentrò sul volto ora ben visibile del sequestratore. Gli sembrava un volto noto, ma non riusciva a dargli un’identità. Non riusciva a ricordare dove l’aveva visto.
Sulle prime ipotizzò di averlo incontrato molto tempo prima, nel corso di qualche interrogatorio, ma scartò rapidamente questa opzione: ad Artika la pena di morte era inevitabile. Chiunque vi venisse incarcerato, sapeva già che sarebbe morto lì dentro, in poco tempo.
Non poteva essere un vecchio caso. Sarebbe già dovuto essere morto, quella era la conclusione.
Eppure...
Scavò nella memoria, determinato a ricordare, quando all’improvviso l’immagine di un volto gli ritornò vivida alla memoria. Era un’ipotesi assurda, senza senso. Sapeva già che non poteva essere lui, che non era razionalmente possibile che fosse ancora vivo.
Corse verso l’archivio senza neppure accorgersi che Amaya lo aveva seguito all’istante, chiamando il suo nome.
L’archivio era una sala enorme, piena di vecchie cartelle gettate alla rinfusa negli scaffali, lasciate a impolverarsi e ingiallirsi. A essere dimenticate da tutti.
Silver raggiunse subito la sezione che gli interessava: sullo scaffale un’etichetta recitava “W”. Non perse tempo, leggendo velocemente i nomi uno a uno, finché non vide la cartella che cercava.
Il caso Warknife.
La trovò, la guardò, ma non la prese.
Lì, fermo a guardare quella cartella con quel nome applicato sulla linguetta, si diede dello stupido.
Non era possibile che fosse lui. Non avrebbe trovato nulla.
«Silver…»
Era Amaya.
E non diede retta a quella voce che insisteva nel dirgli che stava sprecando tempo. Prese la cartella, e senza aprirla tornò nella sala convegni. Quando entrò assieme ad Amaya, la foto di Sari e dell’evaso era ancora lì, ingrandita come l’avevano lasciata.
Aprì la cartella. Verbali, schede, test di personalità. E poi la vide: la foto.
La sfilò dalla cartella, e la confrontò con l’immagine dell’ologramma. E ciò che vide era semplicemente assurdo.
All’apparenza potevano sembrare due persone completamente diverse: l’una aveva il volto meno segnato, mentre l’altra era decisamente più sciupata; il primo era più in carne, e il secondo sembrava aver patito la fame.
In realtà, se le fotografie venivano confrontate con attenzione, non potevano esserci dubbi: i lineamenti corrispondevano, i tratti somatici erano uguali. Sembravano due persone diverse, ma in realtà erano lo stesso uomo. Il rapitore di Sari.
«Com’è possibile che sia Warknife?! Ne avevano annunciato la morte alcuni mesi dopo la carcerazione, me lo ricordo bene! Come può essere ancora vivo?!» esclamò incredulo, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quel viso maschile riprodotto dall’ologramma.
«Evidentemente non l’hanno giustiziato come avevamo creduto...» suggerì Amaya a metà tra la delusione e la rassegnazione, sfilando il fascicolo del fuggiasco dalle mani del poliziotto.
«Ti ricordo che abbiamo a che fare con un assassino di massa. Sai bene che è capace di uccidere molte persone nello stesso luogo e nello stesso momento...» mormorò preoccupata facendo scorrere gli occhi sui documenti. «”L’autopsia effettuata sui cadaveri degli abitanti di Halifax ha reso possibile ricondurre la morte alla bruciatura delle cellule neuronali”. E se potesse accadere di nuovo?!»
Quando guardò Silver negli occhi, Amaya vi trovò determinazione. Era angosciato per Sari, per Warknife in libertà, per il pericolo che rappresentava, eppure sentì che il poliziotto aveva preso una decisione.
Capì che c’era un’unica cosa possibile da fare, e capì che Silver aveva la sua stessa consapevolezza. Lo vide sorriderle, rassicurante, nel momento in cui ripose nel fascicolo la foto dell’evaso.
«Semplicemente, dobbiamo fare in modo che non riesca a farle del male. Dobbiamo catturarlo.»



   
 
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