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Autore: Brin    15/03/2012    1 recensioni
Non si può restare a guardare quando una mano sconosciuta porta via ciò che di più caro hai al mondo: questo è quanto Sari Kalabis sperimenta sulla propria pelle nel momento in cui uno dei pilastri della sua vita le viene strappato per sempre.
Non sa, però, che il desiderio di sapere perché la porterà su strade pericolose, lastricate di interessi a cui non dovrebbe avvicinarsi. Verso i sotterranei di un carcere da cui non si può uscire, nella pancia di un incubo folle e delirante che non dovrebbe esistere.
Genere: Fantasy, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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8.

INSEGUIMENTO



*



«Signor Kalabis, queste voci stanno diventando pericolose» constatò Jasper, preoccupato.
Amos, seduto alla sua scrivania, era infinitamente stanco, oppresso dalla vecchiaia e dalle responsabilità che il suo ruolo implicava. Ma non poteva permettersi di mostrare le proprie debolezze. Mai, neppure un istante.
«Lo so, ed è per questo che è essenziale riprendere quell’uomo al più presto: la zona rossa deve rimanere un segreto. È di vitale importanza che non ci siano testimoni oculari in giro per il regno.»
Jasper abbozzò un sorriso leggero, lo stesso con cui accoglieva ogni sentenza di Amos senza fare domande. Perché quello era il suo ruolo: un assistente solerte, leale e discreto, e come tale sapeva bene che c’erano cose di cui avrebbe inevitabilmente sentito accennare, ma che non gli era consentito conoscere.
E Amos non chiedeva di meglio.
Nessuno doveva venire a conoscenza di cosa fosse la zona rossa, se non in casi necessari, e ciò che era successo durante l’incontro con i giornalisti ne spiegava perfettamente il motivo. Aveva messo tutto se stesso in quel progetto. Non poteva permettersi di sbagliare a un passo dalla realizzazione del proprio obiettivo. Era arrivato a sacrificare persino suo figlio: non poteva autorizzare una fuga di notizie che mettesse in pericolo il proprio operato.
«E come farà a catturarlo?»
Amos fece per rispondere, quando sentì dei passi lungo il corridoio diventare sempre più vicini. Quando vide il generale Rider sull’uscio porgergli i suoi rispetti , con il capo chino e la mano sul petto, gli fece un cenno con la mano. «Vieni pure Hektor, ti stavo aspettando.»
«Voleva vedermi, signor Kalabis?»
«Generale, immagino che avrai sentito di quell’uomo che è fuggito da Artika prendendo in ostaggio mia... nipote…» l’ultima parola fu quasi un sussurro. Amos era arrabbiato, Rider riuscì a intuirlo nonostante l’espressione del vecchio mago fosse fredda come al solito. Lo poteva ipotizzare dall’inflessione rabbiosa della voce nel momento in cui aveva parlato di Sari; ma se fosse arrabbiato con lei o per la piega che la situazione stava prendendo, quello rimaneva un mistero.
«Sí, ho sentito qualcosa a riguardo.»
«Bene» Amos si alzò lentamente, lisciandosi la tunica sgualcita «Prendi una squadra dei tuoi migliori uomini e setaccia tutta Silindril, villaggio per villaggio; posiziona anche dei posti di blocco di fronte all’entrata e all’uscita di ogni città se vuoi, basta che li trovi.»
Aveva pronunciato ogni parola come se fosse un verso sacro, come se non ci fossero altre alternative. Come se fosse questione di vita o di morte.
Aveva pronunciato ogni parola con l’indifferenza nello sguardo, ma dal tono di voce che Amos aveva usato, Rider intuì che non gli era concesso ritornare a mani vuote. Non aveva parlato di punizioni in caso di fallimento, né aveva accennato a minacce, ma ciò che il generale riusciva a leggere tra le righe di quell’ordine perentorio era ben peggio. Se fosse tornato senza la ragazza e l’evaso avrebbe dovuto imbattersi in qualcosa di peggiore rispetto a qualunque punizione, una cosa che temeva davvero.
La rabbia di Amos.
Si grattò un sopracciglio, sentendosi improvvisamente a disagio al pensiero di ciò che rischiava.
«E con il ricercato come dobbiamo comportarci, signore?»
Per alcuni istanti Amos non rispose. Congiunse le mani dietro alla schiena, gesto che chi lavorava al suo fianco ormai conosceva bene: significava che il mago stava riflettendo.
Come doveva comportarsi? Non lo voleva morto. No, era troppo importante per lui.
Importante almeno quanto era pericoloso.
«Me lo devi riportare vivo. Non m’importa se ferito o mutilato, basta che sia vivo.»
«Come desidera, signor Kalabis» Rider accennò un inchino leggero, pronto a lasciare la stanza. Ma quando guardò Amos con più attenzione, ebbe la sensazione che ci fosse qualche pensiero che incupiva ulteriormente il vecchio mago.
«Un’ultima cosa, generale…»
«Sí, signore?»
«L’evaso è pericoloso, tienilo bene a mente.»


*


Il salone era buio. L’unica fonte di luce erano le sparute candele che circondavano le colonne, troppo poche per rischiarare quell’oscurità così pesante, ma sufficienti per creare un’atmosfera languida e seducente, di perdizione, ideale per quei baccanali di sangue e corruzione che erano così comuni alla corte dei Maior.
Cominciavano al tramonto, e nel cuore della notte i demoni erano così eccitati dall’odore del sangue da non capire più nulla: era quello l’apice dei loro banchetti, il momento in cui neppure un ordine del loro Signore avrebbe potuto tenerli a freno. Era la Gloria: l’espressione più selvaggia e intensa della loro natura, che terminava irrimediabilmente con lo scempio dei poveri sventurati che erano stati catturati per il banchetto.
E i demoni minori, quelli dalle sembianze bestiali, non aspettavano altro che potersi lasciare andare nell’estasi di quello stato primitivo.
Erano creature diverse dai loro cugini di forma umana, i Maior; meno evolute e più istintive. Non conoscevano sfumature né vie di mezzo: sapevano solo uccidere e divorare.
Erano fondamentalmente stupidi, e avevano un fastidioso problema: non sapevano controllarsi né pianificare un’azione. Non erano capaci di aspettare, anche se questo voleva dire perdere un profitto più grande. Avevano bisogno di avere ciò che desideravano, subito. Non riuscivano a concepire il contrario.
Erano bestie di puro istinto che non erano state neppure sfiorate dal raziocinio, e nonostante questo aspetto richiedesse uno sforzo non indifferente per tenerli a bada, potevano rivelarsi piuttosto utili in diverse situazioni.
Era per questo che Sarmon gli permetteva di accedere nella dimora dei Maior, e gli offriva carne fresca con cui giocare e riempirsi la pancia: in cambio di nottate passate a bearsi della paura delle loro vittime, erano obbligati a giurargli fedeltà e a obbedire a ogni suo ordine.
In caso di negligenza era sottinteso che non sarebbero vissuti abbastanza a lungo per partecipare a un altro baccanale, ma era risaputo anche che i demoni minori obbedivano al loro Signore proprio per i festini che offriva loro. La vita veniva dopo.
Solitamente, però, in quelle occasioni Sarmon si annoiava sempre, e anche quella sera non era da meno. Se ne stava accomodato sul trono, quasi disteso, con una gamba a penzoloni oltre il bracciolo e un’espressione annoiata sul viso spigoloso.
Guardava un gruppo di demoni, circa una ventina a occhio e croce: sopra le loro teste era sospesa una gabbia, e all’interno il giovane elfo che avevano catturato pochi giorni prima se ne stava raggomitolato, tremante e terrorizzato. I demoni saltavano verso di lui, salendo l’uno sopra l’altro, sbraitando versi osceni e spalancando le loro bocche fetide non appena riuscivano ad avvicinarsi al povero sventurato. Sentivano l’odore del sangue, e questo li rendeva ancora più smaniosi.
Ed era sempre la stessa scena, ogni volta con un finale che non cambiava mai.
Era così convinto che anche quella sera avrebbe dovuto assistere al solito scempio, che quando la vide ferma all’ingresso del salone pensò per un istante di essersela immaginata.
Ma quando si mosse, capì che quella figura era davvero lì, e si stava avvicinando.
Era una donna che conosceva bene: aveva occhi azzurri, capelli neri, una frangia corposa e due canini nascosti dalle labbra socchiuse. Un aspetto ingannatore, apparentemente umano, ma in realtà la sua essenza apparteneva a ben altra razza: era una demone, esattamente come lui.
Sarmon si alzò in piedi, rivelandosi in tutta la sua imponenza: era alto, magnetico nei movimenti, e la veste nera che indossava era così leggera che sembrava aver vita propria.
Guardò la demone negli occhi, cercando di stabilire un contatto particolare con lei, leggendo nel suo sguardo quello che era così voglioso di sapere.
«Nova…?»
Un nome detto piano, nessuna domanda formulata apertamente, ma in quelle due sillabe c’erano così tanti quesiti, che potevano essere riassunti solo in un ordine.
Dimmi tutto.
La demone guardò il suo signore negli occhi, nello stesso modo in cui lui l’aveva guardata, e in quello sguardo si intuivano molte cose. Troppe, per poter essere dette lì, con una ventina di demoni alle spalle intenti a gridare e ad ammazzarsi l’un l’altro pur di affondare le zanne nella carne della loro preda.
E Sarmon non ci pensò neppure un istante.
«FUORI TUTTI!» tuonò, e nessuno osò più fiatare. Rimase solo l’eco della propria voce a far rumore, ma divenne sempre più debole. Quando scomparve, ci fu un silenzio di tomba: aveva venti paia di occhi puntati addosso, sgranati, inespressivi, vuoti. Occhi di mostri dalle fattezze bestiali, che erano semplicemente stati interrotti quasi all’apice della loro frenesia e non avevano letteralmente recepito l’ordine.
Fu abbastanza per far perdere il controllo al loro signore.
Si avventò sul demone più vicino, dalla forma umanoide ma con la pelle completamente trasparente e i piedi palmati. Con una mano gli afferrò il mento, infilandogli le dita all’interno della bocca per avere una presa più salda, mentre con l’altra gli strinse la gola, impedendogli di respirare.
Il demone lo guardò con quegli occhi enormi e neri, che ricordavano così tanto i pesci abissali, e Sarmon poté sentire l’odore della paura provenire da quella creatura che stringeva tra le mani.
Poi le zone della pelle a contatto con le mani del Maior mutarono aspetto: prima divennero rossastre, poi nere. Si aprirono tagli, comparvero pustole, e la necrosi si espanse diventando sempre più maleodorante.
Il grido raggelante del demone sembrava non dover finire mai, ma Sarmon non si scompose minimamente. E non si accontentò neppure di vedere il demone spegnersi tra le sue mani, tentando di dibattersi in preda a spasmi troppo dolorosi per poter essere immaginati.
Continuò nella sua opera di corrosione, fin quando non rimase altro che cenere.
«Fuori tutti.» Fu un sibilo, ma fu sufficiente: dopo che i demoni se ne furono andati, nel salone erano rimasti solo lui e Nova. E l’elfo.
«Di lui che ne facciamo?» chiese la demone, indicando il prigioniero.
Quando Sarmon guardò dentro la gabbia, vederlo ancora più spaventato lo eccitò alla follia. Avrebbe desiderato da morire approfittare del momento e torturarlo, farlo impazzire dal terrore fino a indurlo a pregarlo di ucciderlo. E anche allora, non gli avrebbe donato sollievo: questo era Sarmon.
Questa era la sua natura.
«Lasciamo che ascolti. Non vivrà più di un giorno.»
Vederlo piangere, disperarsi e invocare clemenza fu uno spettacolo sublime, ma c’era qualcosa di più urgente. Qualcosa che richiedeva l’attenzione del Maior. Subito.
«Che novità mi porti, Nova?»
«Sembra che la figlia di Kalabis sia stata rapita da uno dei prigionieri di Artika, che è fuggito usandola come ostaggio.»
Per Sarmon non fu affatto una buona notizia: era un imprevisto fastidioso, che sconvolgeva i piani che aveva messo a punto da molto tempo.
Cominciò a camminare avanti e indietro, mentre pensava a un modo per arginare il problema. Ed era dannatamente nervoso.
Pensò rapidamente a tante soluzioni possibili, ma gli sembrarono tutte così inadeguate che finì per scartarle rapidamente l’una dopo l’altra. Finché non ne rimase una soltanto.
«Jariel!»
Fu l’eco della sua voce a rispondergli, di nuovo, e mascherò ogni altro rumore nel salone. Quando scomparve, li sentì: dei passi da prima lontani, e poi sempre più vicini.
E poi lo vide: un altro demone dalle sembianze umane, esattamente come lui e Nova. Aveva i capelli corti e neri: un taglio assolutamente normale, piuttosto comune. Ciò che lo rendeva particolare erano gli occhi, per due motivi. L’iride: l’aggettivo più appropriato era impressionante, perché era completamente senza pigmento. Bianco. Non distinguibile dal bulbo oculare.
Poi c’era la pupilla: aveva una forma insolita, verticale. Ricordava molto quella dei serpenti.
«Jariel, c’è stato un cambio di programma…» cominciò Sarmon, guardando di sottecchi Nova. Non si meravigliò di sorprenderla a tremare: sapeva bene che la presenza di Jariel la metteva a disagio, ma quello era un dettaglio del tutto insignificante. «Sembra che la figlia di Kalabis sia stata presa in ostaggio da un prigioniero di Artika.»
«Mi metto subito sulle sue tracce, mio Signore» assicurò Jariel, non osando guardare Sarmon negli occhi. Una cosa che era solito fare, come forma di rispetto.
«Signore, se posso suggerire penso che se la ragazza si trovava ad Artika, doveva per forza avere un collegamento con il padre. Forse è lei ad avere quei rapporti» era Nova, questa volta. Sembrava inquieta, nervosa, come se ci fosse qualcosa in Jariel che la disturbasse: non voleva guardarlo.
Sarmon le sorrise, improvvisamente mellifluo.
«Nova, Nova... E tu pensi davvero che un padre premuroso come Kalabis avrebbe coinvolto la figlia in una faccenda che le sarebbe potuta costare la vita? No, io non credo. Che fosse connessa con lui non lo metto in dubbio, ma dubito che sappia che cosa possedeva il suo caro paparino.»
Nova non osò ribattere. Jariel non fiatò.
«Vediamo di convincerla a consegnarci spontaneamente quei rapporti, che ne dici Jariel?»
«Certo mio Signore.»
Sarmon sorrise di nuovo, sempre mellifluo, come se il suo atteggiamento nascondesse un doppio senso sottile ma pericoloso. «Jariel, gradirei che finissi il lavoro che il nostro caro Shem non ha portato a termine.»
«Lo farò mio Signore» il demone annuì, ma non osò ancora guardare il suo sire negli occhi.
«È tutto, puoi andare.»
Jariel accennò un inchino, ma prima di allontanarsi guardò Nova per l’ultima volta. E lei gli rispose con uno sguardo carico di disprezzo e ostilità che rischiò di fargli perdere il controllo: la demone notò subito come lo sguardo di lui si fosse incupito all’istante, come se provasse l’intenso, seducente desiderio di sopraffarla, di ridurla in ginocchio e di godere nel vederla sconfitta. Strisciante.
Ma Nova sapeva che non l’avrebbe mai potuto fare di fronte a Sarmon, ed era altrettanto consapevole dello sforzo immenso che Jariel stava facendo per controllarsi e costringersi a lasciare il salone.
E gioiva di tutto questo.
Quando rimasero da soli, lei e Sarmon, si sentì come una bambina a cui era stato strappato il giocattolo dalle mani.
«Voglio che tu faccia un lavoretto per me. Segui Jariel. Devi tenerlo d’occhio, senza che lui se ne accorga.»
Nova si accigliò, confusa. «Ma, se posso chiedere... Perché lo ha mandato a recuperare una cosa così importante se non si fida di lui?»
Sarmon sorrise, ambiguo.
«Perchè, mia cara Nova, uno come lui può rivelarsi estremamente utile.»


*


La prima cosa che Sari sentì quando riprese coscienza, ancora prima di aprire gli occhi, fu un rumore insolito che non avrebbe dovuto esserci, simile al rollio di una nave. Forse stava sognando.
Qualcuno la stava cullando, e quel movimento era così rilassante da farle passare la voglia di aprire gli occhi. In più c’era quel tepore, così piacevole da farle desiderare di dormire ancora.
Tutto il contrario del freddo, della neve.
La neve!
Fu sufficiente a mandarla nel panico. Si sollevò, improvvisamente sveglia, convinta di trovarsi chissà dove in mezzo al ghiaccio, assiderata e prossima alla morte, ma ciò che vide la lasciò basita: si trovava in un locale piuttosto grande, pieno di casse assicurate alle pareti con delle cinghie. E il rollio non se l’era affatto immaginato: era in una nave, all’interno di una stiva.
E, appoggiato con la schiena contro una cassa, Warknife la stava fissando.
«Che hai da guardare?!» sbottò Sari, a disagio. L’istante successivo desiderò potersi rimangiare quella domanda, immaginando chissà quale ritorsione da parte dell’evaso, ma lui non si scompose minimamente.
Sembrava annoiato a morte.
«Guardo te perché non c’è nient’altro da fare» rispose continuando a osservarla con insistenza e a Sari, per un istante, quel modo di fare ricordò Shem.
«Potresti smettere di fissarmi, per favore?» borbottò, cercando di non guardare Warknife in faccia. Sapeva che se l’avesse fatto, non sarebbe riuscita a impedirsi di esplodere in una scenata isterica.
«Perché?»
La sua domanda la spiazzò. Non era possibile che quell’uomo ignorasse i fondamenti delle relazioni umane. Non era un comportamento naturale fissare le persone, soprattutto con insistenza. Non
coscientemente, almeno.
«È imbarazzante!» esclamò sbigottita, ma non fu sufficiente per far desistere Warknife.
Ci rinuncio, pensò mentre si stiracchiò. E solo allora, guardando meglio la stiva, le venne in mente che non sapeva da quanto tempo fossero lì dentro, né tanto meno dove fossero diretti.
Non sapeva nulla, in effetti.
«Mi spieghi come siamo finiti qua dentro?»
«Devo riuscire a levarmi queste maledette catene…» mormorò Warknife, ignorandola completamente: un comportamento che l’evaso aveva già tenuto in passato, e che faceva imbestialire Sari. Aveva l’impressione che ci fosse qualcosa in lui, il riflesso di qualche difesa che gli impediva di concentrarsi a lungo su chi gli stava davanti. Come se avesse bisogno di fuggire, chiudendosi in se stesso e nei propri problemi, grandi o piccoli che fossero, in una forma di egocentrismo piuttosto infantile.
Ma Sari non poteva impedirsi di trovare la cosa irritante: dover passare tutto il tempo a contatto con una persona così sfuggente la prosciugava di molte energie.
«Allora?!» si piazzò di fronte, con le mani ben salde sui fianchi, decisa a strappargli una risposta.
Voleva sapere tutto: come avevano fatto a penetrare in una stiva, come erano riusciti ad arrivare al porto nonostante la neve e il freddo… Perché non era morta assiderata…
«Che vuoi?» le domandò, continuando a studiare le catene. Senza degnarla di uno sguardo.
Sari cercò di controllarsi, di rimanere calma. Uno sforzo piuttosto impegnativo. Riuscire a capire com’erano andate le cose sarebbe stato estremamente difficile, lo sapeva già.
«Come siamo finiti qua dentro?»
Si accorse subito che la sua voce era tesa, scocciata. E non l’aveva notato solo lei, a giudicare dall’espressione di Warknife. Quella domanda, posta con quel tono, aveva acceso il lato più imprevedibile e inquietante dell’evaso.
La stava guardando. Puntando, più precisamente; come un animale selvatico con la propria preda. E sorrideva perverso, allucinato, mentre per la testa gli passavano chissà quali pensieri.
Sari venne colta dal terrore all’idea di essere da sola e totalmente indifesa, in balìa di un assassino di massa così instabile.
Warknife balzò in piedi all’improvviso, così velocemente che per un momento Sari pensò che volesse attaccarla. Credette che il cuore le sarebbe scoppiato per la paura.
«A piedi?» suggerì l’evaso, cominciando a girarle attorno. Squadrandola da ogni angolazione.
Sari tremò quando lo sentì vicino. Le era alle spalle, e le stava sfiorando i capelli, di nuovo. Un tocco leggero, un contatto appena accennato, ma che fu sufficiente per farla rabbrividire.
Gettò un’occhiata alla botola sopra la sua testa. Era l’unica entrata, e di conseguenza anche la sola uscita. Ed era troppo alta, almeno per una fuga improvvisa.
«Come mai non sono morta?» cercò di temporeggiare, rimanendo immobile. In realtà, in quel momento sapere com’era riuscita a sopravvivere nonostante il freddo era l’ultima delle sue preoccupazioni.
Ma andava bene qualunque cosa, pur di distrarre Warknife dai suoi pensieri.
«Ti ho portata fino alla nave» le rispose distratto, sfiorandole lentamente il collo con il dorso della mano. E Sari dovette reprimere un gemito d’orrore.
Era terrorizzata, impietrita dalla paura, e non sapeva cosa fare. Se avesse tentato di sottrarsi al suo tocco, probabilmente lui l’avrebbe interpretato come una provocazione, con conseguenze che non voleva neppure immaginare.
Guardò di nuovo la botola. Forse qualche marinaio l’avrebbe potuta sentire, se avesse gridato con tutta la voce che aveva. E allora l’avrebbero trovata. E salvata.
Forse.
«E il freddo?»
«Ti sei scaldata con il calore del mio corpo. La mia temperatura rimane costante, sempre» l’uomo avvicinò il viso al collo di Sari, sempre di più, finché lei lo sentì così vicino da sentirsi bruciare.
Nessun contatto; solo una vicinanza oppressiva.
Quando sentì il suo respiro sul collo, si sentì morire. La stava annusando. La sua pelle. Lei.
Chiuse gli occhi, e in quegli interminabili istanti si ripeté che nulla di quello che stava accadendo era reale. Artika, il rapimento, lui: erano tutti frutto della sua immaginazione.
Doveva essere così.
Ma quando sentì qualcosa di morbido e bagnato, capì all’istante che per lei quello era decisamente troppo: la stava gustando.
Al colmo della disperazione, non riuscì più a trattenersi.
«AIU…» il grido le morì in gola, e il terrore le trafisse il cuore: la mano di Warknife le coprì prepotentemente la bocca, impedendole di parlare, mentre con l’altra le circondò la vita.
Non poteva allontanarsi da lui. Non poteva chiamare aiuto.
Era perduta.
Lo sentì fremere contro la sua schiena, in attesa.
«Se arriva qualcuno, vi ammazzo. Tutti» le sussurrò, rabbioso. E Sari non aveva dubbi: l’avrebbe fatto davvero.
Rimasero in silenzio, pronti a cogliere il più piccolo rumore, ma gli unici che sentirono furono il rollio della nave e le voci lontane provenienti dal ponte di coperta. Non c’era nessuno che si stesse avvicinando.
Nessuno aveva sentito il grido di Sari: fu un pensiero che la sollevò, ma allo stesso tempo la gettò nello sconforto. Cominciò a temere di non riuscire più a tornare a casa. Non tutta intera, per lo meno.
E ora che il suo stupido tentativo di chiamare aiuto era fallito, doveva fare i conti con la reazione di Warknife. Che, ne era sicura, non sarebbe stata piacevole.
Si aspettò qualcosa di forte, che le togliesse il respiro. Qualcosa di doloroso, che la costringesse a supplicarlo di risparmiarle la vita. Fu per questo motivo che quando Warknife la lasciò andare, Sari rimase stupita.
Lo guardò camminare avanti e indietro, ciondolante, con le mani sulla testa e il passo pesante. Ogni momento che passava sembrava renderlo sempre più agitato, e quando la guardava, nei suoi occhi c’era rabbia e un miscuglio di altre emozioni che Sari in quel momento non avrebbe potuto decifrare.
E non riusciva a fare altro che seguire con lo sguardo ogni suo movimento, impaurita dal pensiero di ciò che avrebbe potuto farle.
«Perché li hai chiamati?! Maledetta…» le sibilò velenoso. In un primo momento le fu impossibile rispondere, del tutto colta alla sprovvista. Quando si rese conto del vero significato di quella domanda, però, non riuscì davvero a trattenersi.
«Vorresti farmi credere che ora la vittima saresti tu, solo perché ho tentato di chiamare aiuto?! Sei pazzo, Warknife!» sbottò sputandogli addosso tutta la rabbia, l’impotenza e la tensione che aveva accumulato da quando lui l’aveva presa in ostaggio. L’istante successivo si ritrovò con la schiena contro una cassa, con un intenso dolore alla schiena e, soprattutto, con il peso del fuggiasco che la schiacciava, impedendole di muoversi.
«Come mi hai chiamato?»
Per qualche insolito motivo, Sari non provò paura. Solo rabbia.
Avrebbe desiderato spingerlo lontano, con forza, magari facendogli male. Proprio come lui ne aveva fatto a lei. Ma per quanto tentasse di liberarsi dal suo peso, l’evaso non si spostava di un millimetro.
E Sari era sempre più rabbiosa.
«Warknife.»
L’evaso si allontanò all’improvviso, e la guardò con un’espressione meravigliata. Non appena fu libera dal suo peso, Sari ne approfittò per rialzarsi, allontanandosi il più possibile da lui.
«No no no no... Non Warknife, dottoressa... Non Warknife...»
«Cosa vorresti dire?» gli domandò, senza capire dove volesse arrivare.
«Warknife è un nome falso, dottoressa.»
Sari lo guardò come se avesse perso il senno.
«Falso?! Che ragioni avresti per girare con un nome falso?!»
«Già... Perché giro con un nome falso? È una buona domanda, peccato che io non possa risponderti.»
Sari dovette fare uno sforzo non indifferente per costringersi a non inveire contro di lui, contro quell’atteggiamento snervante che sembrava divertirlo così tanto. Warknife rispondeva sempre in modo approssimativo e ambiguo, e quella era una cosa che la faceva imbestialire. Letteralmente.
«Dì, ti stai prendendo gioco di me?! Dimmi qual è il tuo vero nome!»
«È una richiesta o un ordine?»Warknife le si avvicinò, improvvisamente serio.
La guardò negli occhi, e lei sostenne il suo sguardo con rabbia e determinazione, senza mai cedere alla paura. Non tentennò neppure quando le posò una mano sulla testa.
Ma quando sentì quella mano tremare, e quando vide il viso dell’evaso sfigurato dall’ira, per un attimo ne rimase turbata: non per la paura di essere uccisa, ma per l’intensità di ciò che lesse nei suoi occhi.
Rabbia. Odio.
Così profondi da essere sconvolgenti.
«Tutti uguali…» mormorò Warknife con disprezzo, dandole improvvisamente le spalle. E Sari non riuscì a impedirsi di domandarsi il perché di quell’affermazione.
Tutti chi?
Lì, di schiena, Warknife sembrava non avere neppure il coraggio di affrontarla. La persona che fino a poco prima era capace di incuterle un terrore folle, in quel momento le sembrò così fragile e indifesa da stringerle il cuore.
Sentì la rabbia sbollire all’improvviso.
«Qual è il tuo vero nome, allora?» gli domandò di nuovo, questa volta con gentilezza. Warknife non si voltò.
«Perché dovrei dirtelo? Pensi che ti ucciderò, dimmi se sbaglio...»
Sari non rispose. Ammetterlo la faceva sentire a disagio, come se dovesse confessare la propria debolezza più grande, ma non poteva neppure negarlo.
Era ovvio che pensava che l’avrebbe uccisa, così tanto che il suo silenzio per Warknife fu una risposta più che sufficiente.
Quando si voltò a guardarla, nel suo sguardo non c’era più traccia dell’odio che si poteva intravedere pochi istanti prima. Sogghignava, sadico. Folle.
Ma Sari si proibì di provare paura.
«A cosa ti servirà sapere il mio vero nome, se tu morirai?»
«Perché fino ad allora voglio vivere conoscendo chi ho davanti» affermò la dottoressa con una spavalderia che non credeva di possedere.
Probabilmente Warknife si aspettava una reazione diversa da parte sua. Forse pensava che si sarebbe messa a piangere nel tentativo di muoverlo a compassione e convincerlo a liberarla, o più semplicemente era convinto di vederla tremare di paura, di nuovo.
Forse fu per quel motivo che non rispose a tono, sospirando mentre si sedeva in un angolo. «Fai come ti pare.»
Per qualche strana ragione, Warknife sembrava essersi calmato, e Sari preferì non replicare.
Nell’istante in cui si sedette, sentì il peso della tensione assalirla all’improvviso: era terribilmente stanca, e l’idea di chiudere gli occhi e riposare era allettante.
Ma per quanto lo desiderasse, il pensiero di dormire mentre quell’uomo era sveglio la faceva sentire inquieta. E poi c’erano tante cose che voleva sapere. Domande che le ronzavano in mente , a cui non riusciva a non pensare.
Molte riguardavano lo stesso Warknife. La cosa che aveva notato fin da subito, per esempio, era che l’evaso era molto diverso da come se lo ricordava: quando l’aveva incontrato sette anni prima, sembrava un’altra persona. La prigionia l’aveva decisamente cambiato.
Ma, soprattutto, il pensiero più ricorrente riguardava la condanna a morte che lui aveva ricevuto. Era una questione decisamente curiosa: nel regno era prevista la pena di morte, e chiunque finisse ad Artika presto o tardi veniva giustiziato. Perché, allora, era ancora in vita dopo sette anni?
E poi le bende che gli fasciavano le mani… Quella strana cella buia, isolata dal resto del carcere… Avrebbe voluto chiedergli ogni cosa, poter comprendere il perché, ma aveva timore di farlo. Era certa che si sarebbe agitato di nuovo, se gli avesse chiesto di raccontargli come stavano le cose. Ed era fuori discussione, ora che sembrava tranquillo.
Eppure, quel silenzio rotto solo dal rollio della nave la faceva sentire a disagio. Warknife non parlava, non la guardava, sembrava che non respirasse neppure. Era totalmente immobile.
«Che cosa intendi fare quando la nave attraccherà a Naima?» gli domandò, guardandolo di sottecchi per saggiare la sua reazione.
«Fuggirò il più lontano possibile» mormorò quasi sovrappensiero. In quel momento, avvolto nella penombra e con un debole raggio di luce che gli sfiorava gli stivali consunti, le sembrò stanco: della vita in generale, o forse solamente della propria.
«Se ti stai chiedendo che cosa ne sarà di te, non lo so ancora: dipende dal mio umore...» aggiunse, sorridendo ambiguamente. E per un attimo, Sari si domandò se l’evaso non stesse giocando con lei come il gatto con il topo.
«Perché non mi uccidi? Adesso non ti servo più, dal momento che sei scappato.»
«Perché chi lo sa... Non so prevedere cosa potrà accadere, mio piccolo e insignificante diversivo» sogghignò, e Sari ebbe la netta sensazione che in quel momento si stesse realmente divertendo a tormentarla, facendole credere che il rapimento sarebbe potuto finire in qualunque momento e nel peggiore dei modi.
«Non mi hai ancora detto qual è il tuo vero nome» cambiò discorso. Warknife la guardò con un’espressione malinconica.
Triste.
Un’espressione che non gli si addiceva, e che Sari non avrebbe mai pensato di vedere sul suo viso.
«Mi chiamo Namar.»

   
 
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