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Autore: Noth    16/03/2012    16 recensioni
Ero un mostro.
Mi avevano portato ad odiarmi.
Ero un qualcosa di sbagliato.
In un certo senso volevo restarlo, ma le mie proteste non furono accolte e mi mandarono nella clinica di St. Louis, specializzata nella cura dell’omosessualità.
Avrebbero dovuto guarirmi, ma le cose non andarono come sperato. Affatto, perché lì conobbi Kurt.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nobody said it was easy.
-Capitolo 1-







“Dov’è mio figlio?”
“Non temere, figliolo noi… troveremo una soluzione. Tu non andrai all’inferno.”
“Devi essere forte, non è colpa tua, guarirai, vedrai che tornerai etero come prima.”


Non riuscivo a smettere di pensare a quelle frasi, mi si erano impresse nella pelle, memorizzate al punto che avrei potuto ripeterle per filo e per segno lasciando che mi consumassero il cuore. Il mio coming out non era andato come previsto. Mia madre aveva iniziato a singhiozzare e, Dio, non c’era nessun suono paragonabile a quello. Mi frantumava il cuore. Mio padre si era alzato, aveva camminato avanti e indietro per qualche minuto, aveva imprecato, aveva alzato la voce, mi aveva chiesto come fosse successo, e non avevo saputo rispondere. Mi piacevano i ragazzi, era così, semplice come nascere, respirare ed amare. Nessuno mi aveva insegnato ad amare, avevo semplicemente amato ciò che percepivo come giusto.

Sentivano che qualcosa non andava in me, credevano fosse colpa loro e decisero per il loro figlio. Come sempre. Decisero che sarei guarito, in un modo o nell’altro, perché quella schifosa omosessualità era una malattia ed andava estirpata dal mio corpo malato ed infetto. Sarei tornato normale, e loro mi avrebbero amato come prima.

Ero un mostro.

Mi avevano portato ad odiarmi.

Ero un qualcosa di sbagliato.

In un certo senso volevo restarlo, ma le mie proteste non furono accolte e mi mandarono nella clinica di St. Louis, specializzata nella cura dell’omosessualità.

Avrebbero dovuto guarirmi, ma le cose non andarono come sperato. Affatto, perché lì conobbi Kurt.

 
 
 
La mia stanza era di un’anonimità terrificante. Pareti bianche, un tavolino bianco, un pavimento di legno bianco, uno sgabello bianco, un quadro raffigurante della neve e una finestra dalla quale entrava la luce del sole che, riflettendo su tutto quel bianco, diventava accecante.

Ero arrivato la sera tardi, quindi ero stato mandato in stanza senza troppe cerimonie, mi avevano spiegato delle cose che ero troppo stanco per ricordare e
mi ero svegliato quella mattina in un letto sconosciuto, in una stanza oltremodo luminosa e solo. Vuoto. Sbagliato. Errato. Abbandonato.

Erano le otto, e ricordavo qualche spezzone di istruzioni datemi la sera precedente. Svegliati, mettiti i vestiti che troverai nell’armadio, è la divisa degli internati. Scendi e fai colazione, poi vai in segreteria e ti daranno un programma.

Quella era una vita da robot senza sentimenti. Chissà cosa pensavano di noi tutti quei medici. Chissà che credevano. I loro sguardi freddi ed affilati erano
una tortura. Mi sentivo sempre sotto processo, ma che avevo fatto di così sbagliato? Non credevo che mai sarei stato punito per essermi innamorato.

Indossai una semplice t-shirt bianca e dei pantaloni troppo larghi per me che mi scendevano fastidiosamente lungo i fianchi sempre dello stesso orrido colore che rendeva tutto schifosamente banale e uguale.

Volevano uniformarci. Renderci una cosa sola, unica, completa, giusta, corretta. Normale.

Uscii in corridoio, i capelli spettinati tanto che mi importava di sembrare qualcuno che non ero? Di migliorarmi? Di non fare schifo? Ero già un qualcosa di
terribilmente sbagliato ed orrendo, quindi.

Scesi le scale assieme ad una decina di altri ragazzi. Quanti eravamo là dentro? Venti? Trenta? Tutti in una volta sola? E volevano guarirci? E inoltre, era
possibile guarire?

Mi trovai dinanzi ad un’altra enorme stanza bianca, dove una trentina di persone vestite tutte identiche si prendeva la colazione su un vassoio di plastica con una tazza sbeccata sopra.

Preso il mio e mi misi in coda. Il ragazzo davanti a me era appena più alto di quanto fossi io, con capelli castano chiari incredibilmente in piega per essere
internato in quella prigione. Guardava tutto con un’aria assente, gli occhi cerulei fissi in un punto lontano. Sembrava un ragazzino, non adatto a quel luogo,
anche se non è che io fossi molto diverso da lui.

La fila si smaltiva in fretta e, al banco, delle donne dalle facce completamente inespressive ti davano delle tazze con del caffè e un paio di biscotti dal colore
poco invitante. Ci sedemmo in ordine di arrivo, quindi capitai di fronte al ragazzo che stava davanti a me nella fila. Era impossibile non notarlo, anche in
mezzo a tutti quei corpi identici. Era luminoso, brillava, o meglio pareva portare il ricordo di un antico bagliore. Gli internati erano divisi a gruppi, un po’ per età e un po’ per tavolata. Alcuni stavano soli, e sembravano veramente infelici.

Io ero triste, ero arrabbiato ma, più di tutto, detestavo me stesso. Non volevo finire isolato per il resto della mia vita, così mi costrinsi a dire qualcosa al
ragazzo seduto di fronte a me.

Non sapevo come iniziare.

« Sono Blaine. » dissi, senza far capire che parlassi direttamente con lui, infatti non rispose, così mi schiarii la gola.

Lui alzò appena lo sguardo, non particolarmente attento. Pareva essere nel suo mondo, chiuso da chiunque volesse entrarci dall’esterno.

« Sono… Blaine. » ripetei, intingendo uno di quei biscotti sabbiosi nel caffè sbiadito ed arrossendo come un ingenuo.

« Sono gay, non sordo. » rispose, muovendosi a disagio sulla sedia.

Che caratterino. Avevo beccato il più simpatico del gruppo, perfetto, fortunato come sempre. Non avrei dovuto cedere alla voglia di interagire, al bisogno di
parlare, di aprire la bocca e semplicemente avere una conversazione normale, avrei dovuto stare zitto come avevo progettato dall’inizio. Mi misi a fissare il color fango del caffè dinanzi a me, dimenticando ogni cosa e con la sensazione nauseante che la giornata fosse partita col piede sbagliato. Tutto quel bianco mi metteva a disagio, tutto quel pulito, tutta quella luce… come se noi fossimo stati sporchi. E pagavamo pure per essere lì.

« Comunque io sono Kurt. » disse poi, il viso una maschera impenetrabile. Mescolava il suo caffè senza prestarci particolare attenzione. Pareva essere sempre troppo assorto per fare caso a tutto ciò che gli accadeva intorno e mi domandai da quanto tempo fosse lì, se stesse guarendo.

Forse avrei dovuto chiederglielo.

« Io… sono nuovo qui. »

Kurt annuì e non mostrò il minimo accenno di sorpresa.

« S’era notato. »

Deglutii il biscotto sabbioso e insapore. Mi lasciò un sapore amaro in bocca.

« Da cosa? » domandai, chiedendomi se la sua acidità fosse normale o se risultassi davvero così sgradevole da rendere detestabile l’idea di una
conversazione.

Il chiacchiericcio nella sala era pacato e privo di emozioni. Riecheggiava sulle pareti bianche della stanza distorcendosi paurosamente.

Kurt fece spallucce.

« Ti guardi ancora attorno come se tutto questo bianco volesse mangiarti. Osservi gli altri internati e ti domandi se siano guariti. Hai quello sguardo
sgomento che hanno tutti, i primi giorni. »

Mi scottai la lingua mentre bevevo e cercai di non darlo a vedere.

« Poi diventa come il tuo? »

Lui fece un verso scettico, sospirando.

« Non devi per forza essere un caso disperato come me. »

« Esistono dei casi disperati? »

Lui annuì, abbassando lo sguardo e cercando di non sorridere.

« Sono più malato di quanto non sembri. »

Mi morsi il labbro inferiore. Kurt non aveva idea di quanto fossi disperato. Chissà se anche lui si odiava, se si sentiva in colpa, solo, sporco, sbagliato, pazzo, escluso, obbligato ad omologarsi ad una massa che non riusciva a rispecchiarlo, una delusione per tutti a partire dai suoi genitori, un errore.

Quella sensazione era come una bestia oscura annidata dentro di me, che montava come rabbia, triplicandosi ad ogni respiro. Consumava ed inghiottiva ogni cosa, sempre più presente.

« Senti, vedo che sei molto impegnato, ma se tu mi spiegassi come vanno le cose qui, sarebbe fantastico. » borbottai, non sapendo come etichettare lo
sguardo che mi lanciavano i suoi occhi dal colore così mutevole. Erano davvero grandi, e mi guardavano criptici.

« Stai zitto. Dagli ragione. Fai come ti dicono. Soffri in silenzio. Non legare con nessuno. Sii normale come loro vogliono. »

Deglutii.

« Cosa mi faranno? »

Kurt stette zitto, mordendosi un labbro fino a che non divenne bianco, ed infine mi inchiodò con lo sguardo ed abbassò la voce, quasi sibilando.

« Ti uccideranno. Ti impediranno di essere te stesso e te lo faranno odiare. »

Feci un sorriso amaro, e guardai altrove.

« Per questo non c’è pericolo, mi odio già. »

« Dicevo così anche io. Fidati, non c’è mai fine all’odio per se stessi. » sussurrò, tanto a bassa voce che credetti di essermelo immaginato. « Ora alzati e metti
via tutto. Poggialo sopra il tavolo. È il momento della sedia elettrica. » disse, e mi oltrepassò sparendo in mezzo agli altri internati tutti identici.

Prima o poi, magari, avrei iniziato a distinguerli. Per ora, per quanto fosse strano, l’unico con il quale volevo avere a che fare era quel ragazzo silenzioso con
il quale avevo appena parlato.

C’era qualcosa di pericolosamente affascinante in lui. Qualcosa che mi diceva di non lasciare che mi passasse davanti agli occhi come niente fosse.

Non lo avevo deciso io, fosse stato per me avrei ignorato di sana pianta ogni essere vivente in quell’edificio, ma la verità era che ero terrorizzato all’idea di
rimanere solo.

I paramedici batterono le mani due volte, ce ne erano tre all’entrata di quella che avevo ormai identificato come la mensa, e ci indicarono di seguirli con un
sorriso che non mi rassicurava affatto. Mi sentivo un coniglio in gabbia, Kurt aveva parlato di una sedia elettrica, ed io volevo solo uscire da lì. Scappare.

Trovare la mia libertà, essere chi ero, amare chi volevo senza dover essere obbligato a uccidere una parte di me.

Perché mamma e papà mi avevano fatto quello? Ed io perché glielo avevo permesso? Ah, già, non avevo avuto scelta.


 
Ci condussero tutti davanti a delle porte, bianche come sempre, con una maniglia argentata e ci fecero entrare a turno. Non capivo cosa stesse succedendo, forse io avrei dovuto fare qualcosa di diverso da loro, effettivamente non ero ancora andato in segreteria a chiedere informazioni più dettagliate, ma tutti si erano alzati, ed avevo convenuto fosse il caso di imitarli.

Da dentro le porte qualche volta provenivano sei singhiozzi sommessi, e mi domandai se li stessero picchiando, se parlassero con uno psicologo di argomenti particolarmente dolorosi, ma non riuscii ad avere la risposta.

Kurt era nella fila accanto alla mia, si stringeva le braccia attorno al petto e pareva volersi arricciare su se stesso pur di non dover oltrepassare quella soglia.

Si sentì osservato ed alzò lo sguardo. Mi fissò con compassione, forse rendendosi conto che per me era la prima volta. Il primo giorno. Il primo tutto.

Era il mio turno e continuavo a fissarlo fino a che lui sillabò: “Non piangere.” Non capii a che si riferisse, finché non entrai e chiusero la porta alle mie spalle.

Davanti a me c’erano due medici ed un proiettore. Da esso diverse immagini di uomini nudi scorrevano sul muro bianco, dinanzi a una sedia. Accanto ad
essa delle pinze collegate ad un macchinario.

Sedia elettrica.

Cominciavo a capire.

Mi veniva già da piangere.






















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Spazio autrice:
Eccomi qua con questa nuova long in cui prometto molto angst, molto fluff e fin troppa Klaine.
Sono abbastanza documentata sull'argomento essendo molto legata alla faccenda.
In ogni caso spero che vi piaccia, spero sempre che ciò che scrivo faccia breccia nel cuore di qualcuno.

Voglio dedicare questo capitolo a El, Marta, Assunta, Martina, Sofia, Ilaria, Giulia, Bianca, Dorica, Luigi, Maria e un sacco di altre persone nel gruppo YKMN.
Vi voglio bene, grazie per il sostegno.

E grazie a voi che avete iniziato a leggere.

vostra,
noth.
   
 
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