- Questo sabato ti porto a divertirti
un po’ – gli aveva detto Manuel mentre gli apriva la portiera per farlo
scendere a casa, sotto la pioggia. All’inizio Marco era rimasto un po’ turbato
da tale invito, soprattutto alla luce delle rivelazioni che Manuel gli aveva
fatto.
Spero
capisca che non mi piace essere abbordato da ragazzi che non conosco, aveva pensato il ragazzo, mentre si
impiastricciava i capelli di pasta modellante come gli aveva insegnato Manuel.
Si guardò nello specchio, trovandosi carino, anche se non un adone. Sospirò,
sentendosi un po’ teso all’idea di dover andare in discoteca gay per la prima
volta.
*****
- Ci sono stato parecchie volte – disse
Manuel mentre guidava – è un bel posto, pieno di bei ragazzi. –
- Ok – bofonchiò Marco, perso nei suoi
pensieri.
- Ehi, che cos’hai? – domandò Manuel.
- Niente .. è solo che… ho un po’ di
paura, sai… è la prima volta che vado in discoteca. –
Manuel ridacchiò con sufficienza. -
Meglio che tu non lo dica troppo in giro. A ventisei anni entrare per la prima
volta in discoteca è un disonore. – A quella rivelazione, Marco aprì ancora di
più i suoi occhioni marroni, assumendo un’espressione da cane bastonato.
- Ma dai che scherzo. Piuttosto… - lo
guardò meglio – Togliti un po’ quei fanali? –
Marco obbedì, togliendosi quegli
occhiali tondi che coprivano il suo sguardo. Di solito li portava sempre,
nonostante riuscisse a leggere correttamente sia da lontano che da vicino, e
l’unico che l’aveva visto senza occhiali era stato Rocco, tutte le volte che avevano
fatto l’amore.
- Sei uno schianto! – esclamò Manuel
sorridendo. – Tu da oggi in poi resterai senza occhiali, d’accordo? –
- Ma… come? Non li porto per bellezza,
questi… non vedo! –
- Lenti a contatto, amore – ribatté
Manuel – Come le porto io, le porterai anche tu. –
Una volta arrivati, Manuel parcheggiò e
scesero entrambi dall’auto. Poco lontano dal parcheggio, un nutrito crocchio di
ragazzi se ne stava lì ad aspettare. Uno di questi urlò in direzione di Manuel,
che allungò il passo e andò ad abbracciarlo.
- Ciao Steve – disse, abbracciandolo e
baciandolo – tutto bene? –
- Vaffanculo – disse questi toccando il
sedere di Manuel – Io sto bene, e te? Sono secoli che non ti fai vedere,
stronzo. –
- Ho di meglio da fare che far da balia
ad una torma di passive come voi – disse Manuel con una risatina, mentre
salutava altri due ragazzi che si tenevano per mano. Marco immaginò che fossero
fidanzati.
- Ciao Alberto, ciao Thomas – li
salutò. Alberto era un ragazzo castano un po’ sovrappeso, che portava gli
occhiali ed aveva tutta l’aria di essere una specie di impiegato. Thomas,
quello che gli stava accanto, era tutto l’opposto: i suoi capelli rosso fuoco
erano sparati all’insù, aveva dei piercing colorati all’orecchio sinistro e
vestiva molto bene. Elegante ma senza essere vistoso. – Come state? –
- Bene – disse il ragazzo grosso,
Alberto – Abbiamo avuto momenti peggiori. –
- In che senso? – domandò Manuel.
- Niente – intervenne Thomas – il mio
cucciolone vuol dire che ha avuto un po’ da fare con il lavoro ed è stato sotto
pressione… nulla di pericoloso. – Alberto sorrise, e Manuel scoppiò in una
risata.
- Da quando in qua all’università c’è
qualcosa da fare? Andiamo… sei un impiegato pubblico, Alby!
Dillo che non fai un cazzo dalla mattina alla sera! –
- Carissimo Manuel, io sono quello che
da’ gli stipendi... Quindi lì lavoro soltanto io! –
E tutti si misero a ridere. Marco
compreso.
- E lui chi è? – domandò Steve – un tuo
amico? –
- Ah … sì. Ragazzi, lui è Marco. Un mio
vecchio compagno di scuola. –
- Piacere – disse Marco, ammezzando un
sorriso.
- Piacere mio – disse Thomas,
stringendogli la mano. Alberto si limitò a sorridergli e a ripetergli il suo
nome, mentre Steve lo salutò e gli fece l’occhiolino. Marco arrossì.
- Bene, ora che abbiamo fatto le dovute
presentazioni… che ne dite, entriamo? –
*****
La pista. Piena di ragazzi. Che
ballavano, bevevano, pomiciavano. Un chiasso quasi insopportabile, che a Marco
non piacque per niente. L’unica cosa bella per lui era la compagnia di Manuel,
che per etichetta era andato ad intrattenersi un po’ coi suoi vecchi amici, che
non erano tutti nel gruppo che gli aveva presentato all’entrata. Ce n’erano
altri, che sicuramente erano degli habitué del locale. Tutti maledettamente
simili se non addirittura uguali, con quelle acconciature elaborate e l’abbigliamento
con la bigiotteria in bella mostra. Si chiese se per caso il nuovo ragazzo di
Rocco fosse anch’egli una fashion victim come quelle
che stava vedendo in quel momento. L’unico diverso, nonostante la mise in tema
con la serata, era Manuel. Lo osservò da lontano: sorrideva, chiacchierava
amabilmente di chissà cosa con quegli sconosciuti. Di tanto in tanto questi si
voltavano a guardare altri ragazzi che passavano, poi come se nulla fosse
parlavano di nuovo con Manuel. Lui sembrava brillare di luce propria in mezzo a
quella bolgia infernale. Marco sapeva benissimo che tutti quei ragazzi non
erano lì per ballare ma per rimorchiare qualcuno da portarsi a letto per la
serata.
Ma che senso poteva avere una vita così
selvaggia, passata tra serate alla spasmodica ricerca di qualcuno su cui
riversare i propri istinti animali?
Anche se…
…di notte faceva sogni strani.
Da quando Rocco l’aveva lasciato, il
suo sonno non era stato più normale come prima. Aveva iniziato a sognare cose
strane, di fare sesso con uno sconosciuto, di farlo con più di una persona, di
essere violentato. Ad una prima battuta, che avrebbe visto come censurabili
quei sogni, Marco avrebbe risposto dicendo che mentre sognava quelle cose, ci
provava gusto. Ma giammai avrebbe ammesso (nemmeno con sé stesso) di aver
bagnato le braghe del pigiama mentre faceva quei sogni.
Se la psicologia non è un’opinione,
Marco sentiva inconsciamente bisogno di sesso.
È
solo che non vuoi ammetterlo con te stesso. Pensò, mentre sotto i suoi occhi passavano i più bei
ragazzi che avesse mai visto. Così ben vestiti, con quei visi perfetti… e quei
vestiti, che sembravano appena usciti dalla televisione. Non che lui fosse così
superficiale, di solito preferiva un brutto con un cuore ad un bello fuori ma
senza cuore, però quella sera era stranamente attratto da tutti quei
ragazzotti. Li guardò uno ad uno, valutando, pensando, immaginando. Chissà chi
erano quei ragazzi nella vita di tutti i giorni, come si chiamavano, che cosa facevano
lì, che passato avevano, ma soprattutto… Se avessero accettato di passare una
notte con lui, Marco.
Improvvisamente, mentre era perso nelle
sue elucubrazioni, Marco si sentì toccare la spalla. Manuel gli fece l’occhiolino
e gli parlò nell’orecchio ad alta voce, per farsi sentire nella musica
altissima.
- Hai trovato qualcuno che ti piace?!? –
domandò Manuel, la bocca vicinissima all’orecchio di Marco, il suo alito che
sapeva di menta.
Marco si voltò e rispose allo stesso
modo a Manuel – Sì! Capperi, ce ne sono tanti che mi piacciono! – rispose Marco,
sorridendo.
- Quale in particolare? – domandò Manuel
di rimando.
Prima di rispondere, Marco si guardò
intorno.
- Mi piace quello – disse Marco, e con
lo sguardo si rivolse poco più avanti di sé stesso.
- Quale? – domandò Manuel – Indicamelo per
favore. –
Marco indicò senza farsi notare troppo
il ragazzo che lo attirava.
Con una risatina, Manuel gli rispose –
Ti piace Vittorio? – rise ancor più forte.
- Perché ridi? – Marco fece un’espressione
sconsolata.
- Lascia perdere – disse soltanto
Manuel, evitando accuratamente di dirgli che Vittorio a letto era una frana,
che quando andava bene veniva troppo in fretta, quando andava proprio male, non
gli tirava nemmeno. Di lui Manuel sapeva solo che era complessato a livelli
stratosferici per via del suo lavoro, e che prendeva psicofarmaci. Infatti si
stupì di vederlo sorridente, quella sera. Sicuramente aveva preso una buona
dose di Prozac appoggiato al lavandino del bagno, prima di uscire di casa.
Marco scosse la testa, sospirando. Nel
frattempo si guardò intorno. Poco lontano da loro, c’erano Alberto e Thomas che
ballavano abbracciati. Thomas aveva le braccia intorno al collo di Alberto, e
questi gli cingeva la vita. Si guardavano negli occhi, sorridendosi dolcemente.
Immaginò che nonostante il chiasso della musica, loro riuscissero a sentirsi
comunque. Si sentivano ad un livello superiore, quello del cuore. Quella
dimensione dove ogni attimo è prezioso e ti sembra che scivoli via troppo in
fretta, e vorresti non finisse più, dove non ti chiedi più che senso ha la
vita, perché guardi negli occhi il tuo compagno e trovi tutte le risposte.
Marco sospirò guardando quei due teneri amanti, così diversi fisicamente eppure
così affini che sembravano avvolti da un’aura rosa di felicità.
Accanto a lui, Manuel pensò quasi le
stesse cose, ma scuotendo la testa. Soltanto una decina d’anni prima lui si
sentiva proprio come si sentivano i suoi due amici in quel momento, con Adelmo…
Poi qualcuno aveva deciso che non era più una cosa possibile, ed era finita.
Che senso aveva innamorarsi, volare così in alto, se c’era costantemente il
rischio di cadere e addirittura morire? Lui era caduto da parecchi chilometri
sopra le nuvole, e non era morto, anche se c’era andato parecchio vicino.
Ricordi si fecero strada nella sua mente. Il flash di un lavandino, un
rubinetto che vomitava acqua fumante. Poi di nuovo lo sguardo di Manuel tornava
sulla pista, con tutta la sua gente ed i suoi amici che ballavano. E un altro
flash. Le sue mani appoggiate al lavandino che lentamente si stava riempiendo
del caldo liquido chiaro.
- Manuel, cos’hai? – la voce di Marco
che gli parlava, ma che era solo un mero sussurro per la sua mente, lontana
anni luce da quel momento. Ignorandolo, Manuel si allontanò, facendosi strada
tra la gente, diretto verso un posto più consono.
Il bagno era affollato da chi aspettava
che si aprisse una delle quattro porte dei gabinetti. Manuel si accasciò
accanto ad un lavandino, con la testa che gli girava. Aprì il rubinetto e si
sciacquò il viso. Improvvisamente l’acqua cambiò di colore, diventando rossa
come il sangue… E nelle sue mani vide il rasoio di suo padre macchiato.
Strabuzzò gli occhi, sciacquandosi nuovamente il viso. Poco dopo sopraggiunse
Marco, che lo apostrofò preoccupato – Manuel? Non ti senti bene? – domandò.
Manuel lo guardò come se fosse stato un
alieno, come uno sconosciuto. Poi scosse la testa e si sforzò di sorridere.
- Sto bene – tagliò corto – Devo solo
aver bevuto troppo. Che ore sono? –
Marco guardò l’ora sul display del suo vecchio
Ericsson. – Le tre e un quarto – dichiarò, grave.
- Che dici, alziamo i tacchi? – domandò
Manuel.
Marco annuì, continuando a guardarlo
preoccupato.
- E smettila di guardarmi così – disse Manuel,
arrufandogli i capelli. Marco protestò allegramente,
felice di sapere che il suo amico stesse bene.
- Non me la sento di guidare, però –
disse ad un certo punto Manuel – Guida tu, vuoi? –
- Certo! – disse con entusiasmo Marco,
che da quando aveva preso la patente non aveva più toccato un volante in vita
sua.
- Bene. Andiamo allora. – dichiarò Manuel,
e insieme, mano nella mano, si avviarono all’uscita.