Storie originali > Fantascienza
Segui la storia  |       
Autore: Lilmon    22/03/2012    1 recensioni
Chi è l'invasore? L'invasore è un personaggio ostile, malvisto da qualunque popolazione. Giunge sulla terra degli altri, imponendo il suo potere e sottraendo ogni possibile bene riutilizzabile. L'invasore è crudele, l'invasore è un mostro.
Genere: Avventura, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Grazie mille a tutti. Sono arrivato al sesto e la voglia è ancora quella del primo capitolo (questo però, al contrario degli altri, mi è costato sette alla settima camicie). Il capitolo è prettamente scientifico, dunque scusate se è molto complesso, ma non potevo far molto altro per semplificarlo. Buona lettura!

 

Attrazione.

 

"Come pioggia, metallo"

 

Le venticinque Imperial giunsero in vista di Giove dopo soli quattro giorni di viaggio. Il piano era abbandonare le grandi navi, che sicuramente sarebbero state avvistate dagli alieni, dietro il satellite Io. Si proprio così: le navi sarebbero rimaste nell'orbita del pianeta, seguendolo nella sua rotazione attorno a Giove come un'ombra e nascondendosi proprio dietro di esso. Così salimmo tutti sulle navette da sbarco e ci avvicinammo al pianeta. Era bellissimo. Non quanto la mia amata Terra, ma aveva un non so che di accattivante. La sua atmosfera conducente, il colore arancio brillante, il suo perenne e titanico tornado. Erano proprio quelle cose che mi avevano portato a scegliere un indirizzo scientifico all'università. E se il pianeta si prospettava un titanico gioiello del cosmo, chissà le sue forme di vita. Da bambino sognavo sempre pianeti esotici e lontani; ed ora ne avevo uno enorme davanti agli occhi. Entrammo in collisione con l'atmosfera e i vetri s'infiammarono. Tutta la nave iniziò a tremare e per la prima volta, lo ammetto, ebbi paura. I vetri naturalmente resistettero all'impatto e la nave si librò serena nel cielo del pianeta. Fin da subito restammo tutti abbastanza sconvolti: da lassù sembrava non esserci terra. Solo un'immensa distesa di magma e lava bollenti, che pareva essere il nucleo minerale fuso del pianeta. Eravamo sconvolti, tutti davano per scontato la presenza di terra siccome la sonda era atterrata sana e salva inviandoci immagini di forma di vita extraterrestre, e le ambascerie erano persino incorse proprio in quella civiltà evoluta che dominava il pianeta. Il pilota aprì la mappa virtuale tridimensionale del pianeta e cercò il punto di atterraggio della sonda e delle ambascerie, la mappa indicava un punto esattamente sotto di noi. Ma laggiù, con estrema evidenza, terra non c'era. Eravamo disperati. Nemmeno da cinque minuti su Giove e già dispersi nel nulla. Noi comunque non dovevamo atterrare nello stesso punto delle altre due missioni, altrimenti ci avrebbero senz'altro eliminati. Dovevamo spostarci di qualche chilometro in qualsiasi direzione, dovevamo trovare un posto disabitato, in mezzo al nulla; lì avremmo prima installato una base operativa. Noi scienziati della missione avremmo studiato il pianeta, la sua geologia e la sua meteorologia, la sua fauna e anche la flora; gli operai ed i soldati invece avrebbero preparato l'accampamento militare e l'infermeria. Quando il comandante della spedizione, Thomas Valliage, tentò di prendere parola attraverso la radio, il suono giunse a noi distorto. Eravamo infatti smistati in trenta navicelle differenti di medie dimensioni, mentre il capitano e i militari occupavano le prime venticinque, noi scienziati e medici occupavamo le ultime cinque. I piloti non sapevano più cosa fare. Pensai ad un modo per comunicare. Urlai -Trovato! Il buon vecchio codice Morse-; era un sistema ormai antiquato nel XXIII secolo, ma pur sempre utile in casi d'emergenza come quello. Il pilota mi guardò stupito e disse -Ma come ho fatto a non pensarci prima?-; prese la cloche e iniziò ad usare i fari per inviare il messaggio alle altre navicelle. Il dialogo era più o meno questo -Che facciamo?- -Scendiamo!- -No! Sarebbe troppo pericoloso, le temperature sono altissime!- -Procediamo a quest'altezza fin quando non avvisteremo terra- -Ci dividiamo?- -No! Non potremmo comunicare-. Così partimmo alla ricerca di terra; mi sentivo uno di quegli antichissimi esploratori che si studiano a scuola in cerca del Nuovo Mondo. Nella disperazione generale, ero felice ed elettrizzato. E scoprii mio malgrado che quest'ultimo termine era proprio quello giusto.
Dopo mezz'ora di ricerca una nave segnalò la presenza di uno strano oggetto volante, esso non emanava né calore, né radiazioni. Ci avvicinammo e più ci avvicinavamo, più avevamo tutti la stessa impressione: quella era terra. Era terra volante, cioè, un'isola fluttuante. Nessuno poteva credere ai propri occhi. Intanto che le navi discendevano verso quella fantastica zolla, io avevo tirato fuori dalla borsa il mio taccuino e stavo facendo qualche schizzo. Era un'enorme grande pezzo di roccia a tratti nera, a tratti marrone, a tratti anche sull'arancio. Il mio caposezione era rimasto a bocca aperta; nessuno sapeva cosa dire. Eravamo a qualche centinaia di metri dal suolo e potevamo vedere che sopra a questa meraviglia della natura vi era della flora; dunque molto probabilmente vi sarebbe anche stata della fauna. Un entusiasmo spropositato colpì tutta l'equipe. Gente che esultava, che saltava, che pregava: il caos. Toccammo infine il suolo, in quei secondi relativi all'atterraggio c'era un silenzio tombale all'interno delle nostre navi; in realtà all'interno di tutte, siccome il segnale radio aveva ripreso a funzionare. Indossammo le tute, entrammo nella camera di pressurizzazione, i portelloni si aprirono e saltammo fuori dalla navicella. La forza di gravità era davvero pesante, ma sostenibile grazie anche alle tute. Il termometro dava cinquantadue gradi centigradi e l'aria sembrava essere carica d'elettricità statica. Su Giove infatti ci avevano informato che le tempeste di scosse elettriche erano all'ordine del giorno, ma per ora non ne avevamo avvistata nemmeno una. Ero su Giove da poco più di un'ora e già lo amavo. La Terra era diventata così banale e sorpassata rispetto al paradiso che avevo davanti agli occhi. Mi ero innamorato del padre degli Dei.
Gli operai, che erano stati inviati con noi su Giove, iniziarono la costruzione di una C.A.A. (Capsule for Artificial Atmosphere) dello stesso modello di quelle marziane; i soldati aiutavano, senza però intralciare i lavori; gli ingegneri controllavano il problema delle trasmissioni radio, ma stranamente i macchinari sembravano tutti essere in ottime condizioni. Noi scienziati, sotto suggerimento del caposezione, una genetista indiana trentenne di nome Nur Arun, iniziammo subito le ricerche: e così i geologi cominciarono a raccogliere campioni del suolo terroso, i cartografi presero a definire la zona su carte di varie dimensioni e infine noi biologi e botanici ci aggirammo tra i vegetali lì presenti. Erano strane piante. Come mi avvicinai notai subito che nei loro canali scorreva un liquido luminoso, strappai una foglia, la luce scomparì. Ero affascinatissimo, ma anche molto confuso. Dopo una giornata di esplorazione all'interno della boscaglia non trovammo segni di vita animale, ma ricavammo vari campioni vegetali. L'unica cosa negativa del pianeta è che vi erano circa quattro ore e mezza di luce alternate ad altrettante di buio; così, passate circa quattro ore, facemmo ritorno sulle navette, e lì per ben cinque ore circa studiammo i reperti.
Passammo ore al microscopio a studiare quelle cellule vegetali. La loro clorofilla era molto differente da quella presente sulla terra: essa non reagiva alla luce. Non capivamo come i cloroplasti di quelle piante potessero produrre sostanze organiche senza utilizzare l'energia luminosa del Sole. La caposezione ci spronava a non demordere, ma le strutture erano talmente complesse e differenti rispetto a quelle Terrestri, che individuare la fonte di energia usata per sintetizzare il glucosio ci sembrava un'impresa impossibile; a un certo punto Nur disse -Perché non provate a sollecitare quelle molecole di clorofilla con qualche altra forma di energia?-. L'idea era tanto geniale, quanto semplice, e mi ripetei di essere stato uno stupido per non averci pensato prima. Io e il gruppo dei biologi e botanici cercammo di pensare grazie a quale altra fonte di energia naturale potessero sostentarsi quei vegetali. L'energia termica la scartammo subito poiché difficilmente trasformabile in qualunque altro tipo di energia, dunque pensammo all'energia per eccellenza: l'energia elettrica. Sembrava una pazzia, ma l'idea ci balenò in mente anche grazie all'energia statica presente nell'atmosfera (della quale presto avremmo scoperto la causa). Prendemmo delle molecole di quella clorofilla aliena, e le esponemmo all'energia elettrica: la clorofilla reagiva, cedendo elettroni eccitati all'ambiente. Tutti fummo stupiti, quelle piante non erano dunque fotosintetiche, ma piuttosto elettrosintetiche. Comunicammo la scoperta alla caposezione, che fu molto entusiasta del nostro lavoro e disse -E così questa clorofilla userebbe l'energia statica per eccitare i propri elettroni e farli passare a livelli energetici superiori? Fantastico. Una specie di robot naturale-. I geologi intanto avevano esaminato attentamente i campioni di roccia raccolti e avevano stilato una lista di componenti, Nur leggeva -Allora: ottanta per cento ferro, cinque per cento alluminio, cinque per cento carbonio, tre per cento azoto, tre per cento sodio, tre per cento magnesio. Accidenti. Quale minerale ferroso in più grande percentuale?-, e il portavoce dei geologi rispose -Magnetite, settanta per cento-; tutti restammo in silenzio; la genetista disse -Magnetite? Il materiale con più alto tenore di ferro?-, il geologo annuì, -Interessante, davvero; grazie a tutti per il duro lavoro, ora potete pranzare!-. Ci avviammo verso la sala cucina della navicella. Pranzare di notte aveva un non so che di affascinante. C'era che si cibava unicamente di pillole, io preferii un po' di carne secca, almeno in quell'alimento di vere proteine dovevano essercene per forza (almeno credo). Dopo un po' di riposo, circa un'ora o un'ora e mezza, i lavori ripresero.
Verso le tredici (contavamo un giorno ogni tre rotazioni, cioè circa ventisette ore, per non cambiare drasticamente le nostre abitudini di vita) e quindi dopo circa sette od otto ore di lavoro, la C.A.A. era stata completata. L'ultimo passo era installare un depuratore dell'atmosfera che, usando il metano libero nell'aria come fonte di energia combustibile, catturasse ossigeno (ve n'era grazie alle piante elettrosintetiche, ma non abbastanza da poter respirare liberamente) da immettere nella cupola. In circa un'ora e mezza fu installato e reso funzionante. I geologi intanto misurarono il campo magnetico del pianeta. Era cento volte superiore a quello terrestre. Erano allibiti. Noi biologi e botanici trapiantammo alcune piante in dei vasi, ma per quella notte le lasciammo ancora all'aria aperta. Quella sera tardammo un po' a rientrare nella navicella, erano circa le quindici e mezza e s'era già fatto buio. Tutti restammo stupiti: le piante emanavano luce. Quella stessa strana luce che notai il giorno precedente, quasi impercettibile, emanata dai canali di comunicazione delle foglie. Le piante stavano davvero brillando. Rimanemmo incantati, senza fiato: un 'orchestra di piante di ogni specie stava eseguendo la sua sinfonia luminosa, dal viola scuro di alcuni fiori, al lilla chiaro di una specie strana di frutti ricoperti di peli (simili ai kiwi per certi aspetti, ma appunto lilla); dal verde intenso, che predominava su tutte le altre sfumature, al giallognolo lieve che proveniva a stento ostacolato dalle spesse cortecce; dal rosso sangue di alcuni frutti ripiegati su se stessi a forma di spirale, all'arancio lieve di alcuni pomi che erano totalmente simili ad arance. Ci sentimmo in paradiso, qualcuno piangeva. Passammo un'ora circa a guardare quello spettacolo, poi vinti dalla stanchezza decidemmo di rientrare nelle navicelle a riposare. Prima di coricarmi sulla branda, aprii il cofanetto che avevo trasportato con me fin lassù; di tutti gli oggetti presi il cuore di ambra che mia madre mi aveva regalato per la mia laurea in biologia, vi era intrappolata dentro una Meganeura, una libellula preistorica variopinta. Lo guardai, pensando a ciò che avevo lasciato a casa, sulla Terra. Mi venne malinconia; poi ripensai al fantastico mondo su cui ero atterrato, l'eccitazione sopraffece la tristezza, posai il ciondolo e mi coricai.
L'indomani mi svegliai alle due circa del nuovo giorno, feci colazione e poi mi preparai per uscire sul gigante. Entrai nella cabina di pressurizzazione ed aprii il portellone. L'equipe di ricercatori era quasi tutta raggruppata pochi passi avanti. Li raggiunsi. Nur stava impartendo ordini, -Tu ti occuperai della raccolta dati riguardanti la superficie! Tu invece controllerai la forza magnetica esercitata dal nucleo esterno!-, smisi di ascoltare confuso e chiesi ad un mio compagno lì presente cosa stesse accadendo, lui mi disse che Nur aveva ipotizzato un concetto quella notte e che ora stava organizzando una spedizione verso il nucleo del pianeta, per raccogliere vari dati. Nur mi guardò, ma passò oltre con lo sguardo; non avrei fatto parte della spedizione, ma d'altronde ero un biologo, non servivo a nulla per una missione di quel genere. Finito di decidere il gruppo di ricercatori per la missione, disse agli altri -I militari stanno costruendo la caserma, l'infermeria e il laboratorio di ricerca assieme agli operai dentro la C.A.A.; l'atmosfera artificiale è pronta, una volta entrati vi toglierete le tute ed andrete ad aiutarli, chiaro? Dobbiamo impegnare tutta la forza lavoro possibile per l'edificazione di quei tre stabili. Su andate!-. Noi esclusi dalla missione dunque entrammo nella cupola e ci demmo ad un po' di sana manovalanza. Nur era con noi sotto la cupola, che comunicava con la navetta, ma c'erano problemi, urlava -Come sarebbe a dire che non riuscite ad avvicinarvi?-, risposta, -La forza magnetica ci spinge via! E' troppo forte!-, la caposezione, -Portate quel culo attaccato al nucleo chiaro?-, il povero geologo, -Ma signora...-, e lei interrompendo la comunicazione, -Buoni a nulla, mi hanno lasciato su Giove con dei buoni a nulla! Com'è possibile che il campo magnetico di questo stupido pianeta sia così forte da respingere una navet-, si bloccò come un videoclip in pausa, i suoi occhi brillarono e urlò puntando il dito al cielo rossastro (poiché vi erano nuvole di idrogeno allo stato liquido) -Ma certo!!! Settanta per cento ferro, magnetite, torna tutto!-. Corse via, si mise la tuta, uscì e tornò sulla navetta. Io ero molto confuso, ma un militare mi gridò -Muoviti, il cemento non si fa da solo!-, accorsi.
Quando i geologi tornarono paurosi (per la furia della "generalessa", così la soprannominavamo), Nur ci convocò tutti, ricercatori e non, in mezzo alla C.A.A., aveva con se degli oggetti. Disse -Seduti!- e si buttò lei stessa a terra, aprì le gambe e vi posò in mezzo i due oggetti; -Li vedete questi? Bene! Questo- e prese nella mano destra il primo attrezzo, una specie di disco tondo, composto da due anelli concentrici che giravano ad altissima temperatura e velocità in senso uno opposto all'altro; riprese -Questo è un piccolo marchingegno che ricrea un modesto campo magnetico, anche molto instabile- ed abbassò la testa e roteò la mano -Comunque... Ah si! Questo invece- e prese nella mano sinistra il secondo oggetto, un sasso nero -Questo è un campione di roccia di cui è composta questa "isola fluttuante", questa è magnetite, il minerale con la più grande concentrazione di ferro, se così vogliamo semplificare- e fece di nuovo quel gesto con la mano; aggiunse poi -Be' guardate cosa accade se metto questo sasso sopra il generatore di campo magnetico-; il sasso fluttuava. Eravamo tutti stupiti dalla genialità di Nur (almeno noi ricercatori, i soldati e gli operai sembravano molto confusi). Nur esplicò anche per questi ultimi, -Il nucleo di Giove è composto da due parti, sostanzialmente un po' come quello della Terra-, quel gesto stava divenendo un tormentone, -La parte esterna deve, per natura delle cose, contenere minerali allo stato semi-liquido; la parte interna a pressioni e temperature molto elevate contiene invece materiale roccioso semi-solido. Queste due sfere concentriche girano in una certa direzione grazie a dei moti convettivi interni a loro. Bene!-, si alzò in piedi, -Come questi due dischi-, ed indicò il piccolo generatore che teneva nella mano destra, -Ruotano in senso opposto creando un campo magnetico modesto che sostiene questo piccolo pezzettino di magnetite, così devono fare i due nuclei del pianeta, creando un campo magnetico cento, mille, milioni di volte più potente- (forse si era lasciata prendere un po' troppo la mano) -Sostenendo questa enorme zolla di magnetite!-. Tutti noi applaudimmo. E Nur si inchinò più e più volte, dicendo di essere molto imbarazzata. Ma un militare tra la folla, doveva essere davvero acuto, chiese alla professoressa -Scusi, ma da dove arriva questa zolla? E' caduta dal cielo?-. Nur rispose -Semplice! E' statisticamente probabile che la magnetite fusa, presente nel nucleo del pianeta in formazione, grazie alle incessanti spinte del campo magnetico si sia distaccata dalla massa di magma e lava del nucleo, portando con se anche altri materiali. Le piccole... Chiamiamole sfere di minerali fusi, chiamiamole pure bolle, anche se non è scientificamente corretto-, potete immaginare quale gesto fece con la mano, -Questi agglomerati di magnetite ed altri minerali si sarebbero poi attratti tra di loro come magneti, fondendosi; formatisi enormi blocchi di materiale fuso, questi poi avrebbero raggiunto pian piano una certa altezza altezza, l'altezza limite, oltre al quale la forza magnetica del nucleo non sarebbe riuscita a spingerli. E qui infine, lontane dalle elevate temperature del nucleo fuso, avrebbero iniziato a solidificarsi, creando questo gioiello della natura-. Il militare, rimasto di stucco, rispose con la semplice interazione -Wow!-. Un altro grande applauso risuonò in tutta la cupola, questa volta accompagnato da urla di acclamazione.
Quel giorno mi innamorai della mia caposezione, non un amore fisico, carnale, bensì un amore filosofico, un amore intellettivo, un amore profondo, radicato nel mio animo più di quanto pensassi. Un amore che non sarebbe stato soddisfatto.

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantascienza / Vai alla pagina dell'autore: Lilmon