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Autore: Eirien    22/03/2012    3 recensioni
La notte degli inganni ha avuto ufficialmente tre vittime: il Gran Sacerdote Shion, Aioros di Sagitter, la sanità mentale di Saga di Gemini.
Questo, perché non tutti sanno che due giorni dopo Mitsumasa Kido è andato in cerca di un Cavaliere d'Oro. E che si può vivere due volte lo stesso destino, anche se una volta sarebbe già troppo.
Genere: Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aquarius Camus, Chameleon June, Nuovo Personaggio, Phoenix Ikki, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Track #07: Something To Believe In TRACK # 07

SOMETHING TO BELIEVE IN

I lost all faith in my God,
in his religion too
I told the angels
they could sing their songs to someone new
I lost all trust in my friends
I watched my heart turn to stone
I thought that I was left to walk this wicked world alone…

(Bon Jovi)



— Avevi chiesto di noi, Capo? —

Martin Rothstein sollevò la testa dal fascicolo che stava leggendo. Tempi moderni, quelli, e quindi era diventato d'obbligo, per il loro dipartimento, dannarsi occhi e pazienza su un maledetto palmare ultimo grido con l'equivoco hobby di riavviarsi giusto al momento di salvare le annotazioni. Colse al volo l'occasione per mettere da parte l'oggetto spiritato, soffocando una bestemmia poco edificante e ripromettendosi di farlo ingoiare al responsabile della logistica quanto prima.

— Siete soli? —

Alex si guardò alle spalle, teatrale e provocatorio. — L'unica cosa che vedo qui, oltre a me, sono le chiappe di McArthur — ghignò, guadagnandosi una gomitata nelle costole, precisa e letale. Seguì la sua collega all'interno dell'ufficio, chiudendo la porta con attenzione. "Ma quanto siamo irritabili, ragazza mia…"

Katie lanciò un'occhiata preoccupata a Martin, che in quel momento era scomparso sotto la poltrona girevole che occupava. Stava armeggiando sotto la seduta, e la ragazza lo osservò, con curiosità e una certa apprensione, estrarre un lungo strumento a forma di antenna.

— Non mi dirai che ci eri seduto so… — Una mano fulminea tappò la bocca ad Alex, mentre l'aggeggio veniva fatto scorrere lungo tutto, ma proprio tutto, il suo perimetro. — Mollami, pervertito, o ti… — tentò di ringhiare il ragazzo, afferrando la mano. Si ritrovò in fretta sul pavimento, con il fiato bloccato da un cazzotto alla bocca dello stomaco.

Martin puntò l'affare verso Katie, che si limitò ad un lungo, inquietante sguardo di avvertimento. L'uomo esaminò anche lei con rapida efficienza, quindi ripose l'arma dove l'aveva trovata. Lui e Alex emersero al di sopra della scrivania nello stesso, preciso istante, il largo sorriso del padrone di casa che fronteggiava beffardo l'espressione funerea del suo ospite.

— Bene — concluse Martin —adesso possiamo parlare. —

— Quell'… attrezzo, da dove diavolo viene? — li interruppe la ragazza, con l'aria di immaginare già la risposta.

Martin si rilassò sulla poltrona, un sorriso ancora più vistoso sul volto. — Quello, ragazzi miei, è il più avanzato sistema di rilevamento di microspie che sia mai stato concepito da mente umana. Purché non ne abbiate mangiata una, su di voi non c'è l'ombra di una cimice. —

— Non sottovalutarti, capo. Credo che l'avresti trovata anche se ce l'avessi avuta nell'intestino — sibilò Alex, massaggiandosi in punto il cui era stato colpito. — E comunque avresti potuto avvertirci. —

— Ecco perché non sei tu a dare gli ordini, bamboccio. Non si sbraita come ossessi prima di scoprire se si è sorvegliati. E comunque quella tua paura del contatto maschile si chiama omofobia, Alex. Al tuo posto rifletterei sul tuo atteggiamento di rifiuto… — con la coda dell'occhio, ed estremo divertimento, vide il suo giovane amico gonfiarsi come un tacchino, pronto a rispondere qualcosa di davvero feroce.

—Oh, per l'amor del Cielo! — Sbottò Katie, attirando l'attenzione si di sé —Vuoi spiegarci che ci facciamo qui, se non è di troppo disturbo? Prima che Wood ci sorprenda, possibilmente. —

— D'accordo — acconsentì il loro capo, di nuovo serio, come se non si fosse appena comportato come un ragazzino pestifero. —Max? —

— Abbiamo aspettato che fosse piazzato davanti al "David Lettermann Show", come ci avevi ordinato. Non ha nessuna intenzione di muoversi per la prossima ora. Anzi, mezz'ora, ormai — puntualizzò la ragazza, con poca cordialità.

— Bene. — Martin aprì un cassetto, traendone fuori due tesserini di riconoscimento nuovi di zecca. — Questi sono per voi. Benvenuti a bordo, di nuovo. Voglio che, da questo momento in poi, stiate alle costole del crucco come se si trattasse dell'amore della vostra vita. E tu falla finita, Alex, è troppo facile provocarti.—

Il ragazzo, il cui colorito era divenuto verdastro, sembrava davvero sul punto di vomitare. Katie gli dedicò una breve occhiata, quindi decise di ignorarlo. —E lo scopo di tutta questa manovra? —

— Si tratta di qualcosa che mi ha detto Jack Allen. A proposito dell'inchiesta, sapete. —

Alex tornò in salute con una rapidità sorprendente. —Che cosa? Di che inchiesta stai…? —

Martin sorrise, scambiando un'occhiata con Katie, che era rimasta in silenzio, in paziente attesa del seguito. — Non dovremmo saperne nulla, in via ufficiale. Ma Jack è stato così buono da informarmi che sta conducendo un'indagine su di me. Sapete, riguardo alla scomparsa dei vostri commilitoni. E sembra anche che le prove indiziarie… come dire… quasi spuntino come funghi. —

— Quindi, ora temi che il fabbricante di prove passi alla fase due, diciamo. —

Martin doveva ammetterlo: quella ragazza, e soprattutto il suo cervello, promettevano di diventare il suo orgoglio. E quanto bene poteva farle proseguire l'addestramento… — Esatto, McArthur. Se l'intenzione dietro tutta la montatura è screditarmi, e insabbiare la faccenda del rapimento, dopo aver accidentalmente fatto cadere le prove sotto il naso della Disciplinare… —

— Dovrà eliminare tutti gli elementi a favore della tua… della nostra tesi. — concluse Alex, senza allegria.

Martin prese a fissarlo con rinnovato rispetto. "Sta' a vedere che Casanova in erba non pensa unicamente alle sottane…" — Già. Non c'è bisogno che vi ricordi che il più importante di questi è la testimonianza di Max su quella notte, vero? —

— Oh, no, certo che no. Ed è per questo motivo che non ti hanno ancora arrestato? Per merito di Allen? —

— Sì… — annuì l'uomo, incoraggiante. — Va' avanti… —

—Beh, prima di tutto io e Katie dovremmo spiegare meglio a Jack cosa intendiamo per "farci un favore"… — ghignò il ragazzo, guadagnandosi un fulmineo scappellotto dietro la nuca. — Ed è per questo che hai voluto vederci senza di lui? Temi che Max non accetti di nascondersi dietro i suoi compagni? —

— Diciamo che è meglio che il suo tenero cuoricino non sappia che vi state esponendo ad un pericolo per causa sua. Ulteriori scenate, come quella dell'altra sera, sarebbero controproducenti. Ma ciò non toglie che io sia del tutto d'accordo con il vecchio Jack. Il nostro amato crucco è in pericolo, ed io vorrei evitare che Christine mi metta le mani attorno al collo, quando l'avremo ritrovata. —

~.~


A volte il cosiddetto Cosmo Ultimo poteva rivelarsi una maledizione. Settimo Senso, lo chiamavano. Un potere che soltanto pochissimi eletti padroneggiavano. Attingere all'essenza stessa della vita, al caos primordiale che era alla fonte di ogni forza. Coloro che erano capaci di sfruttarla appieno erano guerrieri la cui capacità in battaglia non conosceva limiti, perché nei loro fragili corpi di uomini albergava il ricordo dell'esplosione che aveva dato vita all'universo.
Ma non si trattava soltanto di questo. Come per ogni altra cosa, anche per quel potere esisteva un rovescio della medaglia. E il giovane Gold Saint piegato su se stesso su quel piccolo altipiano spazzato dal vento lo sapeva da tempo. Il controllo del Cosmo era anche la possibilità di percepire l'energia vitale di un altro, come fosse la propria.
E sentire nella propria carne, sotto la pelle, quando si spegneva.
Avrebbe voluto urlare. Sì, urlare, e al diavolo la prudenza, le precauzioni e tutti i maledetti segreti che era suo dovere custodire. Ma le corde vocali non rispondevano. Ogni singolo muscolo del suo corpo sembra paralizzato. Sentiva il cuore pulsare, un suono estraneo, come l'ansimare sommesso che giungeva alle sue orecchie sfiorandole appena nel silenzio. Si rese conto a malapena che si trattava del suo. E, soprattutto, si dava dell'imbecille per averle dato ascolto, per non aver capito.
Perché, forse, lei sapeva già come sarebbe andata a finire.


— Camus, la faresti una cosa per me? —

Eccola alla carica. Qualcosa che non era cambiato, in qualunque modo la chiamasse ora e da quali ricordi lei avesse ricominciato. Quell'aria da santarellina sapeva di fasullo lontano un miglio. Aveva sempre avuto quel modo di fare, ogni volta che stava per dire qualcosa che lui non avrebbe mandato giù volentieri.
"Ma una volta mi avresti confessato di aver barato sugli esercizi…"
Bei tempi, quelli, ed erano finiti. Si era voltato lentamente, cercando i suoi occhi, e Kelly aveva sostenuto il suo sguardo. Cattivo segno, anche quello.

— Domani, quando ce ne andremo di qui… resta al Santuario. — aveva continuato lei, sorseggiando con calma il suo infuso di erbe.

Era stata l'unica parentesi di tranquillità che le aveva concesso in quella settimana di allenamenti sfiancanti cui l'aveva sottoposta, ma ne era valsa la pena. La ragazzina poteva davvero diventare più veloce, e più abile. Doveva diventarlo, senza possibilità d'errore, superare i limiti, trascenderne sempre di nuovi. Alla resa dei conti, il suo cosmo d'Argento non sarebbe bastato, né sarebbero bastati quelli dei suoi amici. E lui invece, desiderava follemente che fosse soltanto Saga a pregare.
Non aveva mostrato segni di nervosismo, seduto a terra su quel tappeto di lana che sapeva ancora di selvatico, lo stesso delle loro improvvisate lezioni di letteratura. Non si era innervosito,no, anche se aveva compreso immediatamente dove quell'ineffabile fanciulla sarebbe andata a parare. Si era limitato a posare la sua tazza sul pavimento, propria accanto a quella di Kelly.

— Non ti frullerà per la testa l'idea che verrei ad aiutarti, spero… —

Lei aveva accennato un sorriso timido, lo sguardo perso tra le fiamme del caminetto e le ginocchia raccolte, come faceva sempre quando tentava di dominare l'ansia.

— Oh, certo che no. — Aveva preso la tazza, ma senza portarla alle labbra. — Sarebbe come riconoscere che hai fatto un pessimo lavoro. Ma non avevi forse in mente di ficcare il naso con discrezione? —

Ora si sentiva nudo, dannazione. "Te ne sei accorta? Sono così trasparente?"

— Dovresti rimetterti la maschera — le aveva fatto notare, atono, sapendo già di combattere una battaglia persa. Non avrebbero mai potuto tornare indietro, neanche se l'avessero tentato. Tutto era cambiato da quando lei l'aveva gettata via in sua presenza: i muri di menzogne erano caduti e non sarebbe stato un po' d'argento a rimetterli in piedi. Ma guardarla in viso gli rendeva sempre più difficile fingere un distacco che da tempo immemore non gli apparteneva più. E, forse, era soltanto ai suoi occhi che non riusciva più a nascondersi. Oppure, non ci metteva più il giusto impegno.

Kelly aveva preso un lungo sorso dalla sua tazza. La maschera, già.
"Altair ci credeva, Camus, la portava con orgoglio. O forse lo faceva soltanto per te, perché tutto quello che ti usciva di bocca era assolutamente buono e giusto."

— Bel tentativo di cambiare discorso… — si era limitata a borbottare, stupita dal desiderio furioso che stava provando. Una voglia quasi irrefrenabile di strappargli la sua, di maschera, e scoprire una buona volta cosa provasse davvero. — E comunque dovresti smetterla di trattarmi come una bambina. —

"Non c'è bisogno che tu lo ripeta tutti i giorni…" Lo sapeva, che non lo era più, certo che lo sapeva. Era impossibile non accorgersene, quando si viveva per anni con una novizia adolescente il cui bustino ti raccontava tutte le mattine quanto le sue grazie stessero diventando adulte.

— Proprio perché non lo sei, non dovrei neppure ricordarti i tuoi doveri — l'aveva rimbrottata, già convinto che non l'avrebbe spuntata neppure armato di una robusta stalattite.

— Maestro… — lei gli aveva sfiorato un braccio, sistemandosi meglio sul tappeto.
"Davvero vorresti che mi nascondessi ancora? Anche da te?" — Credimi, non tenterò di ucciderti… o di incastrarti. —

Lui l'aveva guardata molto, molto male.
"Riuscirò mai a farla star seria per cinque stramaledetti minuti?"

— E comunque non mi hai ancora risposto. — aveva rincarato lei, dall'orlo di una tazza che spandeva tutt'attorno il suo aroma di tè di montagna, aspro e aromatico.

"E tu non molli mai la presa?" — Mi hai preso per tua madre, ragazzina? — aveva risposto, con il tono più freddo che era riuscito a trovare.

— Camus, ti prego — lei sembrava ad un passo dalla supplica, o da una sfuriata. Non l'aveva bevuta, proprio no. — Dì quello che ti pare, ma dammi ascolto, per una volta. So come la pensi, che mi ritieni troppo coinvolta, e che rischio di diventare "becchime per Fenici", ma ormai non ha più importanza. — Il suo sguardo si era incupito — Dave, mio fratello, i miei amici… La battaglia che combatteremo domani… posso soltanto affrontarla a modo mio. —

"Ora sì che sono convinto. Che se fossi sano di mente dovrei legarti ad una sedia e impedirti di andare. Ma è troppo tardi per questi sistemi, ormai."

— E so anche che hai capito. Lo devo a lui, il mio amico Dave. O almeno a quanto ne resta… —



Camus aveva appena scoperto qualcosa di interessante. Il problema non era tirarsi su. Il vero problema era restare in piedi. Il mondo danzava follemente attorno a lui. "Tra poco darò di stomaco… le mie viscere ballano e la mia colazione ha voglia di rivedere la luce del sole." Un pensiero che lo faceva assurdamente sorridere. Ma del suo sorriso più amaro. "Non ci devo pensare, non ora. Non finché c'è ancora qualcosa da fare."

~.~


Non credeva sarebbe stato così facile portare a termine il suo lavoro. Eppure era lì, in piedi, ad osservare senza potersene staccare il corpo della sua prima avversaria, fredda e rigida, gli occhi ancora sbarrati dall'orrore del suo Genmaken. Il colpo che il Sacerdote gli aveva regalato in cambio della promessa di portargli le teste degli altri Buffoni di Bronzo stava fruttando bene. Ma, con u certo stupore, si rendeva conto di non trarne il perverso piacere che aveva immaginato. Per la prima volta dal giorno della sua investitura Ikki di Phoenix non riusciva a dare senso ad un dubbio, e sapeva quanto il dubbio potesse essere fatale per qualcuno come lui. La perdita del controllo… non poteva più permettere che accadesse. Nulla, aveva giurato quel giorno maledetto, più nulla avrebbe turbato il suo spirito. Sapeva, doveva continuare a credere che nulla l'avrebbe fermato prima di raggiungere il suo scopo. Si voltò con un gesto brusco, serrando i pugni. "Povera piccola Altair, mi hai quasi commosso. Riposa in pace ora, te lo sei meritato… anche se non hai ottenuto la vittoria che speravi. Perché ora farò polpette anche di coloro per cui ti sei sacrificata." Eppure non riusciva ad allontanarsi. "Un assurdo senso di rispetto", pensò. "Da quando sono così sentimentale?" Non aveva tempo né voglia di fermarsi a pensare. "Ho altro da fare che rimanere qua a cantare l'elogio funebre di questa sciocca." E intanto l'aveva già presa in braccio, mettendola al riparo in una piccola grotta. Per quanto si ripetesse che se la potevano pure mangiare gli avvoltoi non era riuscito ad abbandonarla lì. "Non è la prima che ho visto crepare…"


Le era arrivato alle spalle senza curarsi del rumore che faceva, assecondando il suo ridicolo desiderio di allontanarlo dal campo di battaglia. Non aveva senso tentare di sorprenderla. Non aveva dubitato neanche per un attimo che lei sapesse perfettamente dove fosse.

— Non saresti dovuta venire qui, marmocchia. A meno che tu non abbia cambiato idea sul nostro piccolo confronto. —

— Tu, chiami me marmocchia? Quanti anni credi di avere? Te lo ricordi, almeno? — stava ridacchiando, ne era sicuro. Poi si era voltata. Ikki era sicuro che sotto quella maschera aleggiasse un insopportabile sorrisetto di scherno.

Kelly lo stava fissando con sicurezza. Non appena si erano incontrati i dubbi e la paura si erano volatilizzati, scomparsi come ombre notturne dalla sua mente.
"Io lo so, quando sei nato. Conosco i tuoi incubi, e i tuoi sogni. So tutto della tua vita, perché l'abbiamo vissuta insieme. Siamo una famiglia, Dave. Ed io non ti abbandonerò proprio ora."
Ikki era rimasto ad osservarla, curioso di capire se intendesse giocare la parte dell'assassina o dell'agnello sacrificale. Una cosa era certa, nella sua mente non riusciva a leggere. Altair della Gru era capace di respingere i suoi attacchi mentali. Possedeva un potere ampio e pericoloso, se n'era già reso conto anche se quella demente rifiutava di usarlo contro di lui. Un contrattempo seccante, che lo innervosiva, come tutto ciò che non riusciva a dominare. Voleva affrontarla. Fremeva dal desiderio di misurare le proprie forze con le sue. E non solo per riconfermare a se stesso una supremazia su tutto e tutti che da tempo era il suo unico credo. Voleva anche scoprire perché non aveva paura di lui. Un atteggiamento inconcepibile. Quella ragazzina, ne era convinto, sapeva che lui possedeva forza sufficiente per distruggerla, ma pareva convinta che alla resa dei conti non ne avrebbe avuto il coraggio.
"Quanto ti sbagli, piccola illusa. Tu non mi conosci affatto. Io sono capace di tutto. E te ne accorgerai a tue spese."

— Oh, la piccola Altair ha la risposta pronta. Peccato che non ti servirà a vincere. Sei pronta alla lotta? —

— Non sono qui per darti una soddisfazione, Ikki. Se sei sveglio dovresti essertene accorto. — aveva replicato lei, tagliente.

— Quello che non vuoi lo so, Saint della Gru. — il ghigno del suo presunto amico aveva qualcosa di demoniaco. — Quello che non mi è chiaro è cos'è che vuoi. —

"Farti rinsavire, Dave. Ma non credo che al momento tu sia molto interessato." — intanto qualche risposta, Saint di Phoenix —aveva ritorto lei, con lo stesso sarcasmo. — Non credo che tu sia qui per rapinare i nostri odiati benefattori. A cosa stai puntando davvero? — "E risparmiami la frottola sulla conquista del mondo, non ci crederebbe neanche tuo fratello."

Ikki aveva preso a girarle attorno. Si stava stancando rapidamente di quella schermaglia. — Sei davvero così illusa, Altair? Pensi che vincerai recitando la parte dell'amica solerte? Ti sembro il tipo che si lascia piantare un coltello fra le costole? — La ragazza era perfettamente in grado di tenere d'occhio i suoi movimenti.
"D'accordo, bellezza. Niente giochetti con te."

— E tu credi davvero che il furto di quell'armatura ti frutterà qualcosa? A meno che tu non la fonda e ti rivenda la materia prima… — Pareva piuttosto divertita dalla trovata, quella puttanella. Ancora un po' e gli avrebbe proposto di dividere gli utili.

Al pensiero Ikki era scoppiato a ridere. Una di quelle risate senza gioia che davano i brividi a lui innanzitutto. — Per lo meno lo spirito non ti manca… —

Un attimo. Si era avventato sulla preda con una rapidità degna di uno rapace. Il soffio infuocato della Fenice si era alzato in volo verso Altair della Gru, incenerendo qualunque cosa al suo passaggio, scavando una voragine là dove avrebbe dovuto trovarsi la sua avversaria. Ma il sorriso soddisfatto di Ikki si era spento rapidamente non appena il fumo si era diradato.
"Dove sei, maledetta?"

— Dietro di te… —

Eccola lì. Neppure un graffio sulla pelle, nessuna crepa nell'armatura candida.
"Quello che dicevano dei Santi d'Argento era vero, allora." Una maschera sul volto… "Non hai paura, Altair? Non senti il puzzo di morte che mi porto addosso? Cos'è che credi di vedere in me? Non c'è niente, più niente!"
Il secondo attacco si era infranto contro una barriera invisibile.
"Ora ho capito… sei in grado di creare uno scudo di energia… ma cos'è questo freddo… ghiaccio… un muro di ghiaccio…" Ikki aveva ritirato lentamente il pugno gelato, osservandolo con genuino interesse. "E così, anche tu governi le energie fredde. Ma ti abbatterò, puoi giurarci."

— Sei veloce, ragazzina, ma non attacchi. — aveva ringhiato, portando un'altra serie di attacchi ravvicinati. Feroci, carichi di cattiveria.
"Devo distruggerla, prima che distrugga me." La barriera di ghiaccio si era liquefatta ai suoi piedi, quindi era scattato ancora. Il desiderio di uccidere stava prendendo il sopravvento. Ancora colpi su colpi, con una rabbia che aveva provato soltanto poche volte nella vita.

— Hai paura di farti male? — l'aveva schernita, ancora. Altair aveva parati tutti i suoi colpi, muovendosi con una agilità che l'aveva sorpreso.

"Tu non stai cercando di battermi, Dave. Tu vuoi che io…" — Dovresti essere tu, ad averne. O forse… non ti dispiacerebbe? — "Non mi presterò al tuo gioco. Perché ora più che mai ho bisogno di sapere."

Ikki ormai era furibondo.
"Cosa vuoi saperne, tu? Nessuno si preoccupa per me. Nessuno deve preoccuparsi per me."

— Va' all'inferno, maledetta! — aveva urlato, scagliando il suo colpo con una forza che non credeva neanche di possedere.

La ragazza aveva sollevato entrambe le mani nel tentativo di arginare quella mostruosa esplosione di energia. Il contraccolpo era stato tremendo, ma quando le fiamme si erano dissipate era ancora lì, immobile, il capo chino, i palmi ustionati dal calore. Non aveva fatto in tempo a proteggersi con il suo ghiaccio, non quella volta. Ma non era stato l'impeto dell'attacco a sopraffarla, quanto la sua furia.
"Sei davvero un mostro, ora?"

Ikki si era bloccato, guatando la sua preda con un sguardo intriso d'odio. Poi, un ghigno perfido e divertito gli si era disegnato sul volto — Oh, la piccola sacerdotessa ha perso la maschera. Temo che ora sarai costretta a sbattermi al muro per il tuo onore… —

"Cos'è, una fissazione?" Il suo caro maestro, Dave, il mondo intero, a quanto pareva. La regola, certo. Ucciderlo, oppure… Senza la fede che l'aveva abbandonata il giorno in cui era tornata se stessa, non riusciva più a vederla se non come l'astuto piano di un qualche antico Sacerdote profondamente misogino. E poi... "Non scherziamo, per favore. Sarebbe come farmela con mio fratello."
La realtà era sempre molto più complicata. Aveva gettato un'occhiata vacua a quel simulacro pieno di crepe, che da solo non poteva indicarle la via da percorrere, quindi aveva fissato il suo avversario, con la fierezza che anni di apprendistato con Camus dell'Acquario le avevano insegnato.

— Lasciamo perdere le formalità, Ikki… —
"Devo sapere cosa gli hanno fatto. Solo questo importa."

Phoenix era rimasto ad osservarla, per un momento a corto di parole. Ora che la vedeva, sentiva che non l'avrebbe mai immaginata diversa. Quei lineamenti erano familiari, in un modo strano e rassicurante. Per un attimo, si sentì come se avesse corso a perdifiato. A undici anni, con un'amica dalla treccia bionda, per nascondersi da un istruttore troppo severo. E dopo aveva diviso con lei una birra doppio malto, che li aveva fatti tossire come pazzi e tornare indietro brilli. E tornando con i piedi per terra, fu come se l'avessero colpito ancora. Perché l'ultima volta che non aveva corso da solo, un'altra ragazzina innocente era morta in un campo di fiori, e lui aveva perso l'anima.
E quando era caduto in ginocchio?

Altair si era precipitata su di lui.
"È tutta colpa tua…" — Che ti prende, Ikki? — Lo stava scuotendo per le spalle, freneticamente, come se le importasse davvero. Per un istante la mente del Saint della Fenice era stata soverchiata dal dolore, da ricordi senza senso. Rosso. Sangue. "Ne sono coperto. Non puoi ripulirmi. Stammi lontano."

— Non toccarmi… — aveva ringhiato, feroce. Kelly aveva reagito con un brusco sobbalzo e in silenzio era rimasta immobile, a subire il bruciante rimprovero di quello sguardo. Ma non aveva potuto evitare di continuare a fissarlo, occhi limpidi e puliti, che scandagliavano in profondità. Troppo in profondità perché lui potesse sopportarlo, ma prima che riuscisse ad allontanarsi, la ragazza lo aveva bloccato, posando le mani sulle sue tempie.
"Perdonami, Dave, ma ho bisogno di capire…"
E aveva visto. In un lampo carico di immagini aveva visto l'Isola di Death Queen, il suo maestro Guilty e sua figlia Esmeralda, aveva sentito il calore insopportabile del sole a picco e la puzza di zolfo. Aveva provato freddo nei sotterranei umidi e mille volte voglia di morire dal dolore.
"Mio Dio, questa è l'anticamera dell'inferno…" Era stata presente il giorno dell'investitura. Il giorno in cui Ikki era diventato Saint di Phoenix di fronte al cadavere ancora caldo dell'assassino senza rimorsi che lo aveva privato dell'umanità.
Aveva alzato due occhi colmi di lacrime sul viso del suo amico, dimentica di tutto.
Ma tutto ciò che Kelly aveva trovato erano state due pupille vuote. Vuote di qualunque espressione, di calore, di sentimenti. E allora aveva provato davvero paura. Di lui, e di ciò che era diventato, di non rivedere mai più il suo amico dietro quel ghigno da demonio. E il malvagio Saint di Phoenix aveva fiutato il suo terrore, l'aveva assaporato, con l'avidità di chi non ne è mai sazio. Aveva serrato il pugno e colpito con l'arma più crudele che possedeva. Perché tutto ciò che stava desiderando era distruggere, dilaniare quella mente che aveva osato ficcare il naso nei suoi ricordi peggiori.

— PHOENIX GENMAKEN! —aveva fatto in tempo a percepire la sorpresa della sua avversaria e il vano tentativo di fermarlo. L'aveva vista irrigidirsi, le pupille rovesciate e vitree. Con un sorriso. Era quasi riuscito a sentirla, la sua anima, gridare e torcersi nel tentativo di combattere gli incubi che le avevano affollato la mente, che ben presto l'avrebbero resa nulla più di una misera larva priva di qualunque parvenza umana. Eppure, benché ridotta allo stremo, ancora gli stava impedendo di entrare nella sua mente. Aveva steso il braccio per finirla, inviperito.
"Non crepi mai, maledetta?"

— Ma che diavolo… —

Con uno sforzo sovrumano la ragazza gli aveva afferrato il pugno, bloccando il colpo. — Fosse l'ultima cosa che faccio… — aveva ansimato, posandogli l'altra sulla fronte. Ikki non era riuscito ad opporsi. Il cosmo del Saint della Gru aveva incominciato ad avvolgerli entrambi, limpido e freddo, impedendogli ogni movimento, sfruttando la falla nelle sue difese che le aveva permesso di spiare i suoi ricordi. Un lungo brivido gli aveva attraversato la spina dorsale.

"C'è altro, dentro di te". La sua voce… la sua voce nella testa. "Dave. David Ruser. Ricorda questo nome e un giorno ricorderai chi sei. Ritroverai te stesso…"

Ikki era stato preso dal panico. Aveva reagito con un violento strattone, liberandosi della sua mano. Aveva pensato di colpirla per liberarsi di quella strana malìa, ma… ormai non ne aveva più bisogno. Altair della Gru era scivolata a terra senza emettere alcun suono, le braccia aperte, gli occhi vacui, il pallore della morte sul volto. Phoenix si era alzato, un dolore sordo che gli pulsava tra le tempie. Per un istante il suo viso si era incupito ancora di più. Ormai ne era certo. Se solo avesse voluto…
"Perché non hai combattuto?" Avrebbe vinto lei… Se solo l'avesse voluto.


Ikki si scosse a fatica, tornando al presente con un doloroso sforzo di volontà. — Dannata Altair! — ruggì ancora, allontanandosi a lunghi passi. "Ti farò vedere, maledetta. Li massacrerò tutti. Ti mostrerò che non c'è nulla al mondo che valga un simile sacrificio…" Qualcosa gli cadde ai piedi, come piovuto dal cielo. Aggrottò le sopracciglia, chinandosi a raccoglierlo. Il cigno di bronzo che ornava il diadema di Black Swan. Impiegò appena un secondo a capire cosa doveva essere accaduto al suo accolito, e il motivo di quell'ultimo regalo. Sorrise con cattiveria, rimirando l'oggetto sul palmo della mano. "Sei contenta, Altair? Comincerò dal tuo adorato fratellino…"

~.~


Il fragore del colpo che aveva sferrato non si era ancora dissolto. Ikki di Phoenix ritirò lentamente il braccio insanguinato dal pettorale dell'armatura di Cygnus, il dolore dell'assideramento che cominciava a farsi strada nel groviglio confuso della sue sensazioni. Ciò che restava di Hyoga ricadde all'indietro. Strano, molto strano, non era da lui farsi sorprendere con tanta facilità. Eppure non era riuscito ad impedire che il suo avversario tentasse di portarsi all'inferno uno dei suoi arti, come un grazioso souvenir. Il braccio gli faceva così male che a stento riusciva a trattenersi dall'urlare. "Sai mammone, forse mi hai davvero fatto un po' male... non ci avrei scommesso."
Quel combattimento non era stato granché divertente, né aveva solleticato la sua vanità. C'era forse da vantarsi di aver battuto un fastidioso pappamolle con l'equivoco hobby della necrofilia sottozero? "Pezzo di rammollito…" Però la sua tecnica era piuttosto buona. Somigliava a quella del Saint della Gru. Se le informazioni di Black Swan non lo avessero aiutato, forse sarebbe riuscito a impegnarlo sul serio. "Con sua sorella mi sono divertito di più, comunque." Si affrettò a cancellare quel pensiero. Altair lo irritava persino da morta.

"Un giorno ricorderai chi sei. Ritroverai te stesso…"

Che accidente le era saltato in testa? Di che diavolo parlava? Delirava, non c'era dubbio. Chissà per chi lo aveva scambiato. Eppure… Inutile negarlo a se stesso. Quella frase l'aveva inquietato, e quasi rimpiangeva di averla uccisa. Si era portata nella tomba tutti i suoi segreti. E dalla tomba continuava a metterlo a disagio, con il suo volto troppo familiare e il suo modo pietoso di guardarlo.
Scrollò le spalle con noncuranza. Cazzate. Altair della Croce Rossa aveva fallito con lui, pace all'anima sua. E all'inferno tutte la altre stupide fantasie. Tutto ciò che doveva fare, adesso, era portare a termine il suo progetto. E dopo forse… Strinse i denti. "Non farti illusioni. Non cambierà nulla. Non sei altro che un morto che cammina."

~.~


Dlin… Dlin… il suono del campanellino. Lontano, ovattato. Shun si sporse a destra e a sinistra, tentando di capire da dove provenisse. La sua geniale idea non aveva prodotto più di tanti frutti. A parte procurargli l'insolita sensazione di aver già vissuto momenti simili. Ma questa è pura follia. Per sei interminabili anni di addestramento all'isola di Andromeda non aveva saputo nulla di nessuno degli altri orfani accolti dalla Fondazione. "Eppure… sento di potermi fidare di loro… come se fossimo amici da sempre…"
Il Santo di Andromeda continuò per la sua strada, perdendosi ancora nei suoi pensieri. Non poteva sapere che il suono che poco prima aveva creduto di udire proveniva dal crepaccio che si apriva alla sua sinistra. E che se si fosse sporto di poco avrebbe potuto scorgere quanto restava del suo amico Seiya di Pegasus, vittima del colpo del suo avversario, che pure era riuscito a sconfiggere. Era troppo nervoso per servirsi dei suoi poteri nel modo appropriato.
Nella sua mente, un solo pensiero ricorrente. Ikki. Che di certo stava combattendo. Contro Chi? Poco prima aveva percepito vagamente il cosmo della Gru esplodere e svanire. "L'hai uccisa, vero?" Altair, l'unica che non aveva guardato suo fratello come un nemico da distruggere. Che si era rifiutata di battersi con lui. Che la sera dell'assalto al Colosseo Grado l'aveva tirato in disparte per assicurargli che prima o poi Ikki sarebbe rinsavito.


— Asciugati quelle lacrime, Shun, davvero. —

La guerriera si era fermata di fronte a lui, in uno dei molteplici e infiniti corridoi di Villa Kido. Dietro quella maschera, gli era piaciuto immaginare che si nascondesse un sorriso non troppo sprezzante.

— Gli uomini non piangono, vero? — aveva annuito lui, pronto all'ennesima ramanzina.

— Beh, sarebbe una novità — aveva replicato Altair, porgendogli un fazzoletto di carta. — Fa' un po' di male a qualcuno di quei "veri maschi" che lo blaterano, e dopo guarda se non frignano come ragazzine. —

Shun aveva sorriso, un sorriso spontaneo e grato. E lei gli aveva preso le mani. — La verità è che non hai motivo di piangere. Vedrai, lui non resterà così per sempre — aveva bisbigliato, prima di allontanarsi verso la porta d'ingresso.



Altair e quelle idee, assurde quasi quanto le sue.
"Coraggio" si disse il guerriero di Andomeda. "Qualunque cosa ti aspetti, non ti darai per vinto prima di aver pagato il tuo debito. E questa è l'unica cosa che conta."

~.~


"Stanno arrivando…" Ikki richiamò a sé il potere delle sue stelle, concentrandosi. Quei piccoli bastardi lo avevano sorpreso. Avevano sistemato tutti e quattro i suoi Black Four. Il primo era stato Black Pegasus, che era riuscito a farsi battere in poco meno di dieci minuti da Seiya. Quello stupido non aveva mai mostrato troppe doti, ma almeno era riuscito a rendere la sua dipartita più produttiva di quanto non fosse stata la sua intera vita. Il Saint di Pegasus era spacciato, ormai. Questione di minuti.
Black Swan era caduto vittima del ridicolo, sentimentale Hyoga, ma la sua fedeltà gli aveva permesso di distruggere il Saint di Cygnus in un battito di ciglia. Ancora doveva capire cosa fosse successo a Black Andromeda, che era riuscito a farsi stendere dal suo diafano fratello, Shun della Lacrima Facile.
In più, quel bastardo di Shiryu era tornato con le armature riparate. Doveva essergli costato parecchio sconfiggere il più furbo dei suoi uomini, e il più potente. Black Dragon… Aveva recitato un beffardo requiem mentale per la sua anima. Era stato un buon braccio destro, ma anche lui nulla più di una pedina.
Tutti i suoi soldati erano morti. Ma restava lui. Sentiva i cosmi dei suoi nemici con una precisione che lo stupiva. Dovevano essere davvero vicini.
Uno era il Dragone, dissanguato e ormai ridotto allo stremo. Una preda sin troppo facile.
L'altro, il suo cosiddetto fratello. La prova vivente dell'inutilità del suo sacrificio, sei anni prima. "Dannata ameba senza spina dorsale…" Aveva smesso di credere da tempo che nelle loro vene scorresse lo stesso sangue. E la vista di quell'idiota sortiva su di lui il solo effetto di risvegliare i suoi peggiori istinti distruttivi. "Non resta che decidere di che morte debba morire, allora…"
Si diresse a lunghi passi incontro ai suoi avversari. "Finiamola. Una volta per tutte."

La sua voce risuonò sonora e beffarda, alle spalle dei due guerrieri — Salve, buffoni. Se siete venuti qui per aiutare i vostri amichetti a recuperare l'elmo siete in ritardo. — Ikki mostrò i denti in un sorriso terribilmente simile ad un ringhio. — se invece siete venuti a portarmi gli ultimi pezzi dell'armatura siete ancora in tempo. —

"I nostri… amichetti?" — Hyoga, Altair… cosa gli hai fatto, Ikki? — Shun fissava suo fratello, incredulo di fronte a tanta fredda crudeltà. "È colpa mia, è colpa mia, è colpa mia…"

Il sorrisetto di Ikki si allargò ancora — Niente che tra poco non potrai provare anche tu, fratellino…. — sghignazzò. Sulla sua bocca quell'ultima parola prendeva il sapore aspro di un insulto.

Shiryu alternava occhiate fugaci dall'uno all'altro, preoccupato. Se poteva comprendere che al dunque Shun non sarebbe stato capace di causare anche solo un graffio al suo adorato, perfido fratello, era anche del tutto certo che Ikki avrebbe ricambiato la cortesia tentando di ridurli in poltiglia, come probabilmente aveva già fatto con Hyoga e Altair. Incrociò le braccia e soffocò nelle profondità la rabbia che già stava per prendere il sopravvento. "Calmati… ragiona con freddezza." La lezione del suo maestro… gli era quasi costato la vita non averla imparata. Non desiderava dargli un'ulteriore prova della sua debolezza di carattere.

I suoi occhi tornarono a posarsi sul suo amico — Cosa intendi fare ora, Shun? per quanto malvagio, Ikki è pur sempre tuo fratello… —

Shun lo guardò, addolorato. — Perdonami, amico mio… — sussurrò.

— Ma di cosa stai… — il Dragone non fece in tempo a rispondere. La Catena di Andromeda l'aveva attaccato, colpendolo duramente alla testa. Si afflosciò senza una parola, l'incredulità ancora dipinta in viso.

Shun sorrise tristemente, richiamando a sé la sua arma. "Mi dispiace, Shiryu. Ma soltanto io posso mettere il punto a questa storia. Da solo con mio fratello. E tu me lo avresti impedito."

Ikki lo stava osservando con rinnovata attenzione. — Oh, non mi dire che il mio caro fratellino ha finalmente deciso di schierarsi dalla parte giusta… — insinuò, mellifluo.

L'altro si limitò a fissarlo in silenzio. Quando parlò, la sua voce suonò rassegnata, ma sicura. — Sono qui per porre fine a questa inutile battaglia, Ikki. E a pagare il mio debito. Sono sicuro che in qualche modo tu non sia davvero cambiato. Non puoi volere davvero questa carneficina. — Ikki sussultò vedendolo cadere in ginocchio — Vuoi davvero sfogare la tua rabbia? Allora fallo su di me. Qualunque cosa tu abbia sopportato… è stata solo colpa mia. E dopo torna quello che eri un tempo, fratello. —

Ikki non era sicuro di aver capito bene. "Maledetto bastardo! Cosa credi di fare ora? È troppo tardi. I tuoi piagnistei non cambieranno il passato." — Smettila di fare il sentimentale con me, rammollito! — Ora poteva sentirlo. L'odio. Vivo, pulsante. Lo bruciava dentro. Ma forse l'avrebbe lasciato libero se… — D'accordo, Shun. Se è il sacrificio che desideri più di ogni altra cosa, vedrò di accontentarti… —

Con un agile balzo si portò di fronte a suo fratello, che non cercò di sottrarsi. E Ikki sentì un lungo brivido gelido percorrergli la schiena. Per un attimo si vide come da una grande distanza, un pazzo con gli occhi fuori dalle orbite e le mani tese a ferire il suo stesso sangue. "Che diavolo sto facendo?" Shun lo fissava, del tutto immobile. In attesa di qualcosa, forse di un verdetto. "Anche lui, come Altair… perché non scappi? È davvero la morte che cercate tutti?" Quello sguardo lo faceva sentire in torto, piccolo e insignificante con la sua rabbia e la sua inutile crudeltà. E quella sensazione non la poteva tollerare. "Perché non hai paura?"

— Allora muori per me, fratello! — sibilò, alzando il braccio per colpire. "Muori e portati all'inferno i tuoi buoni sentimenti…"

Si fermò con una bestemmia. Qualcosa, o qualcuno, lo aveva colpito. Sollevando lo sguardo, Ikki si ritrovò a contemplare stupito la sagoma di qualcuno di cui credeva di essersi ormai liberato.

— Seiya, maledetto… — ringhiò. — Sei più coriaceo di quanto credessi. — "Non importa. Ti spazzerò via personalmente."

~.~


Tornare alla vita può non essere granché divertente. Senso di soffocamento, i polmoni che bruciano per la mancanza di ossigeno. Una sgradevole sensazione di bagnato e tutte le ossa peste. "È questo che si prova di ritorno dall'aldilà? Non posso saperlo, non ci sono ancora stata."
La schiena urlava di dolore. "Ma questa volta c'è mancato davvero poco." Il Genmaken della Fenice… Le aveva bloccato tutti i centri nervosi, rendendola simile ad una grottesca bambola di carne e sangue. L'aveva costretta a rivivere i suoi ricordi peggiori, ancora e ancora, in un'incessante sarabanda splatter che pensava non si sarebbe mai conclusa.
"Ma non potevi uccidermi così, Dave. Quegli incubi erano gli stessi che mi fanno compagnia ogni notte. E ora… quanto tempo sarà passato?"
Riaprì gli occhi con la sgradevole sensazione di uno sguardo furioso puntato in faccia. Appena ebbe messo a fuoco la mano che le aveva spruzzato l'acqua fredda sul viso si sentì molto ben disposta a richiuderli e tornare a dormire per qualche altra ora.

— Ti… ti avevo chiesto di non venire… — gracchiò. A quanto pareva anche la sua voce tornava da un giro sulla barca di Caronte.

Una pezza bagnata le cadde sul naso e la bocca, costringendola a tossire follemente. — Se è per questo, anch'io ti avevo chiesto di non consegnarti mani e piedi al tuo carnefice. — La voce del suo interlocutore, invece, era ben presente a se stessa. L'unica voce che conoscesse capace di biasimarla senza perdere un grammo della sua abituale compostezza, attraverso il cappuccio che il suo infermiere portava calato sul volto.

"È arrivato Halloween e non me ne sono accorta." — È proprio da te infierire mentre sono in fin di vita, maestro — squittì, mentre cominciava a sentirsi seccata. La innervosiva quel tono saccente. Almeno quanto constatare che non aveva argomenti per ribattere.

La risposta non si fece attendere. E le suonò come un pugno nello stomaco. — Se pensassi a proteggere i tuoi amici con la stessa dedizione che dedichi a provocarmi avresti già risolto metà dei tuoi problemi — osservò lui, alzandosi in piedi. Il mantello nero si ricompose, nascondendone del tutto la figura.

Kelly sbatté le palpebre, frastornata, cercando di scacciare dalla mente il gelo che aveva colto nella sua voce. Non ci era mai andato leggero, mentre l'addestrava, avrebbe dovuto esserci abituata. — Meglio che colga l'occasione adesso. Potrei davvero restarci secca, in fondo — provò a scherzare, senza sentirsene in grado.

Lui la fissava dall'alto, impassibile. Non era mai riuscita a prenderlo in giro. — Se la pensi così è un vero peccato che non abbia portato carta e penna. Forse dovrei raccogliere le tue ultime parole per l'orazione funebre. Mandi a dire qualcosa al tuo caro amico? — Le tese una mano. — Avanti, prova a tirarti su e stavolta sii meno sentimentale, se ci riesci. —

Cosa si era aspettata, una pacca sulla spalla e un paio lacrimucce di contentezza? Afferrò la mano, ma riuscì a malapena a lasciarsi sollevare. — Sei davvero un animale a sangue freddo… — borbottò la ragazza, delusa, senza sapere molto bene da cosa. Le gambe non volevano sapere di rimanere diritte. Sarebbe ricaduta come un sacco di patate, se Camus non l'avesse afferrata per la vita, tenendola in piedi a forza. — E comunque, perché sei venuto? —

Camus non rispose, ma allargò lentamente, con intenzione, le braccia che la reggevano. Kelly barcollò e ricadde in ginocchio, respiro affannoso e vertigini galoppanti. Quanto doveva sembrare ridicola, un'altra volta ai suoi piedi, e gli effetti del Genmaken erano molto peggio di quanto avesse immaginato prima. "Chi penso di aiutare, in queste condizioni?"

— Non sarebbe male se cominciassi ad usare più forza e meno chiacchiere, a questo punto… O forse a mancarti è il carattere? Ci vuole anche quello, sul campo di battaglia… — Un vero bastardo, fatto e finito. Che probabilmente le aveva salvato la vita.

— Grazie dell'aiuto, maestro, immagino che adesso vorrai tornare alle tue faccende — soffiò Kelly, provando a tirarsi su con uno sforzo erculeo. Ci riuscì, e barcollò verso la parete. Mosse qualche altro passo incerto, sostenendosi. Il sangue riprendeva a circolare nel verso giusto, e lo spazio riacquistava profondità. "Ma sì, dopotutto posso provarci…" Si voltò soltanto per un attimo. Il suo salvatore improvvisato non si era mosso, continuava ad incombere su di lei con il suo mantello scuro, la sua espressione tetra e i suoi argomenti schiaccianti. Gli voltò le spalle, fingendosi molto più salda di quanto si sentisse. "Se solo non avessi ragione ti torcerei il collo. E non me ne pentirei neanche un po'."

— E, se non ti spiace, il mio caro amico vorrà finire il lavoro — completò, uscendo di scena con tutta la dignità che riuscì a mettere insieme, a far compagnia alla vergogna cocente e meritata.

Camus rimase a guardarla allontanarsi, per sparire oltre l'apertura della caverna. Solo allora, quando fu certo che lei non potesse vederlo né sentirlo, si concesse un lungo, monumentale sospiro di sollievo. "Buona fortuna, ragazzina."
Le augurò di vincere, di riuscire a non morire e a non uccidere il suo amico. Lo desiderò per lei, per le sue speranze sul futuro, per quella sorella che non meritava di saperla morta per mano di un altro fratello.
E soprattutto, sperò per se stesso che quel fragile legame non s'interrompesse proprio quel giorno. Che lei tornasse e la sua battaglia non la cambiasse troppo. Perché ci sarebbero state tante, troppe cose da dire, quando fosse arrivato il momento.
E, si rese conto di colpo, era proprio a lei che voleva dirle.

~.~










Angolo della vergogna™


E così, eccoci qui, e se il povero francese di carta forse ha davvero sperato di liberarsi di Kelly, direi che gli è andata proprio male. In fondo, ho un vero talento per procurargli dei guai. :)
A parte questo, credo avrete notato che anche in questo capitolo (e per la verità anche nel precedente) sono presenti dialoghi presi direttamente dall'anime, che ritenevo avrebbero calato meglio la storia nel contesto della sinossi ufficiale. Non ho intenzione di farne un'abitudine, naturalmente, solo di usarli per creare l'atmosfera. Ci sarà qualcosa del genere, non molto, anche nel prossimo capitolo.
Per il resto, che dire... grazie a Philos per la solita, spassosa correzione di bozze, e a voi che leggete. Un grazie ancora più grande a chi ha deciso di condividere le sue impressioni con me, in pubblico e in privato.

Alla prossima!

   
 
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