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Autore: Angel666    23/03/2012    2 recensioni
“E’ solo un gioco per te?” chiese lei.
“Esatto. Non è nient’altro che una partita; e io sono disposto a tutto pur di vincerla.”
Il caso del Serial Killer di Los Angeles raccontato dal punto di vista di un ostaggio molto speciale. Cosa lega la ragazza all'assassino? Quali piani ha in mente per lei? Quando giochi in nome della giustizia si trovano sempre pedine sacrificabili, l'importante è conoscere le regole del gioco e non venire eliminati. Please R&R!
Genere: Angst, Drammatico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri personaggi, Beyond Birthday, L
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
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Non sapeva di preciso da quanto tempo stesse fissando quella maledetta lucetta rossa della telecamera. Era stesa a terra nella polvere, circondata dal buio, mentre sentiva i rumori della città provenienti dalla strada.
La vita delle persona continuava a scorrere inesorabilmente fuori da quel magazzino; nessuno poteva immaginare che una ragazza era stata rapita e veniva tenuta prigioniera sopra le loro teste. Perché mai avrebbero dovuto? In fondo neppure lei si era mai preoccupata di ciò che le accadeva intorno. Non era diversa da tutte quelle migliaia di persone che tiravano dritte per la propria strada, senza guardare in faccia a nessuno.
Pensava a suo fratello.
Non riusciva a togliersi dalla testa le parole di quell’uomo. La sua parte razionale le diceva che era inutile credere ai vaneggiamenti di un pazzo, ma dentro de sé Rumer sapeva che aveva detto la verità. Quando le aveva parlato lo aveva fatto con calma assoluta, restando lucido tutto il tempo, e portando argomentazioni dalla validità schiacciante.
Era arrabbiato certo, ferito, glielo si leggeva negli occhi; ma non sembrava un bugiardo. Perché lei aveva sempre saputo che suo fratello era una persona speciale.
Il dolore di quella scoperta l’aveva avvolta come un bozzolo, lasciandola completamente senza forze. Lui le aveva detto che suo fratello non sarebbe venuto a salvarla, poiché il suo ruolo era quello di mera pedina. Vederla in quelle condizioni avrebbe dovuto farlo soffrire, ma lei non era tanto sicura che ciò sarebbe successo.
Non aveva mai considerato L come un essere umano dotato di sentimenti, per lei era solo una lettera potente che rappresentava la giustizia. E adesso che quella lettera aveva un volto e un nome? Che cosa avrebbe detto vedendola in quello stato? Non lo sapeva e non voleva nemmeno pensarci. Erano 15 anni che viveva completamente da sola, contando esclusivamente sulle sue forze, non poteva cedere proprio adesso.
Chiuse gli occhi e l’immagine di un bambino pallido e incurvato, con una folta massa di capelli neri, le apparve davanti. Strinse con forza la catena delle manette. Pensava che lo avrebbe odiato, e invece sentì di non ci riuscirci davvero.
Guardò il colore delle pareti cambiare a poco a poco, mentre il sole sorgeva sulla città degli angeli, regalandole un nuovo giorno da prigioniera.
Sentì i passi del suo carceriere al di là del muro; si era alzato e presto sarebbe venuto a controllarla.
Aveva un piano e doveva attuarlo prima che lui guardasse il nastro della videocamera: era tutta la notte che stringeva quella dannata scheggia di vetro tra le mani; si era quasi rotta i polsi per allungarsi a prenderla, ma alla fine era riuscita a nasconderla dietro la schiena.
Appena l’uomo entrò nella stanza, si alzò a sedere “Devo andare in bagno.”
Lui la guardò sorpreso. Aveva delle terribili occhiaie, nonostante dava l’impressione che si fosse appena alzato dal letto. “Ti prego, è da ieri che sono legata qui, non ce la faccio più.” Usò il tono più convincente possibile.
Il ragazzo sospirò e si avvicino per toglierle le manette. Evidentemente confidava nella sua forza fisica, poiché stavolta non le fece nessuna minaccia.
Rumer agì di scatto: non appena le manette vennero sganciate dal muro gli assestò un calcio all’altezza dello sterno con tutte le sue forze, facendolo cadere all’indietro. Afferrò la scheggia di vetro e la piantò nel suo petto alla cieca. Non voleva ucciderlo; voleva solo ferirlo per poter scappare.
Si alzò di corsa, ma lui le afferrò una caviglia facendola ricadere a terra, così lei lo colpì con il piede in pieno viso, facendogli sanguinare il naso.
Non appena lui lasciò la presa con un gemito strozzato, Rumer si precipitò fuori dalla stanza.
Come aveva immaginato era un vecchio magazzino abbandonato, adibito ad appartamento.
Corse davanti a quella che doveva essere la camera da letto: intravide un muro interamente ricoperto di fogli , con foto di varie persone spillate sulla mappa della città, e diverse date e iniziali scritte con il pennarello rosso. Senza fermarsi oltrepassò il bagno e un'altra serie di stanze vuote fino raggiungere la porta d’ingresso.
Provò a strattonarla, ma con orrore si accorse che era chiusa da un lucchetto con una pesante catena di ferro. E lei non aveva la chiave.
Si voltò di scatto per raggiungere la cucina e prendere un coltello, ma quello che vide le fece gelare il sangue nelle vene.
Il ragazzo, ancora più curvo del solito, avanzava lentamente verso di lei, con il volto ricoperto di sangue e la scheggia di vetro ancora piantata nella spalla destra, sotto la clavicola.
“Dove pensavi di andare?” rantolò con una smorfia di dolore. Allungando una mano verso il collo tirò fuori dalla maglietta una catenina da dove pendeva una chiave.
Urlare o pregare non le sarebbe servito a nulla in quel momento: doveva affrontarlo e sperare di batterlo.
Anche se lei era una ragazza, minuta per giunta, di risse ne aveva fatte parecchie. Racimolò tutto il suo coraggio e si piegò in posizione d’attacco. Poteva contare sul fatto che il ragazzo fosse ferito.
“Stammi bene a sentire: forse non sarò un fottutissimo genio, ma non dimenticarti che sono cresciuta per strada e ho dovuto imparare in fretta a difendermi da sola.” Si scagliò con forza contro di lui e iniziò a colpirlo ovunque con pugni e calci.
Non aveva mai imparato una specifica arte di combattimento, facendo sempre affidamento sulla rabbia e sulla paura; e in quel momento ne aveva entrambe da vendere.
Presto finirono a terra coinvolti in una furiosa lotta corpo a corpo, fino a che Rumer non si ritrovò schiacciata contro il pavimento con lui seduto sullo stomaco e la scheggia di vetro che prima era nella sua spalla ora puntata alla gola.
Aveva il fiato grosso, e la chiazza di sangue sulla sua maglietta bianca si stava allargando a vista d’occhio “Non è ancora arrivata la tua ora ragazzina, ma ti giuro che se provi un’altra volta a scappare non mi farò problemi ad accorciare la tua durata vitale.”
Rumer lo guardò confusa per un istante, prima che un pugno si infrangesse contro il suo naso con violenza. Lanciò un urlo soffocato appena percepì il setto rompersi e un fiotto caldo invaderle il mento.
“Questo è per renderti il favore.”  L’uomo si alzò in piedi e la colpì ripetutamente sui fianchi, con una forza disumana, per renderla innocua.
Rumer provò a chiudersi a riccio, cercando di proteggere la testa; ma ad ogni calcio sentiva il respiro mozzarsi in gola. “Basta! Ti prego smettila!” Stava per perdere i sensi dal dolore, mentre sentiva la bile risalire su per l’esofago.
Lui l’afferrò per i capelli, senza alzarla da terra, e la trascinò lungo l’appartamento fino alla stanza con la telecamera.
“Ho provato ad essere gentile con te, ma vedo che non è servito a nulla. Mi serve che tu rimanga in vita ancora per un po’, il resto non ha importanza.”sbottò.
Non lo aveva mai visto così furioso: la sua maschera di falsa apatia era definitivamente crollata, lasciando il posto ad una rabbia folle. Gli occhi rossi bruciavano come brace mentre la legava nuovamente con le braccia al soffitto, al centro della stanza.
Rumer temeva che l’avrebbe usata come sacco da boxe per sfogarsi, invece si limitò a lasciarla appesa con la vista annebbiata dalle lacrime e il sangue rappreso sulla maglietta.
Il dolore era così forte che le impediva di restare lucida; l’unico pensiero fisso nella sua mente fu quello di essere quasi riuscita a scappare. Dovette mordersi con forza l’interno dell’avambraccio per non scoppiare a piangere: la minima espressione facciale le mandava scariche elettriche al cervello.
Passò l’intera giornata in uno stato di semi – incoscienza, provando ogni tanto a pregare, come le avevano insegnato da piccola nell’orfanotrofio.
 
Non sono mai stata una persona credente, per questo quasi mi viene da ridere a pensare che la mia intera giovinezza è stata scandita dalle preghiere dell’istituto cattolico dove sono cresciuta. L’ orfanotrofio Holy Mother of God era un vecchio casermone grigio, situato nei sobborghi di Londra. Ospitava all’incirca 200 bambini, provenienti da tutta l’Inghilterra e garantiva loro la minima istruzione indispensabile e due pasti caldi al giorno.
Non ho bei ricordi nella mia infanzia: nonostante quel luogo fosse abitato da bambini trasmetteva una tristezza infinita. Se di giorno si potevano sentire le loro grida mentre giocavano in cortile, la notte invece c’era sempre qualcuno che piangeva. Non tutti erano fortunati da non ricordare i proprio genitori: alcuni bambini arrivavano già grandi, e per loro era molto difficile ambientarsi. Ognuno viveva  nella speranza di un’adozione che non sarebbe mai arrivata.
I primi tempi, di notte, sgattaiolavo sul tetto e pensavo a mio fratello. Chissà se anche lui era in un posto simile al mio? Quell’uomo  aveva parlato di una scuola speciale….magari lui non era costretto a dormire in una camerata con altri 20 bambini, e forse non doveva alzarsi ogni mattina alle 6 per recitare le lodi al Signore. Più mi imponevo di non pensare a lui, o ai miei genitori, più sentivo la loro mancanza.
Poco tempo dopo il mio arrivo feci amicizia con una ragazzina più grande. Si chiamava Rachel e stava lì da quando aveva tre anni. Era un tipa tosta; molto spesso la mettevano in punizione perché andava matta per i biscotti e li rubava sempre in mensa. Che poi a pensarci bene quei biscotti erano duri come pietre e non sapevano di niente.
Grazie a lei imparai ad adattarmi in fretta a quell’ambiente ostile. Era incredibile quanto ci si potesse sentire soli anche se circondati da centinaia di bambini. Avevamo tutti una storia simile, triste; nessuno lì ti avrebbe compatito o sarebbe stato ad ascoltarti.
Le suore dicevano sempre di trovare conforto in Dio tramite la preghiera e le buoni azioni. Noi pregavamo cinque volte al giorno e facevamo volontariato nella chiesa del quartiere ogni domenica, ma quel macigno sul cuore era sempre fermo lì, pronto a toglierti il respiro di notte.
Ero sempre stata una bambina vivace, per questo non riuscii mai ad adattarmi alle rigide regole dell’istituto.
La prima volta che mi misero in punizione non fu neanche per colpa mia: provai a spiegarlo, ma solo dopo capii che un colpevole ci doveva sempre essere per fare da monito agli altri.
Nonostante tutto iniziai a fregarmene e a fare di testa mia. Ogni tanto uscivo di nascosto con Rachel  e me ne andavo in giro. Vivevo per quei momenti di libertà.  Quando scoprii che non molto lontano dall’orfanotrofio c’era un piccolo parco con delle giostrine, mi rifugiai lì ogni volta che potei.
Studiavo pochissimo, anche perché lì nessuno ti spiegava davvero le cose: bisognava imparare le materie a memoria, come le preghiere, ed  era di una noia mortale. Perché mai avrei dovuto impegnarmi tanto, se non facevano altro che ripeterci che eravamo scarti della società, e mai nessuno ci avrebbe preso in considerazione da grandi?
Scappai da quell’inferno a 16 anni,  la notte di Halloween. Rachel era andata via un paio di anni prima, e non avevo più avuto sue notizie, nonostante avesse promesso di scrivermi.
Pioveva quella volta, eppure le strade erano piene di persone in maschera che andavano in giro a fare scherzi ed elemosinare dolci.
Amavo quel giorno perché era il compleanno di mio fratello e la mamma faceva sempre le frittelle alla zucca. Nessuno fece caso ad una ragazzina malnutrita che dormì su una delle panchine di Hyde Park.
In seguito lavorai per un po’ di tempo in un fast-food, e quando ebbi abbastanza soldi presi il primo aereo per gli Stati Uniti, lasciandomi alle spalle quel luogo che mi aveva dato solo dolore, sperando in un futuro migliore.
 
 
La sensazione di bagnato sul viso la riportò alla realtà.
Era notte e la stanza era immersa nel buio; l’unica fonte di luce proveniva dalla camera adiacente.
Il ragazzo le stava passando uno straccio umido sul viso, per ripulirla dal sangue.
Rumer stentò quasi a credere che la stessa persona che le aveva rotto il naso, e probabilmente qualche costola, fosse in grado di maneggiare con tanta delicatezza quel pezzo di stoffa.
La sua faccia era tornata ad essere una maschera di cera, ma gli occhi rossi brillavano nel buio.
Quando finì di togliere tutto il sangue rappreso, passò alla medicazione delle ferite.
Rumer istintivamente fece scattare indietro la testa, non appena il batuffolo imbevuto di disinfettante le sfiorò una tempia.
“Sta ferma.” Ordinò lui a bassa voce.
“Perché lo stai facendo?”
“Ho esagerato oggi: non posso permettermi che ti capiti qualcosa di grave; non ho il materiale necessario per curarti qui.” Constatò, senza la minima traccia di pentimento nella voce.
Finito di medicare il viso le alzò la maglietta. Lei si mosse a disagio, ma essendo incatenata non poteva certo sfuggire alla sua presa. Il torace scarno e lo stomaco erano completamente ricoperti di tagli ed ematomi scuri. Le sue mani calde e asciutte le scorrevano sulla pelle per tastare le costole.
Aveva un tocco fermo e leggero: sembravano le mani di un medico esperto. “Sono solo incrinate, e non riesco a trovare segni di emorragie interne.” Decretò infine.
“Cosa sei, un dottore?”
“Ho anche una laurea in medicina, se la cosa ti può interessare.” Rispose con noncuranza.
Rumer sgranò gli occhi incredula; sembrava impossibile.
 “Come anche? Ma quanti anni hai?”
La guardò negli occhi “Ventuno. E ti ho già spiegato che il mio q.i. è superiore alla media.”
Aveva solo un anno in più a lei. Sospirò.
“Cosa c’è, ti da fastidio ammettere l’esistenza di persone che alla tua età sono molto più dotate di te?” chiese sarcastico.
“No. Stavo solo pensando che se io avessi la tua intelligenza la userei per ben altri scopi: per soldi, per fare del bene… per qualsiasi cosa ma non per vendicarmi.” Rispose sinceramente.
Temeva di averlo fatto di nuovo arrabbiare, quando lui la guardò per un lungo istante; invece disse soltanto “Tu non lo sai che cosa vuol dire…”
“Ti sbagli.” Lo interruppe lei. “Io so esattamente come ci si sente quando la vita ti volta le spalle. Sono stata privata di ogni cosa, proprio come te: ho perso la mia famiglia, la mia casa, ho passato la mia infanzia in un orfanotrofio orribile, dove non facevano altro che punirmi e umiliarmi, dicendomi che non valevo niente come persona solo perché avevo perso tutto. Sono arrabbiata? Si da morire, perché alla fine avevano ragione loro: non ho fatto niente per cambiare le cose e riprendermi in mano la mia vita. Mi sono nascosta dietro questa maschera da fallita solo perché mi faceva comodo. In fondo non è colpa mia se sono stata sfortunata no? Quindi non venirmi a dire che non capisco come ti senti. Ma io non mi abbasserei mai ad uccidere degli innocenti solo per sfogare la mia rabbia.”
“Quelle persone sarebbero destinate a morire in ogni caso quel determinato giorno. Io mi limito semplicemente ad usarle come pedine. Tu non hai mai avuto uno scopo fisso nella tua vita, per questo non puoi capire. La vendetta, e la consapevolezza di voler superare L, sono tutto quello che mi resta. E non ho intenzione di rinunciare proprio adesso che sono così vicino a batterlo.”
Rumer provò a ribattere, ma il ragazzo raccolse una bottiglia d’acqua e gliela accostò alle labbra, impedendole di parlare.
“Bevila tutta, sei a rischio disidratazione.”
Più che sete, Rumer stava morendo di fame: erano due giorni ormai che non mangiava qualcosa.
Lui sembrò leggergli nella mente “Domani ti porterò qualcosa da mangiare, per il momento è meglio se ti limiti ad assumere solo liquidi.”
Stava per lasciare definitivamente la stanza, quando improvvisamente la ragazza chiese “Qual è il tuo nome?” Si era accorta che in quei due giorni lui non gliel'aveva mai rivelato.
“Puoi chiamarmi Ryuzaki.”

Doveva andare in bagno, stavolta per davvero. Sapeva che a breve sarebbe scoppiata se qualcuno non le avesse tolto quelle dannate manette. Le strattonò per l’ennesima volta, con l’unico risultato di approfondire le abrasioni violacee sui polsi.
Era sola in casa: Ryuzaki era uscito prima ancora che il sole sorgesse. La telecamera era sempre ferma davanti a lei, pronta a registrare ogni sua mossa.
Sentiva la mente cedere lentamente, sotto il peso di quelle torture: oramai aveva superato lo stato del dolore fisico e il corpo era pervaso dall’intorpidimento dovuto a quella assurda posizione. Gli svenimenti per l’assenza di zuccheri erano sempre più frequenti di ora in ora, e il caldo opprimente non aiutava.
Improvvisamente sentì la vescica cedere: il liquido bollente scese lungo le cosce, bagnandole i pantaloni e formando una pozza per terra.
Aveva decisamente toccato il fondo, eppure non aveva più la forza di piangere.
Sperò che suo fratello si sentisse in colpa da morire a vedere quei nastri, per non aver pensato che un uomo nella sua posizione aveva il dovere di proteggere le persone vicino a sé.
Perse i sensi, e si svegliò per l’ennesima volta a metà pomeriggio: le era sembrato di sentire la porta di ferro sbattere.
Poco dopo infatti il rapitore apparve sull’uscio. Il suo sguardo si depositò sulla chiazza per terra, facendola avvampare di vergogna.
Senza dire una parola lo vide sparire, per poi ritornare con dell’acqua e un barattolo di marmellata rossa tra le mani.
“Non hai una bella cera Rumer, credo che un po’ di zuccheri ti tireranno su.” Constatò.
Si permetteva anche di prendersi gioco di lei, il bastardo? Voleva urlargli in faccia che se si trovava in quella situazione era solo per colpa sua, ma strabuzzò gli occhi quando lo vide immergere le dita nella marmellata e avvicinarle alle sue labbra.
“Fai la brava adesso, apri la bocca. Devi mangiare qualcosa o collasserai di nuovo. Ah, se ti azzardi anche solo a mordermi ti strapperò via i denti uno per uno; sai che non scherzo.” Aggiunse serissimo.
Lei lo guardò senza capire, così lui le ficcò due dita in bocca a forza.
Il sapore dolcissimo delle fragole le esplose sulla lingua, facendole salire istantaneamente la nausea. Senza pensarci due volte sputò la marmellata a terra.
Ryuzaki sorrise divertito “Non pensavo che dopo tre giorni di digiuno fossi ancora così schizzinosa in fatto di cibo.”
Rumer era abituata a non mangiare per molto tempo, fin da quando era piccola e la mettevano in punizione all’orfanotrofio. Eppure il suo corpo debole reagì istantaneamente allo zucchero, smorzando un poco il giramento di testa.
“Al momento è tutto quello che ho in casa, quindi vedi di fartelo piacere.”disse.
Immerse nuovamente la mano nel barattolo e stavolta Rumer aprì la bocca volontariamente, prendendo a succhiare e leccare le sue dita, impregnate di quella dolce sostanza .
In una remota parte del cervello pensò che quello che stava facendo poteva sembrare estremamente erotico; eppure Ryuzaki aveva un’espressione assolutamente annoiata mentre portava meccanicamente la mano alla sua bocca, guardandola negli occhi senza fare commenti.
Dopo la nausea iniziale, si abituò piuttosto in fretta al sapore forte delle fragole, e percepì un leggero retrogusto amaro, che doveva appartenere alla pelle del ragazzo. Sentiva le guancie andare a fuoco mentre percepiva le sue dita gli accarezzargli la lingua, bagnandosi di saliva. Per fortuna il barattolo finì in fretta.
Ryuzaki si pulì la mano sui jeans e face un passo indietro. “Domani è il gran giorno.” Disse sorridendo e tirando fuori da una tasca posteriore dei jeans quella che sembrava una croce di paglia.
“Dimmi Rumer, sai che cos’è questa?”
La ragazza annuì sorpresa “ Una wara ningyo. E’ una bambola di origine giapponese che viene usata generalmente con lo scopo di maledire qualcuno. Dove l’hai presa?”
“L’ho fatta io. Ti piace?” Lei lo guardò storto senza rispondere.
“Vedi, questa piccola bambolina di paglia avrà un ruolo fondamentale nella mia storia.” Fece criptico.
“Non sapevo ti interessassi di cultura giapponese.” Disse cupa.
“Tu non sai assolutamente nulla di me.” Constatò lui tranquillamente.
Era vero. L’unica certezza era la sua ossessione malata nei confronti di suo fratello e un attaccamento innaturale alla marmellata di fragole.
“Io invece so che vostra madre era di origini giapponesi*; quindi possiamo affermare che oltre ad avere un ruolo di depistaggio nei confronti della polizia, queste bamboline indicheranno indirettamente anche a chi sono rivolte. L non si lascerà mai sfuggire un indizio del genere, è sempre molto attento ai dettagli. Da quando sono scappato dalla Wammy’s House non ha fatto altro che aspettare che commettessi il crimine che avrebbe dato inizio alla nostra partita.” Si rigirò la bambolina tra le mani con aria assorta. “Diciamo che questo, insieme ad altri indizi che seminerò, gli farà capire che il momento di scendere in campo è finalmente arrivato.”
Rumer non capiva “Quindi tu vuoi che lui sappia che l’assassino sei tu?” insomma, era come firmarsi da solo la condanna a morte.
Ryuzaki sbottò a ridere “Ovviamente! Dal primo omicidio capirà che sono stato io. E’ proprio questo il fulcro del mio piano.” Sembrava enormemente divertito.
“Dal primo?” chiese lei con voce strozzata. “Quante persone hai intenzione di ammazzare?”
Per tutta risposta lui si avvicinò e le infilò la bambolina nella tasca dei pantaloni.
“Lo vedrai.”
 
 
*l’informazione che L sia per metà di origini giapponesi è riportata nel vol.13

   
 
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