Oceani_10
ATTO
X: ISOLA DI SAN
ANDRES, VILLAGGIO › MAR DEI
CARAIBI, 1768
DAVY
JONES’ LOCKER [1]
Non riuscivo ancora a credere a
ciò che i miei occhi mi
stavano mostrando.
A bocca aperta avevo cominciato a guardarmi intorno sin dal
momento in cui avevamo attraccato ed eravamo sbarcati, con le braccia
distese
lungo i fianchi e le gambe che mi tremavano a causa della bizzarra
emozione che
mi aveva investito.
Avevo saputo la verità sulle
mie
origini da non molto tempo, e, sebbene non ricordassi niente dei
momenti
passati in quel posto, nell’osservare la vasta distesa verde
che avevo dinanzi
mi sentivo stranamente nostalgico. Cespugli e rovi sorgevano in ogni
dove, e
gli alberi, i cui rami ormai spogli oscillavano piano al vento che si
era
innalzato, apparivano simili a tante sinistre sentinelle poste a
protezione di
quel luogo senza tempo.
«San Andres»,
esordì d’un
tratto
Gale, lo sguardo puntato a sua volta dritto davanti a sé.
«Il luogo dove siamo
cresciuti entrambi». Non abbassò gli occhi per
guardarmi in viso, però sorrise
quasi tristemente. «Bentornato a casa, Jim».
Mi umettai le labbra, portando la
mia attenzione verso le costruzioni in rovina che scorgevo in
lontananza. «Casa»,
ripetei in un soffio, facendo fatica a deglutire. Era davvero casa mia,
quella?
«Stai cominciando a ricordare
qualcosa?»
Scossi il capo, cercando al tempo
stesso di fare mente locale. Di quel giorno lontano ricordavo solo le
alte
fiamme che avevano avvolto il villaggio, il fetore del grasso umano che
bruciava e il viaggio che avevo compiuto in seguito in mare a bordo di
quella
nave pirata; tutto ciò che era avvenuto prima,
però, era ancora tutto avvolto
da una nebbia che non riuscivo a dissipare, una terribile incognita che
sembrava farsi più fitta mano a mano che avanzavo.
Gale mi diede una pacca su una
spalla. «Con il tempo ci riuscirai, vedrai».
«E gli conviene anche farlo in
fretta». Cid, che dopo essersi avvicinato a noi si era
intromesso nel nostro
discorso, mi lanciò uno sguardo eloquente, riportando poi la
propria attenzione
sul viso del Capitano. «E’ ormai tempo di andare,
Gale», gli disse
semplicemente, senza aggiungere nient’altro ma sfiorandosi il
petto con due
dita, esattamente nel punto in cui era stato ferito.
Ricevette una rapida occhiata da
Gale, che sospirò sconsolato prima di annuire.
«Aye, ti raggiungo subito»,
replicò, passandomi un braccio dietro alle spalle senza che
io mi opponessi. Lo
shock che mi aveva provocato il ritrovarmi lì era stato
grande, e ancora
faticavo a credere che quella fosse realmente la mia isola natale. Per
anni
avevo sognato di riacquistare la memoria e di ricordare così
chi fossi e dove
avessi vissuto prima di giungere a Porto Rico, ma mai mi sarei sognato
di credere
che provenissi da una stirpe di pirati. Ma ciò spiegava la
sete di
avventura che avevo provato sin dalla prima volta che avevo udito i
racconti
della clientela che stanziava nella locanda, e non mi era
più così difficile
comprendere perché mi ribollisse ogni qual volta il sangue
nelle vene.
Viaggiando con Gale e Cid, però, avevo appurato che la vita
in mezzo all’oceano
non faceva affatto per me: ero goffo, poco attento, non sapevo
maneggiare
un’arma né tanto meno sapevo governare un
vascello... come pirata ero un
fallimento, e niente avrebbe potuto cambiare le cose. Forse se fossi
cresciuto
lì, in quel villaggio di cui adesso stavo osservando le
macerie, le cose
sarebbero state diverse.
Seguii Gale fra le erbacce che
erano cresciute intorno ai blocchi di pietra crollati a causa delle
cannonate,
scavalcando travi di legno logorate e annerite dal fuoco; ovunque mi
guardassi
vedevo oggetti di uso quotidiano sparsi in ogni dove, da cocci rotti a
bambole
di pezza macchiate di sangue, appartenute molto probabilmente a qualche
bambina
del villaggio. Alla vista di tutto ciò mi si strinse il
cuore: era stata quella
la sorte che era toccata a chi non era riuscito a scappare? Vedere i
propri
cari cadere come mosche prima di venir trucidati a loro volta?
Strinsi gli occhi con forza, non
volendo vedere oltre; ma anche se avessi tenuto le palpebre abbassate
per tutto
il tragitto non sarebbe servito a niente, giacché la
testimonianza di quanto
accaduto era proprio lì davanti a me, che lo volessi oppure
no. Mi sembrava di
sentire il respiro di ogni singola pietra, di ogni filo
d’erba o tronco
d’albero, persino i sussurri di quel passato che non riuscivo
a ricordare con esattezza.
Cercai dunque di farmi forza e,
riaperti gli occhi, continuai a seguire Gale, che mi aveva frattanto
lasciato
per aumentare da solo il passo; ci fermammo soltanto quando superammo
il
villaggio e ci ritrovammo nei pressi di una collina erbosa, dove
sembrava
esserci un cimitero. Il mio sguardo vagò fra quella vasta
distesa di lapidi
contrassegnate da semplici bastoni legati fra loro a formare una croce,
ed
erano così marci e scheggiati da darmi
l’impressione che potessero collassare
su loro stessi in qualsiasi momento. «Quante
tombe...» sussurrai, sfiorando la
pietra di una di esse e sporcandomi subito dopo le dita. Era umida e
imbrattata
di terriccio, ed emanava uno strano odore che mi riportò
alla mente quello
della cenere.
Il Capitano mi poggiò
delicatamente una mano su una spalla. «Appartengono a tutte
le persone morte
quel giorno», mi spiegò, quasi l’avesse
ritenuto necessario. Mi condusse fra la
moltitudine di pietre tombali abbandonate a loro stesse e io lo lasciai
fare,
avvertendo la profonda malinconia che sembrava scaturire dal suo stesso
corpo.
Avevo davvero vissuto anch’io quella tragedia? Avevo sul
serio visto tutte
quelle persone morire nel vano tentativo di mandar via i pirati che li
avevano
così brutalmente attaccati? Non lo ricordavo minimamente e,
per quanto Gale mi
avesse detto e ripetuto di essere mio fratello per tutto il viaggio e
oltre,
ancora non riuscivo a rammentare niente di lui o di quanto era
accaduto.
Spronato da Gale, mi chinai verso una
delle tombe esterne che avevamo raggiunto, ripulendola dal muschio che
la
ricopriva con entrambe le mani e ignorando la viscida sensazione che
esso mi
trasmetteva ogni qual volta le mie dita ne sfioravano la vischiosa
consistenza.
«Questa... è di nostra madre?» chiesi
poi non appena riuscii a leggere il nome
inciso sulla pietra, osservandolo quasi con referenziale tristezza. Non
ricordavo assolutamente niente di quella donna, e mi sembrava una cosa
a dir
poco meschina nei suoi confronti, nei confronti di colei che aveva
rischiato la
propria vita solo per proteggermi.
Gale annuì appena senza dire
una
parola, indicando poi la tomba affianco ad essa. Lo osservai e sbattei
le
palpebre, non riuscendo a capire cosa volesse dire, ma lui mi fece
cenno di
districare anche quella dal muschio e dalle erbacce che erano cresciute
tutt’intorno e che non mi permettevano di leggere il nome,
sollevando un sopracciglio
quando mi fu finalmente possibile. «Chi era questo Thomas?
Porta lo stesso
cognome della mamma».
La risposta che mi diede, con voce
così pacata che non sembrò appartenere allo
strambo Capitano che avevo imparato
a conoscere, mi raggelò seduta stante. «Ero
io».
Sgranai gli occhi e boccheggiai,
portandomi una mano fra i capelli come se quel gesto potesse servire a
dare un
senso a quelle parole. «M-ma... è
impossibile», farfugliai, non riuscendo a
credere a ciò che le mie orecchie avevano appena sentito. Mi
stava forse
prendendo in giro? Cosa diavolo voleva intendere? «Questo
significherebbe che
tu sei...»
«...morto».
La cosa stava diventando sempre
più strana, specialmente a causa del tono schietto e pacato
con cui Gale stava
pronunciando quelle parole. Lo vidi persino gettare una rapida occhiata
verso
Cid, e mi venne spontaneo domandare, «E anche Cid
è un...»
Gale stornò nuovamente lo
sguardo
su di me, incerto. «Cid?», ripeté,
alzando appena un angolo della bocca in un
mezzo sorriso. Si lasciò sfuggite uno sbuffo ilare,
incrociando subito dopo le
braccia al petto. «Och, beh, lui è una sorta di
traghettatore, sai», mi
confessò, e sebbene il suo tono parve di scherno capii
immediatamente che non
scherzava. Erano davvero... morti. Erano morti, eppure avevo viaggiato
con loro
fino a quel momento, avevo vissuto mille avventure, riso, pianto,
scherzato...
non riuscivo davvero a credere di aver condiviso tutto ciò
con due persone che
non avrebbero nemmeno dovuto essere lì.
«Adesso ci credi a quelle
vecchie storie
di fantasmi che ti raccontavo quand’eri più
piccolo, Jim?» mi domandò vagamente
spassoso, ma si sentiva benissimo che aveva tentato di usarlo solo per
alleggerire la situazione. Mi scompigliò i capelli con fare
paterno,
ravvivandomeli poi all’indietro prima di chinarsi verso di
me. «Stammi bene,
ragazzo», soggiunse in un sussurro, raddrizzando la schiena e
traendo un
sospiro.
Accennò un altro saluto con
il
capo, dandomi infine le spalle per cominciare ad incamminarsi nella
stessa
direzione in cui era già sparito Cid, che aveva deciso di
lasciarci soli per
concederci un po’ di privacy. Io me ne restai lì
ad osservarlo, inerme come una
bambola di pezza a cui erano stati appena strappati gli arti, la fronte
aggrottata da emozioni che fino a quel momento non avevano mai solcato
il mio
viso. Non volevo vederlo sparire ancora una volta. Non volevo
ritrovarmi di
nuovo solo. Perché doveva andare per forza così?
Sentii le lacrime bruciarmi agli
angoli degli occhi. «Non voglio che tu vada, Gale»,
gracchiai con voce
strozzata dal pianto, avvertendo la saliva che mi bloccava la gola. Mi
stavo
trattenendo per non singhiozzare, però mi fu ancor
più difficile farlo quando
lui si fermò di botto e si voltò verso di me,
osservandomi attento con quei
suoi occhi verdi e profondi che esprimevano più di quanto
avesse mai potuto
dirmi a parole.
La cosa che mi fece ancora
più
male fu vedere che sorrideva. Nonostante tutto, nonostante il fatto che
dovessimo separarci ancora, lui sorrideva. «Andiamo, ragazzo,
cosa sono quei
lacrimoni?» mi disse, inclinando un po’ il capo di
lato. «Questo non è mica un
addio, eh».
«Lo è,
invece», insistetti,
passandomi la mano destra su una guancia e tirando su con il naso. Non
mi
importava niente di star facendo la figura del bambino a cui mancava la
madre;
avevo bisogno di sfogarmi, di piangere tutte le lacrime che mi ero
tenuto
dentro in quegli anni, e non riuscivo ancora a capacitarmi del fatto
che
dovessi lasciar andare una volta per tutte l’unico membro
della mia vera
famiglia che avevo conosciuto.
«Affidiamo a te la mappa,
Jim», mi
disse poi in un mezzo sussurro, prendendomi svelto una mano per far
sì che
afferrassi saldamente quel pezzo di carta stropicciata che mi stava
porgendo
con così tanta apprensione. «Fanne buon uso,
nascondila oppure distruggila,
spetta solo a te decidere il da farsi». Quando alzai gli
occhi vidi che
sorrideva ancora, e la cosa mi snervò. «Verso
ovest c’è una città, dista
pochissimo da qui. Alcuni abitanti sono le poche persone sopravvissute
all’assalto di sei anni fa, mostra loro il doblone che
custodisci e capiranno
subito chi sei; ti accoglieranno come un figlio, vedrai».
Le sue parole, però,
anziché
rassicurarmi, fecero aumentare il groppo che ormai sentivo in gola.
Strinsi la
mappa che mi aveva consegnato e abbassai le palpebre talmente forte che
sentii
la testa scoppiarmi, e dovetti trarre un lungo sospiro per impedirmi di
singhiozzare come un moccioso ancora una volta. Ci stavo provando
davvero a
comportarmi come un uomo degno di tale nome, ma mi sembrava di non
esserne
all’altezza. Con la coda dell’occhio vidi
nuovamente la figura piccola e
lontana di Cid, che attendeva nei pressi del vecchio porto con le
braccia
incrociate al petto; non potevo vederlo con attenzione in viso, ma ero
sicuro
quasi al cento per cento che la sua espressione fosse impassibile.
Tornai
dunque a guardare Gale, umettandomi le labbra prima di passarmi di
nuovo il
dorso della mano sul viso. «Cid ti sta aspettando»,
ebbi infine il coraggio di
mormorare, conscio che se non l’avessi fatto in quel momento
non ci sarei più
riuscito.
Lo vidi lanciarsi un’occhiata
alle
spalle come se volesse controllare la posizione del suo vice, alzando
poi un
braccio per fare un rapido cenno nella sua direzione. Quando
stornò lo sguardo
su di me, si tolse il giaccone - quel maledetto giaccone logoro e
trasandato di
cui non si liberava mai - e me lo poggiò sulle spalle,
facendomi sgranare gli
occhi, scombussolato. «Ti affido anche questo,
ragazzo», esordì con voce lieve.
«Vedi di farci attenzione, mi raccomando».
Guardai lui e poi il giaccone, non
riuscendo a capacitarmi del fatto che fosse tremendamente caldo. Mi
strinsi
dentro di esso, chinando il capo e affondando il viso nella stoffa
logora:
odorava di tabacco, salsedine e liquore, ma in quel momento mi parve il
profumo
più bello che avessi mai sentito. «Mi sta
grande», pigolai, sforzandomi di fare
uscire dal fondo della mia gola una mezza risata, così da
alleggerire quella
situazione.
«Ci crescerai dentro,
tranquillo»,
rimbeccò Gale, scompigliandomi ancora una volta i capelli.
«Ti porterà fortuna,
proprio come il doblone di nostro padre. Ha permesso che ci
incontrassimo, no?
Custodiscili come farebbe un vero pirata con il proprio
tesoro».
Non gli risposi, però annuii
piano, ancora stretto in quel giaccone che odorava di tutte le
avventure e
scorribande che aveva affrontato insieme al suo precedente possessore.
Non ebbi
nemmeno il coraggio di alzare lo sguardo quando sentii Gale salutarmi
un’ultima
volta prima di allontanarsi, concentrandomi unicamente sul rumore dei
suoi
passi sul terreno umido e fragrante; udii il richiamo di Cid e li
sentii
parlottare, e fu solo a quel punto che mi decisi ad alzare la testa,
vedendoli
gettarmi un ultimo sguardo prima di risalire sulla nave, salpando una
volta per
tutte da quei lidi a vele spiegate.
Le labbra mi tremarono ancora una
volta e, prima ancora che il mio cervello potesse mandare segnali ai
nervi, mi
strinsi quel giaccone addosso e corsi, corsi come non avevo mai fatto
fino a
quel momento, con le gambe che mi dolevano ad ogni falcata; arrivai al
porto e
seguii la rotta della nave dalla terra ferma, osservandola mentre
diveniva
sempre più piccola e distante, con quelle vele nere che si
gonfiavano ad ogni
folata di vento e la chiglia che veniva investita dalle onde del mare.
Mi
fermai solo quando non ebbi più fiato nei polmoni e non
riuscii più a vedere nemmeno
uno scorcio del veliero, accasciandomi a mezzobusto con le mani
poggiate sulle
ginocchia e gli occhi ormai gonfi di lacrime, le orecchie colme dello
sciabordio delle onde contro le pareti rocciose.
Alla fine era andata così. Il
mare
ci aveva divisi e aveva poi fatto sì che ci incontrassimo
ancora una volta dopo
anni, separandoci definitivamente in seguito senza che potessimo far
niente per
impedirlo. Thomas Randall, altresì detto
Capitan Gale, era entrato nella mia vita come una tempesta e con la
stessa
furia se n’era andato, lasciandosi trascinare via dalle onde
di quell’oceano in
tumulto che stavo osservando. Un oceano in burrasca, proprio come il
mio cuore.
OCEANI IN BURRASCA
FINE
[1] Espressione
che, oltre a significare “Lo scrigno
di Davy Jones”, è anche un eufemismo per
“il fondo dell’oceano”, inteso come
luogo in cui riposano i marinai annegati, ovvero “una tomba
in fondo al mare”.
La scelta del titolo
sarà chiara mano a mano che si procederà con la
lettura del capitolo, o almeno
questa è l’intenzione.
PRIMA CLASSIFICATA
OCEANI IN
BURRASCA
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa
storia è stata scritta per il
“Pirates
Contest” indetto
da visbs88, e si
è
classificata Prima
per quanto io l'abbia considerata un'assurdità sin dal
principio. Ma scriverla è stata un vero piacere, e vedere la
posizione mi ha provocato una gioia inimmaginabile.
Siamo comunque finalmente giunti alla fine di questa storia,
che ammetto sarebbe dovuta essere molto più lunga
di
quanto non sia adesso. E’ alquanto diversa da quelle
che scrivo di solito, forse perché ho voluto giocare
maggiormente la carta
dell’avventura e della commedia anziché quella del
drammatico...
Mi è piaciuto molto
descrivere il rapporto fra Gale e Cid, che sebbene siano compagni non
lo
dimostrano quasi mai, se non in rarissime situazioni; essendo uomini di
mare ho
pensato che sarebbe stato assurdo dipingerli come una coppietta felice
- e tra
l’altro neanche mi piace scrivere storie in cui la coppia in
questione è tutta
“cicci cicci miao miao”, mi fa davvero venire
l’orticaria -, e ho dunque dato
al loro rapporto questa tonalità :3
Spendiamo inoltre due parole
sull’ultimo capitolo: tutti i piccoli riferimenti che mettevo
mano a mano nella storia
servivano per arrivare esattamente a questa conclusione, lasciando
credere al
lettore che Gale si fosse salvato dalla strage avvenuta al suo
villaggio e che
avesse cominciato a solcare i mari alla ricerca del fratello scomparso.
E’
invece morto anche lui e il suo animo non ha trovato pace, vagando come
un
fantasma corporeo e partendo alla volta di quel vasto oceano,
procurandosi
persino una ciurma con la quale raggiunge mille e mille luoghi fino
all’incontro con Cid, il cui ruolo è anche quello
di traghettare le anime. Per
farla breve, tutti i precedenti capitoli e tutto ciò che
viene raccontato in
essi sono stati solo un’avventura fasulla vissuta da un
fantasma (Gale) e dal
suo Caronte (Cid) fino al raggiungimento del desiderio del fantasma
stesso:
trovare il fratello e accertarsi che stesse bene, perché in
fin dei conti, aye,
essere un pirata significa anche inseguire i propri sogni, le proprie
ambizioni
e i propri ideali *Le sparano perché guarda troppo One
Piece*
Ecco anche spiegato il motivo
per cui in realtà su quella benedetta nave sono soltanto in
tre. Essendo dei
fantasmi, beh... la cosa sarebbe risultata alquanto bizzarra. Fino a
questo momento non
avevo mai scritto una storia di pirati, dunque è stata una
bella esperienza;
per quanto io abbia visto molti film e letto un paio di libri
sull’argomento,
avevo un po’ paura a presentare questa storia
perché all’inizio non mi
convinceva. Però alla fine eccola qui ;)
E’ un po’ incasinata, non lo
nego, ma spero comunque che sia stata comprensibile e che, in special
modo, sia piaciuta
Alla prossima ♥
_My Pride_
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
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