Ottavo
Considero un miracolo l’aver avuto Irina accanto a me in quel
momento.
Appresa la scomparsa di ‘Adel, mi pietrificai e caddi in
ginocchio; in faccia avevo di tutto: lacrime, moccio, polvere, ero l’immagine
stessa della disperazione e d’altro canto, come si faceva a non esserlo, avevo
appena perso il secondo ragazzo che avessi mai baciato, quello più gentile e
comprensivo che avessi mai incontrato, il primo per il quale avevo provato una
forte attrazione sessuale. Mi aspettavo di trovarlo appoggiato al muretto,
sorridente e dagli abiti eleganti ed ordinati che mi guardava e sorrideva,
chissà se quei suoi nerissimi occhi restarono aperti o chiusi nel, chissà
qual’e stato il suo ultimo pensiero, la sua ultima parola o il suo ultimo
incantesimo prima di perdere la vita.
“Fermo!” Irina si mise tra me e il nuovo nemico. Non
avendogli risposto, aveva fatto molti passi nella mia direzione e sembrava
proprio che non avesse buone intenzioni. Potevo percepire il pericolo ma il mio
corpo si rifiutava di muoversi, l’unico movimento consentito erano i
singhiozzi.
“Spostati, tu sei fuori!”
“So’ che hai invocato tu l’incantesimo Haab e ricordo bene la
tua predisposizione per le sfide difficili, quelle all’ultimo respiro, ti piace
misurarti con tutto e tutti per dimostrare la tua superiorità. Non è forse
questo il motivo per il quale hai voluto che lottassimo l’uno contro l’altro?”
“Diciamo che hai indovinato, dove vuoi arrivare?”
“Il tuo avversario non è il grado di combattere, nemmeno di
cominciare lo scontro, sei davvero sicuro di voler vincere in questo modo, di
arrivare direttamente alla vittoria?”
Il mio avversario rimase immobile e si morse il labbro in
modo molto violento, successivamente ci diede le spalle e si allontanò in
silenzio. I suoi passi erano molto pesanti e li udii anche quando fu molto
lontano.
Mi rimisi in piedi con l’aiuto di Irina e mi fece appoggiare
al parapetto affinché potessi respirare. Ero cieca, le lacrime mi accecavano,
non smettevano di cadere, di bagnarmi il viso, dopo un po’ un riuscii più a
singhiozzare o parlare, non potevo urlare, solo lacrime su lacrime. Non mi
accorsi nemmeno di essere tra le braccia di Li o quando fosse arrivato, mi
strinse forte e nascosi il viso sul suo petto, come un gatto impaurito.
Quando riaprii gli occhi mi ritrovai in una stanza
sconosciuta, di nuovo, questa volta riconobbi la stanza di un albergo. Ricordai
che Li mi trasportò di peso e ci volle molta forza per staccare le mie braccia
dal suo collo; sembravo una bambina e riuscii a fermare le lacrime solo
prendendo sonno.
Al mio risveglio il sole stava tramontando, dalla finestra
entrava di nuovo una calda aurora arancione e le mie lacrime ricominciarono da
dove avevano smesso. Sembrava impossibile: ero davvero contenta di poter
rivedere ‘Adel, di poter mettere fine a quella corsa sempre più frenetica e
faticosa, anche di riabbracciarlo, non potei fare niente di tutto ciò.
“Grazie.” Irina era nella stanza e stava leggende un grosso
libro, quel ringraziamento fu la prima parola che mi venne in mente, eppure non
venni degnata di considerazione. Quasi sbattendo la porta, fece il suo ingresso
Li con Kerochan seduto sulla sua spalla, si diressero alla finestra e
verificarono da quale mezzo provenivano le sirene in lontananza. Quando capì
che non c’era pericolo si sedette ai piedi del letto.
“C’era proprio bisogno di andartene in giro per la città?”
Kerochan sembrava al quanto arrabbiato. Teneva le zampe conserte e lo sguardo
tagliente, non era possibile per lui fare la faccia minacciosa, sarebbe
sembrato sempre e solo un pupazzo.
“Adesso basta! Vi ho già detto che l’ho portata in giro i!.”
Irina chiuse il di botto per riportare il silenzio. Ovviamente tutti ci
voltammo verso di lei; mantenne la calma mentre posava il volume sul comodino
li accanto ma non riuscì a trattenere alcune lacrime.
“Perché piangi?”
“Perché mi dispiace! Mi spiace che tu debba lottare contro
quel…mostro, non ha pietà, non teme niente e nessuno, uccide e basta, ha una
conoscenza incredibile delle arti magiche di metà pianeta.”
“Non ci credo!” Li si rimise in piedi. “Tutti hanno un punto
debole, non esiste la perfezione.”
“Ovvio che ci sono ma la più potente non può essere utilizzata
da Sakura.”
“Ascoltami bene: le hai gettato addosso un muro ed ha rischiato
di morire dissanguata, hai usato la tua situazione di dolce attesa come un’arma,
dici come utilizzare questo punto debole a nostro favore o ti giurò che mi
vendicherò per ciò che le hai fatto!”
Ammetto che fu molto gentile ma allo stesso tempo fastidioso.
“Non può essere utilizzato perché sono io quel punto debole!”
Irina si mise in piedi proprio di fronte a Li. “Ora siediti!”
Li non poté che risedersi, lo sguardo di Irina pietrificava.
Nessuno dei due aveva alzato la voce, erano bastagli gli sguardi a contornare
quelle poche frasi che si scambiarono. Mi asciugai le lacrime con il lenzuolo,
il dolore al cuore non se n’era ancora andato.
“Pierfrancesco Spina è il tuo prossimo nemico! Lui è diretto
discendete di Ferrante Croce, uno dei maghi più forti e temibili che abbia mai
messo piede in questo mondo. Non so se contarlo come difetto o pregio per la
sua personalità ma ho sempre pensato che fosse Autistico. Si estranea
totalmente, a livelli tali che quando ti ignora pare sordo, quando lo colpisci
cade ma si rialza come se fosse inciampato da solo. Ha un’ossessione
incredibile per l’ordine e la simmetria. Può sembrare questo il suo punto
debole ma non lo è, per la sua persona è un pregio perché ottiene ciò che vuole
grazie alla magia. Se affronta un nemico si estranea dall’umanità e lo uccide
come una zanzara fastidiosa. Sembra calmo, ma ha tic frequenti e se li
interrompi è capace di farti pagare con la vita.” Irina prese di nuovo posto.
“Sembra una persona di mezza età ma in realtà si trascura moltissimo, siamo
coetanei ed io ho trentadue anni. Passa tutto il tempo ad ampliare e migliorare
le sue conoscenze, principalmente magia e alchimia, ma è una persona
incredibilmente colta e con un quoziente intellettivo di molto superiore alla
norma.”
“Che centra tutto questo con te?” Li sembrava impaziente.
“Sono stata la sua ragazza!”
E’ incredibile come risulta piccolo il mondo, siamo 7
miliardi di persone ma quando viaggi sembra semplicemente di andare in periferia,
un periferia immensa. Io e Li ci guardammo ma i nostri visi quasi non
mostrarono espressione, eravamo arrivati al punto che non ci sorprendevamo più
di nulla.
“Quando andavo all’Università vinsi una borsa di studio
Erasmus per l’università di Murcia, in Spagna. Era una città minuscola in
confronto a Kiev ma con tre campus universitari era molto viva e piena di
culture diverse, praticamente ti senti davvero in Europa! Ho incontrato
Pierfrancesco durante il corso intensivo di Spagnolo e durante le varie feste erasmus
ci siamo conosciuti meglio, innamorati e, come potete immaginare, non passavamo
di certo il tempo a guardarci negli occhi.”
“Ci stai dicendo che il figlio che aspetti è suo?” Feci una
domanda molto stupida, me ne accorsi solo quando l’avevo già pronunciata.
“No, vi sto spiegando che il nostro rapporto raggiunse
livelli molto forti ma non restai mai incinta da parte sua, anche perché
abbiamo usato sempre il preservativo.” Irina cominciò a giocherellare con i
capelli. “La storia non durò più dei sei mesi che passammo da studenti ospiti e
mi accorsi subito di questi suoi particolari atteggiamenti, ma solo verso le
altre persone. La cosa strana è che quando era in mia compagnia si trasformava
in una persona diversa, diciamo nella norma, non sembrava autistico, pareva
quasi che si rilassasse.
Ci lasciammo ad un mese dalla fine della borsa di studio, a
dir la verità erano tre settimane e fui io a lasciarlo. Non riuscivo più a
sopportarlo: era incredibilmente geloso ed invadente; se una persona mia ama ha
fiducia in me. Non lo vidi per svariati anni e so soltanto che continuò gli
studi a Benevento fino alla laurea, poi si ritirò per altri studi di natura
magica e alchemica a Napoli. Agropoli è la sua città natale e la sua presenza
può significare solo che è arrivato a conoscenze tali da sentirsi invincibile,
sono convinta che abbia invocato il torneo Haab proprio per testare queste sue
nuove capacità.”
Li si mangiò le unghie durante tutto il racconto. Il suo
sguardo non stava fermo un attimo e sembrava che stesse diventando sempre più
nervos, alla fine si mise in piedi per avvicinarsi alla finestra: “Quindi il
punto debole sei tu, e dato che è Sakura quella che deve affrontare questo Pirrfanccescoo,
non ha possibilità di vincere!”
Irina tacque, smise anche di passare le dita tra i capelli,
ovviamente non mi piacque quel silenzio, presagiva una mia inevitabile
sconfitta o peggio, la morte. In realtà non avevo ancora deciso se affrontare
quell’ultima battaglia, la morte di ‘Adel mi aveva ovviamente spiazzata,
demoralizzata, le lacrime si erano fermate ma sapevo che non sarei riuscita a
stare in piedi senza cascare di nuovo in ginocchio.
Quando arrivò sera ricordo che andammo a dormire molto
presto, non prima di aver mangiato qualche schifezza dal minibar del bad and
breakfast. Sembrava che Irina sapesse che avrei passato la notte da lei, mi
stupii molto nel notare che la stanza nella quale ero stata portata aveva due
letti. Li decise di tornare da Tomoyo e Papà e rimasi sola con la persona che
mi aveva quasi ucciso.
Ovvio che non mi piaceva come situazione, farsi offrire il
caffè non basta come scuse, farsi raccontare i punti deboli del nemico nemmeno;
ero molto titubante e la sua gentilezza non poteva che spiazzarmi. Ovviamente
Kerochan restò con me ma fu come se non ci fosse dato che cominciò a russare
ancora prima che spegnessimo le luci. Quando Irina prese sonno io avevo ancora
gli occhi aperti e guardavo fuori dalla finestra le macchine che gironzolavano
per la città, non mi andava di dormire nella stessa stanza di persona che
avrebbe potuto aver fatto, con questo Pierfrancesco, un patto simile a quello
tra me e ‘Adel. Ovviamente non potevo essere certa di quelle mie seghe mentali
ma non era una possibilità da scartare. Quando avevo dormito sapevo che c’era
li e quindi mi sentivo serena, quando se ne andò avrei tanto voluto urlargli di
restare ma dalla mia bocca uscirono solo altri singhiozzi.
Faceva un gran caldo e ricordo di aver aperto la finestra
quel tanto che bastava per far entrare un po’ di fresco. Finalmente mi sdraiai
ma ero fradicia per il sudore e decisi di restare solo in maglietta e mutande,
come in pieno agosto, quell’anno la primavera fu tanto calda quanto l’estate.
Un bagliore dell’oscurità mi fece venire la pelle d’oca,
tanto che cercai scettro e carte, fortunatamente capii che non c’erano vibrazioni
pericolose e divenni rovente in viso.
Gli unici uomini nudi che avessi mai visto erano quelli delle
illustrazioni del libro di Storia dell’Arte. In quel momento ne avevo uno di
fronte a me e quando fece alcuni passi verso il mio letto apparve il sorriso
inconfondibile e carico di gentilezza di ‘Adel. Quasi scoppiai in lacrime ed
ancora prima che potesse cadere una lacrima era su di me per riempirmi di baci.
Non riuscivo a parlare e nemmeno lui proferì parola, sembravano così inutili e
fuori luogo; chiusi gli occhi e mi rilassai tra le braccia e non disprezzai il
fare l’amore con lui. Non era sporco, non era sesso, era carico di sentimento,
di lacrime e gemiti nascosti, di carezze, di baci sul collo, sui seni, di
orecchie mordicchiate e mani tra i capelli.
Mi ripresi ancora più sudata di prima, ero attraversata da
fremiti di non so cosa, di nuovo umida nella parte più sensibile e sola nel
letto. Dapprima mi sentii una depravata ma il senso di colpa sparì quasi
subito, avevo capito di aver provato qualcosa di più spesso nel confronti di
‘Adel e che non sarei mai dovuta andare via da Napoli, sarei dovuta restare per
aiutarlo e salvargli la vita.
Di nuovo una vibrazione di pericolo.
Mi precipitai alla finestra, sembrava che non ci fosse niente
di strano, il buio era rotto solo dai lampioni e dalle luci provenienti dalle
finestre, di tanto in tanto alcune macchine percorrevano la via con i loro fari
e i cani abbaiavano da una casa all’altra. Non ho idea dell’ora, solo che non
c’era nessuno sui marciapiedi.
Di nuovo la vibrazione, questa volta più forte.
Mi voltai verso Irina e Kerochan, nessuno dei due si svegliò,
sembrava che la percepissi solo io, eppure era così forte, pareva che le pareti
si contorcessero, come in un terremoto. Aprii del tutto la finestra e le
vibrazioni aumentarono a dismisura, raccolsi le carte e lo scettro prima di
sedermi sulla finestra con le gambe penzolanti nel vuoto. Ero solo al primo
piano e a pochi centimetri dai piedi c’era il tetto catramato di una veranda in
legno, eppure avevo una lieve vertigine. Ci badai solo un primo istante e dopo
altre vibrazioni, più forti delle prime, mi lasciai andare e atterrai sul
catrame. Mi accorsi solo allora di essere rimasta in maglietta e mutande, che
stupida, e la finestra era troppo in alto.
“E’ stato divertente vederlo morire.” Nella mia testa
comparvero quelle parole glaciali. Mi voltai, come ben potete immaginare,
spaventata ma ero sola, la strada era deserta e venne attraversata solo da una
gatto grasso e goffo. Scesi in strada con un altro balzo.
“So che vuoi vendicarlo!” Di nuovo la voce e nessuna
presenza.
Cominciai a correre in direzione delle vibrazioni. Dopo
essere rimasta senza pantaloni a Roma non mi importava di correre in mutande
per Agropoli; prendevo strade apparentemente a caso, guidata solo dal mio
istinto che diceva di muovere le gambe verso quelle onde.
Un lampeggiante azzurro si intromise nella luce arancione dei
lampioni ed ancora prima che potessi voltarmi un’auto nera e con una scritta
bianca sulla fiancata salì sul marciapiede tagliandomi la strada. Dallo
sportello del passeggero scese un uomo con una divisa fin troppo familiare.
Corsi ancora più veloce verso la parte opposta, alle mie spalle udii l’auto
fare retromarcia e dopo aver accesso le sirene mi inseguì con un rombo
assordante. Cercai di cambiare strada all’ultimo momento nel tentativo di
seminarli ma non ebbi successo; sicuramente non si erano nemmeno accorti di chi
fossi, anche io essendo poliziotta e vedessi qualcuno che corre in mutande, di
notte, in mezzo alla strada, mi fermerei per vederci chiaro.
Senza volerlo mi ritrovai nella zona pedonale della mattina
prima; se nel resto della città non c’era quasi anima viva in quel tratto di
strada sembrava che i bar stessero facendo grandi affari. Udii uno stridio di
gomme e sportelli che si chiudevano di colpo. Non mi voltai perché sapevo già
di essere seguita a piedi, cominciai a correre tra i tavolini dei bar e
gruppetti di ragazzi vicino alle panchine cercando di apporre più ostacoli
possibili tra me e i Carabinieri. Quando la strada si fece in salita e a
scaloni, cominciai a sentire la stanchezza, strinsi i denti e non mi fermai
nemmeno quando varcai la porta della città vecchia. Le strade diventarono più
strette e tortuose, mi nascosi in un angolo buio e restai immobile cercando di
limitare il fracasso del mio fiatone. Udii gli scarponi dei carabinieri salire
gli scaloni e spuntare nella via, fortunatamente non indugiarono più di alcuni
secondi e proseguirono nella mia ricerca.
Mi sedetti in terra e ripresi fiato, per la fuga avevo smesso
di seguire le vibrazioni nell’aria, quindi fu una fortuna percepire che erano
molto vicine, come se anche nella fuga fossi stata indirizzata verso quelle
stradine strette. Attesi ancora qualche minuto prima di uscire dall’ombra, per
non fare rumore mi tolsi le scarpe, almeno quelle le avevo messe prima di
lanciarmi dalla finestra, e camminai verso il punto dal quale provenivano quei
terremoti.
“Per quanto ancora vuoi farmi aspettare?!” La voce fece di
nuovo capolino nella mia testa. Le vibrazioni aumentarono e dopo varie
stradine, scale e incroci sbucai di fronte ad un enorme castello aragonese
illuminato da fari arancioni che ne accentuavano la magnificenza. Alte mura mi
osservarono in segno di sfida mentre da una delle torri sventolavano bandiere
facendo un gran fracasso.
“Non ti vergogni ad andare in giro senza pantaloni?” Mossi
rapidamente lo sguardo alla ricerca di quella voce, quell’ultima frase era
stata pronunciata nelle vicinanze, non era comparsa nella mia mente, infatti Pierfrancesco
mi attendeva appoggiato ad una macchina. “Con quelle mutande rosse poi, non
siamo mica a capodanno!”
“Non sono rosse, sono rosa!” Risposi alla sua provocazione
come una bambina, era lo scarso livello di ossigeno al cervello, causa della
corsa. Mi inginocchiai per riprendere fiato, se mi avessero chiesto di fare la
strada al contrario e tornare da Irina, non ci sarei mai riuscita.
“Sei stata in gamba ad aver sconfitto Irina anche se
ripensandoci non era poi così scontata la lotta tra una occhi a mandola ed una
zingara, siete entrambi inutili.”
Non risposi alla sua provocazione razzista, rimasi però
sorpresa dall’insulto rivolto a quella persona che un tempo aveva amato, poi
ripensai a tutte le cose che dissi io a Li quando scoprii che stava con un'altra,
diciamo che avevamo reagito in modi simili; alle mie spalle arrivarono i due
carabinieri, ero stremata, non sarei riuscita a scappare una seconda volta, ,
cominciai a rimpiangere i miei pattini rossi, soli soletti sotto il letto a
Tomoeda. Contro ogni aspettativa vidi un terzo carabiniere, in divisa perfetta,
che si avvicinò al mio avversario, li vidi scambiarsi alcune frasi e sguardi di
sfida finché tutti e tre i militari non se ne andarono lasciandomi sola con Pierfrancesco.
“In questa città, così piccola, ci conosciamo praticamente
tutti e le persone dotate di capacità magiche sono più di quelle che ti
potresti aspettare, quello era un Maresciallo e vecchio amico di famiglia, un
pezzo grosso, nella vita ha approfondito tecniche di controllo dell’elettricità,
incredibili ma le ritengo troppo complicate e instabili per essere usate in
combattimento.” Pierfrancesco doveva aver notato la mia faccia sorpresa. “E’ a
conoscenza della nostra lotta imminente e non ci darà fastidio.”
Ripresi finalmente fiato, il Castello di spalle al mio nemico
era maestoso e le luci notturne gli conferivano un’aura davvero mistica,
magnetica, ripensandoci non poteva esserci sfondo migliore per quell’incontro.
“Hai detto imminente!?” Avevo ripreso fiato ma la
stanchezza sarebbe rimasta.
“Si, penso che sia il caso di porre fine a questo torneo,
anche tu sei del mio stesso parere altrimenti non avresti corso fin qui.”
Abbassai lo sguardo, mi sarebbe piaciuto affrontare quell’ultima
sfida con uno dei vestiti confezionati da Tomoyo, piuttosto che in mutande;
ignoravo la situazione psico-fisica del mio ultimo avversario ma doveva essere
perfetta, al contrario della mia che era disastrosa sotto ogni punto di vista:
iniziare l’ultimo combattimento in quell’istante significava rischiare tutto,
quasi per un capriccio. La ragione diceva di non accettare ma le questioni in
ballo erano troppe: la promessa fatta ad ‘Adel e quella a Irina, la salvezza
mia e di Li per non finire il galera e il pressante desiderio che tutto potesse
tornare alla normalità; volevo vincere per rimettere a posto il casino fatto a Pompei,
volevo che mio padre vedesse gli scavi e si potesse meravigliare nel camminare
sul ciottolato di oltre duemila anni; il cuore, al contrario, batteva sempre
più forte in attesa del nuovo scontro. Da quando ero diventata così competitiva
e così non curante della mia incolumità? Bah, le carte di Clow mi hanno
influenzata, è vero, ma avevo sempre creduto di poter controllare questo
condizionamento cercando di restare una ragazzina come tutte le altre, la
verità è che crebbi incredibilmente veloce a causa delle responsabilità che si
annidavano nelle mie tasche, quelle carte avevano il potere di distruggere ogni
cosa ed era compito mio fare in modo che ciò non avvenisse. Un volta catturate tutte
mi ero ripromessa che non le avrei mai utilizzare contro altre persone; avevo
infranto la mia stessa promessa ma non mi sentivo in colpa.
L’adrenalina entrò in circolo, potevo chiaramente sentirla
scorrere nelle braccia e nelle gambe, speravo che mi aiutasse nonostante la
stanchezza della corsa. Evocai le carte del vento e del volo per librarmi più
in alto che potevo. Il mio avversario restò ad osservare la scena senza battere
ciglio, anche quando la carta dell’arciere gli scagliò contro una decina di
frecce, si limitò a passeggiare per evitarle con calma snervante.
Atterrai sul castello e cercai un carta che mi potesse essere
utile, mossa sbagliata: una parte delle mura si sgretolò sotto di me e mi
salvai solo perché il potere della carta del volo era ancora attivo, decine e
decine di pietre cominciarono a volare in tutte le direzioni cercando di
colpirmi, alcune erano piccole come schegge mentre altre grandi quanto televisori.
Venni colpita ripetutamente prima di riuscire ad usare la carta dello scudo ed
atterrare senza troppi danni.
“Maledizione!” Lo esclamai, anzi, lo urlai. Ero stata colpita
al ginocchio e quasi mi accasciai. Cercai di farmi più piccola possibile mentre
le rocce si scagliavano sullo scudo nel tentativo di sfondarlo e quel momento
non avrebbe tardato.
Dovevo giocare bene le mie carte, in tutti i sensi: afferrai
la carta della piccolezza e le pietre di restrinsero fino a diventare sabbia e
quello fu il momento di prendere la carta della sabbia e la tecnica del mio
avversario gli si ritorse contro. Smise di fare il gradasso e si gettò a terra
mentre i proiettili di sabbia lo sfioravano di pochi centimetri disintegrando
alcune auto e facendo scattare l’allarme di altre.
“I miei complimenti” Pierfrancesco si scrollò la polvere di
dosso con calma indicibile, io ero dolorante e con il fiatone.” Sei quasi
riuscita a farmi spaventare. Non c’è male come inizio e comincio a comprendere
come tu possa essere arrivata fin qui.”
Non mi diede il tempo di respirare, mi ritrovai a correre per
evitare i frammenti delle auto di poco prima che mi piovevano addosso
infuocati. Non c’è altro modo di spiegarlo: il ferro non arde, era opera sua e
se uno di quei frammenti mi avesse colpito sarei stata sconfitta. Corsi fino a
che non trovai la carta dell’acqua ed invocandola evitai di essere colpita e
feci in modo che un mini tsunami si abbattesse sul mio avversario.
“Sei ripetitiva!” Ancora prima che l’onda lo colpisse era
scomparso e riapparso su di una torre del castello. L’acqua si ritirò e saltò
giù atterrando come se stesse scendendo da un gradino. Mi guardava con sfida ma
non osava avvicinarsi. Intuii che fosse specializzato in attacchi a distanza, nel
corpo a corpo era possibile vincere. Evocai la carta del vento per alzare
polvere ed acqua, in modo da disturbarlo, successivamente e in rapida sequenza evocai
anche le carte della lotta e della velocità: ancora prima che potesse
rendersene conto lo colpii con un pugno poco sotto il collo mandandolo a terra
dolorante.
Lo ammetto, non era una cosa che avevo fatto spesso, direi
che fu proprio la prima, avevo delle promesse da mantenere ed un padre in
pensiero che non desiderava vedere la sua figlia innocente dietro delle fredde
sbarre. Poteva avere tutte le ragioni del mondo per combattere ma avrei vinto
io, era il momento di crescere.
In che senso crescere? Fino a quell’avventura non avevo mai
buttato lo sguardo oltre Tomoeda, l’unica viaggio fatto era stato ad Hong Kong
e non avevo più sentito il bisogno di viaggiare, nemmeno di sapere cosa succede
oltre i confini del Kantō, nel
mondo, era un menefreghismo che non mi era mai pesato ma più camminavo in
Europa e più capivo quanto fossi stata stupida a nascondere le carte dove le
avevo trovate; non sapevo fino a che punto potesse essere schifoso il mondo,
non avevo mai pensato che avrei potuto usare le carte come un dono, un dono per
migliorare il pianeta e salvare delle vite.
La mano mi pulsava, non avevo mai colpito nessuno in vita mia
e soprattutto, nei film non fanno mai vedere che si fa male anche chi il pugno
lo dà, non solo chi lo riceve, ed a proposito di chi lo riceve, il mio
avversario si trovava ai miei piedi che tossiva e cercava di riprendere a
respirare; non era mia intenzione colpirlo così vicino al collo, volevo
colpirlo al volto ma per la velocità non ero riuscita a centrare il bersaglio.
Avrei potuto eliminarlo subito e porre fine al torneo,
vincere, mantenere le promesse.
Invece NO! Come una stupida mi inginocchiai per accertarmi
delle sue condizioni, mi sentivo in colpa per il fatto che non stesse riuscendo
a respirare. Ripensandoci ho fatto bene e non ucciderlo, penso non ne sarei mai
stata capace.
“Stammi lontana.”
Ricevetti un calcio, per il mio avversario era già abbastanza
umiliante essere stato atterrato in quel modo, figuriamoci ricevere le mie
cure. Si rialzò barcollante e con le lacrime agli occhi; non potei che
allontanarmi dato che il suo sguardo non era dei più rassicuranti, presi di
nuovo il volo e sperai di poter essere al sicuro a mezz’aria.
Fu allora che capii di cosa fosse davvero capace,
d’improvviso cominciò a grandinare, pezzi di ghiaccio grandi come ghiaia, non
avevo niente con cui ripararmi e non sto a dirvi quanto facessero male,
scendere significava mettermi in trappola. Non sapevo che carta usare:
ghiaccio, tempesta, scudo? Le presi in mano tutte e tre decisa ad utilizzarle
una dopo l’altra ma un dolore lancinante al braccio mi fece aprire la mano per
istinto e le vidi svolazzare verso terra. Avevo una fiamma sul braccio, la
spensi d’istinto con l’altra mano ma non era che l’inizio ed ancora lo sogno:
migliaia di chicchi di grandine infuocati precipitavano verso di me attirati
dalla gravità. Il fiato in gola mancò di colpo, l’adrenalina aumentò di
velocità e con un colpo di reni puntai lo scettro verso terra per scendere in
picchiata e cercare riparo.
Irina aveva ragione: era incredibilmente forte, forse non
avrei dovuto affrontarlo senza essermi prima preparata. L’acqua rimasta dal mio
attacco precedente prese fuoco - cominciavo ad odiare la semplicità con la
quale aggirava le leggi della fisica, sicuramente Newton si stava agitando
nella tomba – e di conseguenza non potevo atterrare: esitai e fu la scelta
peggiore che potessi fare perché Pierfrancesco ricambiò il mio pugno colpendomi
con uno schiaffo. Sentii il naso dolermi, come quando Rika Suzuki lo ruppe il
primo giorno di scuola, e il sangue colare sulla bocca e il collo. La grandine
in fiamme cadeva attorno a noi formando una prigione di fuoco dal quale non
vedevo via d’uscita, caddi dallo scettro e le fiamme sgombrarono l’asfalto,
sembrava proprio che volesse finirmi lentamente.
“Spada!” Fu la prima carta del mazzo e dopo aver recuperato
lo scettro lo trasformai e mi preparai a difendermi; barcollavo e bastò uno
spostamento d’aria a farmi cadere e perdere la mia arma. Ero finita, ne fui
sicurissima e chiusi gli occhi in attesa del colpo finale, per le regole del
torneo avevo ancora le forze per continuare e quindi l’incontro non terminò,
non provai a difendermi perché sapevo di non avere speranza di vittoria.
“Non osare arrenderti!” Le parole del mio avversario arano
molto minacciose ma cominciavo a prendere in considerazione quella possibilità,
anche se inutile: in caso mi fossi arresa, per la rabbia mi avrebbe finito lo
stesso.
“Come osi?!” A quelle parole alzai lo sguardo e vidi una
figura scura attraversare le fiamme con un gran balzo e raccogliere la spada,
si mise tra me e Pierfrancesco e gli puntò contro la spada in segno di sfida.
Solo quando Kerochan mi raccolse e allontanò dalle fiamme capii che si trattava
di Li. Udii il rumore di lame che lottano ma ero impossibilitata dal vedere ciò
che accadeva; venni portata in un vicolo vicino e Irina ci venne incontro con
il viso preoccupato: “Sei una stupida! Ti avevo detto avvisato.” Mi porse una
bottiglietta d’acqua e la mandai giù in appena due sorsi mentre Kerochan
tornava nella sua forma pupazzetto.
“Non è la vostra battaglia!” Figurai davvero fica mentre lo
dicevo, lentamente il cuore rallentò il battito, ero davvero esausta.
Un’esplosione squarciò l’aria e temetti per l’incolumità di Li, mi affacciai
nel vicolo e con mia sorpresa notai che le fiamme erano scomparse, c’era solo
cenere e i due combattenti uno di fronte all’altro, l’esplosione era stata tale
che in tutta la città gli allarmi delle auto cominciarono a suonare e si
udirono parecchi vetri andare in frantumi, speravo che nessuno rimanesse
ferito; a quel punto pensai a Tomoyo e Papà, il fragore li aveva ridestati di
sicuro e la mia amica, videocamera sotto braccio, stava correndo verso di noi,
figurarsi se si fosse fatta scappare uno scontro del genere.
Irina infilò delle garze su per le mie narici nel tentativo
di fermare il sangue, il dolore fu terribile ma la lasciai fare dato che potevo
recuperare un po’ di fiato.
“Li non resisterà a lungo!” Kerochan sembrava molto
preoccupato, lo presi per un orecchio e sparsi le carte in terra, avevo bisogno
che mi consigliasse. “Sbaglio o hai perso delle carte?”
“Mi sono cadute poco fa, renditi utile e consigliami cosa
usare.”
“Sei una incosciente…comunque se evochi nebbia, illusione e
fulmine potresti riuscire a prenderlo di sorpresa ma dubito che basterebbe.”
“A cosa serve questa?” Irina mise il dito sulla carta della
fantasia.
“Posso far apparire ciò che voglio!”
“Pierfrancesco è estremamente aracnofobico, alla vista di un
ragno diventa talmente nervoso che va in tachicardia: fai apparire una serie di
ragni giganti, per lo spavento abbasserà la guardia e potrai colpirlo.”
“Perché non lo hai detto prima?”
“Perché non pensavo che tu potessi far apparire dei ragni, mi
chiamo Irina non Nostradamus.”
Era un suggerimento prezioso come i diamanti ma il problema
sarebbe stato applicarlo: lo scettro lo stava usando Li e recuperarlo significava
mettermi tra i due. Raccolsi le carte e dopo averle rimesse in tasca mi
avvicinai allo scontro. Decine e decine di altre persone uscirono dalle proprie
case, alcune scappavano, altre si avvicinavano per godersi lo spettacolo. Come
aveva detto il mio avversario prima dello scontro, in quella città le persone
dotate di capacità magiche era più di quelle che mi aspettassi, tanto che una o
due volte dovetti farmi largo.
“Li, dammi lo scettro.”
“Ti sei già riposata? Non ci credo!”
“Smettila di fare l’idiota e dammi quello scettro, lo devo
sconfiggere io!”
“Ascolta la tua amica!” Pierfrancesco mosse le mani e
un’incredibile folata di vento scaraventò Li a terra facendogli perdere la
spada. Era il momento: scattai dolorante come non mai e grazie ad alcune
reminiscenze di Softball delle scuole medie scivolai come se dovessi fare punto
ed evitare il guanto avversario, raccolsi lo scettro e ringraziai la carta
della spada, evocai la Fantasia che fece apparire migliaia di tarantole intente
a circondare il mio avversario.
Irina aveva ragione: Pierfrancesco urlò come un bambino e
lanciò dalle mani fiammate isteriche in ogni direzione nel tentativo di
uccidere e scacciare i ragni. Ovviamente più ne bruciava e più ne creavo,
infine ne feci comparire tre giganti, tra i più schifosi che avessi mai visto
su Discovery Channel.
Era il momento: lasciai che, come suggerito da Kerochan, la
carta del fulmine lo colpisse più e più volte. Stanco e spaventato svenne
rovinando a terra, era finita.
Anche io crollai, Li e Kerochan si precipitarono per
assicurarsi delle mie condizioni mentre tutt’intorno la gente applaudiva e
gridava complimenti. Notai Irina che prendeva tra le mani il volto di
Pierfrancesco e si sedeva accanto a lui, gli accarezzò più e più volte le
guance sussurrando qualcosa che non riuscimmo a percepire, sorrise e fu
l’ultima volta che la vidi in quell’avventura.
“Sei stata grande, Sakura” Kerochan si trasformò nella forma
completa e Li, non senza arrossire, mi prese tra le sue braccia per portarmi
sulla groppa del guardiano; ero felice ma incredibilmente stanca, nascosi il
viso sul suo petto e presi sonno all’istante.
Quando le carezze di papà mi ridestarono dal sonno, per la
seconda volta mi ritrovai in un’ambulanza. Mi parlò dolcemente, con la voce
rotta dalle lacrime, e spiegò che eravamo diretti di nuovo al pronto soccorso,
sorrisi nel vederlo e restai sveglia per tutto il tempo che passai tra le mani
dei medici. Controllarono il naso, curarono le bruciature e le ferite, fu una
operazione lunga e dolorosa ma finalmente, per modo di dire, mi condussero in
una stanza della degenza donne, infine venni ammanettata al letto da due
Carabinieri.
La presi con filosofia: potevo finalmente dormire in pace ed
è proprio quello che feci, ameno fino all’alba quando il braccio cominciò a
dolere come se lo stessero amputando. Urlai e i due carabinieri entrarono nella
stanza ma non poterono fare altro che suonare il campanello per chiamare i
medici. Mi portarono in sala di medicazione e con mia sorpresa notai di avere
l’intero braccio nero, come se lo avessi immerso nella vernice, le mani dei
medici mi toccarono ovunque e dalle loro facce sembravano non sapere che mi
stesse succedendo, almeno non ero la sola; mi tolsero la maglietta e restai in
reggiseno, il nero stava avanzando sulla pelle come una chiazza di petrolio,
sotto i miei occhi il nero inglobò tutto il braccio con il segno del Torneo
Haab, successivamente toccò al seno e avanzò verso la pancia e il collo, più
avanzava e più faceva male, sembrava che mi scuoiassero con miglia di aghi. I
medici iniettarono un antidolorifico ma non fece effetto e finalmente i carabinieri
mi tolsero le manette, cominciai a dimenarmi finché non fui completamente nera.
Il dolore sparì di colpo e con la coda dell’occhio vidi fuori
da una finestra parzialmente chiusa che il sole stava sorgendo proprio in
quegli istanti; il mio cuore rallentò e i polmoni ricominciarono a respirare in
modo meno affannato, il sudore sparì e mi rizzai in piedi. Il nero cominciò ad
essere assorbito dalla mia pelle lasciando disegni della cultura Maya, non li
avevo mai visti ma ne comprendevo il significato, capivo perfettamente anche le
parole dei medici e dei carabinieri.
Iniziai ad udire tutto vicinissimo: le gocce nel lavandino
della sala di medicazione e il rumore dell’acqua nel resto delle tubature dello
stabile, il respiro dei pazienti dormenti dell’ospedale, i medici negli altri
reparti, il motore delle auto che passavano sulla strada e la loro autoradio,
il rumore della corrente elettrica che attraversa i cavi dei pali della luce,
le serrande dei primi bar che aprono la mattina presto, le persone della città
che si svegliano sbadigliando, i bambini che piangono durante la notte, il
russare di chi ancora dorme e i gemiti di chi fa l’amore la mattina presto, i
primi caffè nella moka e i primi cinguettii, le onde che si infrangevano sulla
spiaggia e il motore delle barche che tornano dalla pesca. Tutto era così vicino,
come se fosse nella stessa stanza; i medici e i carabinieri si muovevano lentamente,
quasi immobili, uscii nel corridoio, giù per le scale e all’aperto. Non avevo
ne freddo ne caldo, ero a piedi nudi e percepivo addirittura il calore che
proveniva dal centro della Terra; la luna e il sole, avevo la percezione di
poterli toccare solo allungando le braccia, niente più dolore, tutto ciò che
era intorno a me sembrava così normale e familiare come se fossi stata io a
creare ogni singolo atomo ed avevo voglia di farli miei, di percepire ancora di
più tutto ciò che era intorno a me: tolsi i vestiti e restai nuda, erano un
ostacolo per le mie percezione e fu quasi spaventoso sentire il vento sulla mia
pelle, trasportava da lontano miliardi di odori, sensazioni, granelli di
polvere ed ognuno di loro aveva toccato un qualcosa che si materializzava all’istante
nella mia testa.
Ero diventata ciò che mi aveva detto ‘Adel: ero un Dio.
Aprii le braccia ed andai nella stanza frigorifera
dell’obitorio, a Napoli. ‘Adel era li che mi attendeva ma non potevo ridargli
la vita. Perché? Conosco il perché ma non posso rivelarlo.
Lo scoprii da un involucro di plastica e lo abbracciai
nonostante fosse freddo come la neve. Non riuscii a piangere ma ne ebbi
un’incredibile compassione, come fossi sua madre, la mogie, la sorella, il
padre, una percezione della tristezza talmente forte da non riuscire ad entrare
nel mio cuore, come se fosse troppo grande rispetto all’entrata. Anche lui era
nudo e avevano eseguito sui suoi resti un’autopsia, se ne vedevano i segni.
Lo sollevai come fosse di gommapiuma e riapparvi in un
lussuosissimo soggiorno nel quale mi attendeva una donna anziana con il capo
coperto da un velo rosa finissimo, quasi invisibile. Al mio arrivo si inchinò e
ricambiai con un leggero movimento del capo; sembrava che mi attendesse da
molte ore e l’intera stanza era abbellito da bellissimi fiori e doni culinari
dal profumo afrodisiaco. Lasciai ‘Adel su di un divano della stanza e gli
baciai la fronte, quella della prima persona che mi aveva trasmesso pulsione
sessuale, voglia di accogliere qualcuno dentro di me e di non lasciarlo più
andare via, lui mi aveva trattato così bene, da principessa.
Sapevo che la donna era la madre e si rialzò porgendomi un
libro con la copertina di pelle verde e scritte arabe dorate riportante la
scritta Corano, mi bastò toccarlo per vedere la storia di quel libro
molto antico, storico cimelio di famiglia e oggetto inestimabile. Accettai il
gesto ma non potevo portare quel dono con me, mi congedai dopo aver dato
un’ultima carezza al viso del figlio.
Era arrivato il momento di andare in un altro posto importante
e riapparvi a Pompei per far tornare normale l’anfiteatro che aveva distrutto
Irina, fu facile perché bastò pensarlo e le pietre tornarono una ad una al loro
posto ; fu la volta poi di andare a Pripyat e apparvi sul punto più alto della
ex centrale elettro-nucleare. Mi bastò toccarla per vederne tutta la storia, la
sofferenza causata e quella futura. Rimuovendo la radioattività tutta in una
volta sarebbe parso strano ai governi e poco costruttivo, aprii le braccia e
pensai che da quel momento in poi la radioattività si sarebbe esaurita molto
più velocemente, in modo che Irina sarebbe potuta tornare con il figlio in
città.
Lasciai la scheletrica città Ucraina per apparire sulla Bab el Khadra, la Porta Verde, ingresso
della città vecchia di Tunisi, in Tunisia. Dovevo esaudire il desiderio di
‘Adel e sciogliere la promessa che ci eravamo fatti, sentivo che sarebbe dovuto
iniziare tutto in quel paese, aprii di nuovo le braccia e il suo desiderio fu
esaudito. Sorrisi e finalmente alcune lacrime sgorgarono dai miei occhi, mi
sentivo appagata e felice. Chiusi gli occhi e quando li riaprii ero di nuovo ad
Agropoli per rimettere in sesto la parte di castello crollato durante lo
scontro con Pierfrancesco e risolvere il problema che mi aveva trascinato fino
in Italia.
La missione era
compiuta. Mi ci volle davvero poco tempo per portare a termine quei compiti
perciò decisi di riapparire davanti Li. Potete immaginare la sua sorpresa nel
vedermi nuda, voltò lo sguardo e notai che aveva il viso rosso come il sangue,
mi avvicinai e poggiai la mano sul suo petto. Tastai i suoi sentimenti, era
come se fossero solidi e li tenessi in mano: vidi l’amore che aveva provato per
quella sua compagna di classe a Hong Kong e ne vidi anche la gioia dei momenti
che ci passò insieme. Capii che non sarei mai riuscita a donargli quegli
istanti a causa della nostra lontananza, non potevo riempirlo di baci come
faceva lei, fargli il solletico, rubargli le patatine al cinema o correre
insieme sul prato, mi sentii il colpa ad aver provato odio nei suoi confronti;
mossi le dita fra i sentimenti, trovai tristezza e vergogna vicino ai miei
ricordi, si sentì incredibilmente in colpa e triste per la distanza che ci
separava e per essersi abbandonato ad una ragazza che non fossi io. C’erano
anche confetti recenti - si, i sentimenti di una persona hanno le sembianze di
confetti colorati – erano rosa e portavano il mio nome, luminosissimi avevano
il sapore della gioia di stare anche solo di fianco a chi si vuole bene e di guardare
quella persona sorridere, uno però era quello della delusione, piccolo e scuro
rappresentava tutto il dolore che gli avevo procurato con la mia testardaggine
e stupidità, li accanto però, ce n’era uno rosso intenso, piccolissimo, e
profumava di miele, era l’odore dell’amore, di chi ama, lo presi e lo divisi
delicatamente in due per mangiarne una parte, era davvero buono, forse la cosa
più buona che avessi mai assaggiato.
Rimisi il resto
dei sentimenti a posto e indietreggiai di alcuni passi; la faccia disorientata
di Li l’ho sempre trovata davvero esilarante.
Avevo portato a
termine il mio scopo in Italia e allargai un’ultima volta le braccia per far
scorrere veloce quel giorno e al calare del sole tornai nella mia stanza
d’ospedale come se nulla fosse mai accaduto.
Riaprii gli occhi
che il sole era già sparito, in compenso c’era mio padre: “Piccola, come stai?”
Furono parole dolci e cariche di preoccupazione, non potei che rispondere lasciandomi
abbracciare.
Fui dimessa due
giorni dopo: gli accertamenti durarono più del previsto perché in seguito a
quella esperienza da dea i valori delle analisi schizzarono alle stelle
allarmando i medici; quando fui stabile venne a prendermi un furgoncino della
polizia penitenziaria e mi trasferirono a Salerno, insieme a me c’erano in
quanto minorenne uno psicologo, un interprete ed un medico. Potete intuire il
mio nervosismo, e vi sbagliate: ero incredibilmente calma, tanto che mi
addormentai beatamente durante il viaggio fino al retro del tribunale. Ancora
intontita scesi dal mezzo e accompagnata dentro fino ad una sala con un grande
tavolo di legno finemente levigato e varie persone sedute tutt’attorno. Presi
posto accanto allo psicologo e la interprete ed attendemmo l’arrivo del
giudice. Nel frattempo fece il suo ingresso papà, lasciarono che prendesse
posto vicino a me, il tutto sotto l’occhio vigile delle guardie dalla divisa
celeste.
Finalmente si
aprirono le porte ed entro un carrello con televisore e lettore DVD seguito dal
giudice. L’addetto che aveva trasportato l’apparecchio inserì un disco e fece
partire il filmato. Apparimmo io e Li nello stesso ambiente del filmato che ci
mostrarono a Tomoeda, solo che questa volta eravamo ripresi da una diversa
angolazione e ci mostrava intenti nell’evitare che il signor Suzuki cadesse
oltre il muretto.
Papà sospirò per
la lieta sorpresa.
Visionammo il
video più e più volte e ribadimmo altrettante volte che non mi ero mai spostata
dal Giappone nel periodo in cui sarebbe accaduto il fatto.
Dopo averci
ragionato su il Giudice si alzò in piedi e parlò in Italiano per alcuni minuti ed
in seguito si ritirò così come era entrato. Ci voltammo verso l’interprete
sorridente e ci spiegò che il Giudice aveva deciso di non rinviarmi a giudizio
in quanto il fatto non sussisteva, dovremo però dimostrare, tramite il mio
legale, che non avessi lasciato il Giappone in quel periodo.
Era una vittoria!
Il fatto era avvenuto a Luglio, sarebbe bastato mostrare le presenze
scolastiche del mese per essere definitivamente libera. Mi vennero tolte le
manette e dopo aver stretto la mano all’interprete e allo psicologo, potei
abbracciare mio padre in lacrime.
Napoli, tornammo
nella città partenopea quasi subito, non prima di aver visitato tutti insieme,
io, papà, Li e Tomoyo, Pompei. Fu una giornata bellissima, scattammo centinaia
di foto e registrammo video su video grazie a Tomoyo. La foto più bella fu
quella che ci fece uno dei custodi, ci riprese con il Vesuvio alle spalle,
attualmente è la foto migliore che ho in camera.
Una volta tornati
a Napoli sapevo ciò che sarebbe successo.
Li restò con noi
per altri due giorni; papà volle visitare l’Università l’Orientale e per caso
scoprì in una bacheca, che un suo libro era stato adottato in uno degli
insegnamenti, si informò e dopo aver incontrato il docente dell’insegnamento
venne invitato a partecipare alle lezioni della settimana; per Li non c’era
motivo di restare.
Quella furba di Tomoyo
finse di star male per due giorni e durante le lezioni di papà io e Li
visitammo la città. Fu una furbata incredibile da parte della mia amica ma quei
due giorni, non posso nasconderlo, furono bellissimi. Visitammo i castelli, i
quartieri spagnoli, le ville, i cimiteri monumentali, i negozietti artigiani,
la fontana del Bernini, e tantissimi altri posti, due giornate davvero
incredibili.
Sembrava come se,
con la fine di quella brutta vicenda, ci fossimo alleggeriti, non facevamo che
sorridere e scattare e riprendere grazie alla attrezzatura che ci prestò la
finta malata. Conservo gelosamente il video che mi fece Li mentre passeggiavamo
per la Piazza del Plebiscito.
“Sai, mi sento
come se mi mancasse la metà di qualcosa.” Li aveva detto la cosa più sensata di
tutta quella vicenda. Si era accorto di ciò che avevo fatto con quel confetto
rosso raccolto dal suo petto e sentii le mie guance avvampare. “Facciamo un
ultimo giro prima di tornare per cena?”
Io annuii e lo
seguii lungo le vie, era quasi ora di cena e il sole cominciava a tramontare,
il giorno dopo sarebbe partito in treno per Roma e da li avrebbe preso un aereo
per Hong Kong, aveva già tutti i biglietti sul comodino dell’albergo.
Passeggiammo
finché non sentii il cuore piangere, non mi sono mai chiesta se avessi fatto
bene a dividere quel confetto, Li era stato gentilissimo ad accompagnarmi,
sopportarmi, pagare le spese e salvarmi nell’ultima battaglia. Lo avevo
trattato così male da sentirmi un ladra, desideravo poter provare qualcosa nei
suoi confronti, qualcosa di bello e quel gesto del confetto fece da trampolino
a ciò che avvenne in quelle ultime ore insieme a Napoli.
Mi avvicinai e lo
acchiappai alle spalle stringendolo in un abbraccio quasi soffocante. Poggiai
il viso alla sua schiena e trattenni le lacrime, basta piangere; non sapevo
quando lo avrei rivisto, quando avrei potuto sentire di nuovo la sua mano nella
mia, il suo odore o anche solo parlargli guardandolo negli occhi.
Lui si immobilizzò
quasi all’istante, non si aspettava quel gesto ma era come se ci sperasse con
tutto se stesso. Restammo in quella posizione per alcuni secondi mentre la
gente ci camminava attorno senza badare a noi finché non si divincolò per
voltarsi ed abbracciarmi a sua volta: “Penso che così vada meglio.”
Quella sua frase
vi avvolse come altre due braccia e per far incontrare le mie labbra con le sue
non dovetti fare altro che alzare il viso e chiudere gli occhi.
Era la prima volta
che ci baciavamo in quel modo, la prima volta che assaggiavo le sue labbra in
quel modo, la sua lingue e quel suo abbraccio così stretto. ‘Adel aveva
ragione, lo avevo voluto con me per un motivo specifico, gli volevo troppo bene
per lasciarlo fuori dalla mia vita e sembrava che aver aspettato e ripensato
alla nostra situazione più e più volte avesse zuccherato le nostre labbra.
Ci lasciammo così.
Eh si, questa è la
vita reale, non ci potevamo amare stando così lontani, non a quell’età.
Lo vidi salire sul
treno e non lasciai il suo sguardo finché il vagone non cominciò a muoversi.
Non piansi, non risi, non dissi nulla per quasi due giorni e solo allora
realizzai di non averlo più intorno, di non sentire la sua presenza
rassicurante, invadente e snervante allo stesso tempo. Mi mancò tantissimo ma
non so’ dire se ci amammo in quelle ultime poche ore che passammo abbracciati.
Come sono complicate le cose quando si cresce, forse era meglio se avessi
deciso di far tornare indietro il tempo e vivere una seconda infanzia.
E’ tutto più
facile quando il gesto d’amore più profondo del nostro arsenale è quello di un
bacio sulla guancia.
Epilogo
Alicante. Spagna
mediterranea.
Scendemmo
finalmente dal treno dopo quasi tre ore e mezzo di corsa e Tomoyo fu la prima a
stiracchiarsi. Il sole estivo ci riscaldò per bene ridandoci il sollievo negato
dall’aria condizionata polare del treno, avevamo le ossa doloranti come delle
vecchiette.
Il tassista prese
i nostri bagagli e ci portò per le strade trafficate in un viaggio snervante
fatto di spunti e frenate continue fino ad una piccola piazza davanti ad un
imponente palazzo bianco in stile Liberty. Recuperammo i nostri trolley e dopo
aver pagato attraversammo la strada per goderci a pieno lo spettacolo che
avevamo intuito dall’auto. Un’enorme piazza rosa faceva da palco sul mare di
fronte al bellissimo porticciolo turistico con centinaia di natanti bianchi
ormeggiati, il loro moto era regolare e si muovevano tutti insieme con le onde
creando un effetto quasi ipnotico mentre dalla parte opposte, su di un monte,
il castello della città medievale sembrava godersi lo spettacolo di quelle
barche e delle campanelle che suonavano al vento. In molti fotografano la
costruzione e non potevamo non intuire che la notte sarebbe stato uno
spettacolo mozzafiato.
Dopo aver scattato
anche noi alcune foto, attraversammo nuovamente la strada e percorremmo alcuni
isolati, guidate dal cellulare di Tomoyo, fino ad una vetrina recante una
enorme scritta rossa TATOO.
Entrammo e ci
venne incontro un uomo con braccia e gambe tatuate, come se lo scopo primario
fosse stato quello di nascondere la pelle.
“Buenos dias, me
llamo Sakura y estoy buscando Irina” Il mio Spagnolo aveva un accento terribile
ma l’uomo capì ugualmente e mi sorrise: “Ahora està terminando un trabajo, si
no tienes prissa puedes esperar un ratito. Creo que terminarà en diez minutos.”
“Vale, gracias!”
Ci accomodammo
nella sala d’aspetto all’ingresso dello studio, aver studiato Spagnolo al
secondo anno di Università era servito a qualcosa, peccato che fosse la prima
volta che potevo davvero metterlo in pratica.
Si: universitaria!
Accompagnai Tomoyo
a Madrid durante le vacanze estive del mio terzo anno accademico, erano passati
alcuni anni dalla mia avventura italiana. Al ritorno in Giappone venni informata
di aver perso un anno di scuola e dovetti ricominciare l’anno successivo, nel
frattempo lavoricchiai in un ristorante vicino casa.
I miei incantesimi
da, per così dire, dea avevano dato frutto: la vicenda del signor Suzuki fu
chiusa come incidente, non era giusto ed è vero, ma questo donò un po’ di
sollievo a quella famiglia e strano ma vero, io e Rika andavamo talmente
d’accordo da uscire insieme dopo la scuola; per il desiderio di ‘Adel siamo
tutti a conoscenza della Primavera Araba, in quella parte di mondo si è
lottato parecchio in nome dei diritti e della democrazia, e si continuerà a
farlo per tantissimo tempo, spero che ‘Adel ne sia contento; per quanto
riguarda Pripyat è notizia recente che la radioattività è calata in modo
ragionevole, tanto che il governo permette visite più frequenti alla vecchia
città permettendo l’ingresso anche ai bambini.
“Vedo che ti è
cresciuto il seno, e che seno!” Irina apparve da dietro una tenda posta a
separare il laboratorio dalla sala d’aspetto. Fece il solito incantesimo per
permettere di parlarci.
Ci venne incontro
e mi abbracciò come una mamma fa con la figlia. Aveva il viso carico di gioia e
mi squadrò dalla testa ai piedi: “Sei diventata una donna meravigliosa, e dire
che quando ti ho conosciuto eri ancora una mocciosa!”
“Schietta come
sempre. Non è stato facile trovarti!”
“Mi sono spostata
molto in Europa ma alla fine ho aperto questo studio con mio Marito, piuttosto:
che cosa ci fai qui?”
“Spero che tu
ricordi ancora quegli schizzi che mi hai fatto in ospedale, ad Agropoli.”
“Certo.” Si scostò
i capelli biondi da davanti il viso. “Non dimentico mai un mio disegno: vuoi i
fiori di ciliegio, uno per ogni polso!”
“Esatto.”
Seguii la donna
che un tempo mi aveva quasi ucciso nel laboratorio e mi fece accomodare su di
una poltrona per prepararmi ad essere punzecchiata per bene.
“Ho chiamato mia
figlia, la secondogenita, come te!” Irina disegnò i fiori di ciliegio con un
pennarello rosso sui polsi interni di entrambe le braccia, era incredibile
vederla lavorare.
“Perché?” Non me l’aspettavo.
“Spero che lei
possa avere la tua stessa forza, la bellezza e la voglia di vivere che ho
percepito stando vicino a te. Sei una persona speciale ed hai dimostrato di
essere la persona dotata di poteri più potente oggi in circolazione. Altri si
sarebbero montati la testa ed avrebbero intrapreso la conquista del mondo, o
peggio. E’ un bene che abbia vinto tu.”
“Che fine ha fatto
Pierfrancesco?” In quel momento gli aghi cominciarono a delineare i contorni
del fiore destro, fece un gran male, il tatuaggio nei polsi è tra i più
dolorosi.
“Chi lo sa?! Penso
che sia da qualche parte in Turchia o India, se non a Torino, comunque in
qualche luogo carico di magia. Non l’ho più visto ne sentito. E tu? Il cinesino
che era con te?”
Non seppi che
rispondere e dribblai la domanda. A fine mattinata ebbi in regalo due splendidi
fiori di ciliegio nei polsi. Erano meravigliosi, sembravano così veri e quanto
si sarebbero cicatrizzati i dettagli delle ombreggiature li avrebbero rei
ancora più veritieri; i fiori mi avrebbero ricordato per sempre ciò che era
successo in Italia e il fatto che se si ha qualcosa per cui vale la pena andare
avanti gli sforzi prima o poi, saranno ricompensati.
So’ che volete
sapere di Li.
Siamo rimasti in
contatto, certo, ma non lo rividi fino al primo anno di Università, quando
venne per sbrigare alcune commissioni a Tokio. Questa è un'altra storia, molto
contorta ma che tengo nel cuore, dopo quella vicenda non lo vidi per molto
tempo ma ora è molto vicino.
Crescemmo e
acquisimmo esperienza lontani, in due realtà culturali diverse, e da un punto
di vista adulto fu giusto così. So che lo volete sapere, brutti maliziosi, e ve
lo dirò: non ho perso la verginità con lui e aggiungo anche che l’ultimo anno
di liceo ho avuto due ragazzi, per non parlare di quelli all’Università, una
volta ne tradii uno, fu una vendetta ed un po’ me ne vergogno ancora.
Magari fosse tutto
come nei film, eh?
Alla fine trovò
lavoro a Tokio, mi ha sempre raccontato che un giorno il suo capo entrò in
ufficio e gli chiese come avrebbe reagito se fosse stato trasferito in una
filiale nipponica. Era un lavoro come un altro, dice lui.
Quando ci
incontrammo per caso alla stazione di Shibuya non ci riconoscemmo subito ma ci
voltammo nello stesso istante dopo pochi secondi.
Fine