STORIA PRIMA CLASSIFICATA AL CONTEST
‘La Voce dell’Amore’ di Martuzza97 e
giudicata da EmmaWright98
PREMIO MIGLIO PERSONAGGIO FEMMINILE
Nickname:
_Nalushka_
Titolo:
Sotto la pioggia e dentro il tuo cuore
Raiting:
Verde
Canzone:
Rainbow di Elisa Toffoli
Introduzione alla storia:
Innamorarsi non fa parte dei piani
di Michele. Ma le cose succedono quando meno te lo aspetti e allora non si può
mettere un freno alla proprie emozioni, anche quando ci si sente persi in una
vita priva di significato. Il significato arriverà con Elisa e il mondo
cambierà sotto i suoi stessi occhi, riempiendosi di una dolcezza che riuscirà a
fargli perdonare le proprie debolezze.
Sotto la pioggia e dentro
il tuo cuore
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[ You’re not
an enemy anymore
There’s a ray of light upon your face now
I can look into your eyes
And I never thought
It could be so simple]
Distesi sul letto, in una
mattina qualunque. Il cuscino è caldo sotto la pelle, dolce, e sa di noi.
Alzando appena la testa: nel
chiarore del giorno vedo un raggio di luce dentro i tuoi occhi e so che la
guerra è finita.
Per la gioia, una piccola
lacrima brilla sulla mia guancia. È calda anche lei, si mescola al cotone del
cuscino ma non sento altro che il tuo respiro vicino, e il sole che vince su
entrambi, svegliandoci con i suoi baci tiepidi e dorati. Le tue mani non sono
più fredde e il sorriso nasce spontaneo, timido ma sereno, e non capisco come
possa essere tutto così semplice ora, dopo tutto quello che abbiamo vissuto.
Che hai vissuto.
Mi scosti una ciocca di capelli,
lo so che non li sopporti quando mi invadono il viso, ma il tocco è leggero,
quasi mi sfiori come se fossi di cristallo.
E mi sento un cristallo, sotto
il tuo sguardo, sotto le tue mani, dentro i tuoi abbracci che non finirebbero
mai. Ma questo lo sai già. Come so con precisione disarmante che adesso non
parlerai, no, lascerai che il calore del tuo corpo diventi il mio, che il tuo
respiro tocchi il mio. E su questo letto banale, in mezzo al sole d’inverno, in
una mattina qualunque, io e te saremo noi, senza se o ma. Saremo noi, e basta.
Prima parte
Una ragazza strana. Con capelli strani, lunghi e pazzi,
con ricci così stretti da sembrare eredità di un altro mondo, neri come
carbone.
“Ma sono così belli” , diceva sempre la mamma, passandoci
le dita a mò di pettine. E io, la ragazza strana, alla fine ci ho anche
creduto. Di quel nero assoluto ho fatto un marchio, sulla pelle bianca risalta
ancora di più, e in nero e bianco mi sento, come un’istantanea moderna scattata
distrattamente da una macchina fotografica polverosa e vecchia.
“Ma non sei strana. Se solo ti levassi tutto quel nero
dagli occhi, però…” continuava la mamma, con uno sguardo di disapprovazione per
il rimmel e l’eyeliner che uso senza parsimonia. Ma ero quasi sicura che anche
senza il mio trucco deciso ci sarebbe stato sempre qualcosa in me, qualcosa di
indefinito che mi avrebbe fatta individuare come una strana. Perciò alzavo le
spalle ai suoi commenti che avevano l’unico scopo di non farmi sentire troppo
strana. Non mi interessava più di tanto.
Ero nel mio mondo fatto di bianco e nero, consolante e
deciso. Forse monotono è vero, ma alla fine i colori annoiano. Il bianco e il
nero invece sono così assoluti che esisteranno sempre senza annoiare mai.
Frequentavo corsi di fotografia da anni ormai, e quelli che mi venivano meglio
erano scatti di secondi rubati con la bellezza di altri tempi, bianco e nero,
l’essenza della vita nei suoi due colori più puri. Da dietro l’obiettivo della
macchina fotografica vivevo in sintonia con me stessa.
Fu una mattina di settembre, quella in cui incontrai
Michele. Camminando per il parco in cerca di ispirazioni, mettevo un passo dopo
l’altro senza pensare veramente a qualcosa. Il giorno era ancora caldo, una
bellezza di sole splendeva nel cielo di mezzogiorno ed io ero distratta. Mi
capitava spesso di rimanere intrappolata nel silenzio della mia mente mentre
tenevo la Nikon tra le mani. Se qualcosa attirava la mia attenzione allora era
lui, lo Scatto, e la mano automaticamente si muoveva per immortalarlo. Quando
inciampai in Michele la mia testa era per aria, guardavo il cielo seguendo
l’orma di una nuvola sbarazzina e non mi sarei accorta di lui nemmeno
volendolo. Sentii solo lo scontro dei nostri corpi, l’impatto dei libri di lui
che cadevano a terra. Prima di vedere la sua faccia controllai con ansia che la
Nikon fosse uscita indenne dallo scontro e tirai un sospiro di sollievo
trovandola dondolante ma sana e legata ancora al mio polso dal laccio nero. Poi
mi concentrai sul ragazzo alto e imbranato che mi era venuto addosso. Smilzo e
rigido, con un’imprecazione si sbrigò a raccogliere i libri da terra.
“Potresti stare attenta quando cammini in un parco
pubblico. Così non finisci addosso alla gente” sbottò seccamente, lanciandomi
un’occhiataccia. Mi irritai al suono della sua voce.
“Non c’è bisogno di arrabbiarsi. La prossima volta
scansati te, invece di venirmi addosso” risposi, tirando indietro i capelli che
mi erano finiti quasi tutti sul viso. Percependo l’elettricità del momento,
erano impazziti. Cosa che mi fece ulteriormente irritare.
Lui sbuffò e finì di raccogliere il Manuale di Matematica.
Quando si alzò non mi degnò di un’occhiata e se ne andò senza nemmeno scusarsi.
Rimasi incredula di fronte a tanta scortesia e me ne tornai a casa nervosa e
senza la mia foto.
Una settimana dopo tornai al parco, ma l’estate, che prima
si respirava a pieni polmoni, si era presa qualche giorno di vacanza. Faceva
freddo, tirava un vento bizzarro ma non avevo voglia di stare in casa. Avevo un
po’ di tempo libero prima di andare al corso, che tanto veniva dato in un
istituto poco lontano da lì, quindi afferrai la cartella dei miei lavori e la
Nikon, e misi tutto nella borsa. Mi armai di felpa e ripercorsi buona parte
della camminata naturale che faceva del parco una vera delizia per i passanti.
Ma di passanti, oltre me, nemmeno l’ombra e sospirai di sollievo. Non mi piace
la confusione. Se posso, preferisco godermi in solitudine i momenti di
tranquillità. Su una panchina non lontana vidi l’unico altro esploratore
casuale della camminata e per poco non soffocai. Con lo sguardo perso nel vuoto
e le braccia incrociate, sedeva quel ragazzo maleducato che aveva attentato al
mio equilibrio. Mi stavo per girare e cambiare strada quando pensai alla sua
sfrontatezza, alla durezza dell’occhiata che mi aveva lanciato. Non era giusto.
Non so cosa mi prese, so solo che alla fine mi trovai di fronte al suo sguardo
perplesso, con le mani sui fianchi e l’espressione da dura che non frega mai
nessuno.
“Prima di tutto volevo dirti che sei stato un gran
maleducato. È vero, probabilmente dovevo stare più attenta a dove mettevo i
piedi, ma nessuno ti da il diritto di comportarti come hai fatto. È
maleducazione non chiedere nemmeno scusa, senza contare il tono! In secondo
luogo, il parco è immenso. Con tutto il posto che c’è, perché mi sei finito
addosso? Non sarà per caso che anche te non stavi guardando a dove stavi
andando? Mh?”
In vent’anni non credo di essermi mai trovata in una
situazione simile. Ma già che c’ero sottolineai il mio disappunto con uno
strano movimento della mano che disegnò sulle labbra dell’assalito un sorriso
divertito.
“Vuoi sederti e calmarti?” mi chiese. Io lo guardai
imbarazzata.
“Volevo solo dirti che non mi è piaciuto il tuo
comportamento” borbottai, scostando i capelli, liberi al vento, dal viso.
“Penso di averlo intuito dalla tua predica. Emozionante,
se non altro.”
“Non era una predica.”
“Ah, no? Aveva tutta l’aria di esserlo.”
“Sei stato…”
“…maleducato?” concluse con un altro sorriso. Questa cosa
iniziava a mettermi a disagio. Avevo previsto un altro tipo di reazione, non
certo una risposta quasi amabile.
“Di nuovo, penso di averlo compreso.”
Nonostante tutto la sua voce manteneva un che di pedante,
quasi di canzonatorio.
Poi, come per magia, sentii la sua risata ed ebbi la forza
di distogliere lo sguardo dalle scarpe da tennis nere logore che avevo ai
piedi. Era stata tanto spontanea che mi aveva colto di sorpresa.
“ Scusa. In effetti un po’ sgarbato lo sono stato. Ma non
immaginavo questa reazione. Mi hai pedinato fino a trovare il momento giusto
per colpire la tua preda o è stato il caso a farci ritrovare qui?”
“Ti ho pedinato, ovvio.”
“E hai aspettato una settimana per assalirmi?”
“La vendetta è un piatto che va servito freddo.”
“Ovviamente. Ma ancora non conosco il nome della mia
aguzzina.”
Era carino, nonostante i lineamenti non fossero di quelli
forti e comuni per un ragazzo. Aveva linee delicate, i capelli ricadevano
ordinati intorno al viso in onde soffici e gli occhi erano di uno strano colore
verde-grigio. Avrà avuto la mia età, se non qualche anno in più e l’espressione
era tranquilla, ma lo sguardo era fin troppo sveglio. Era riuscito a trasformare
una situazione spiacevole in una conversazione quasi amichevole. Per quanto
potesse risultare forzato, era stato abile.
Divertita da questo cambiamento di toni, risposi con un
mezzo sorriso.
“Non posso rivelarlo, altrimenti potrei essere
perseguibile per stalking.”
Altra risata, che mi fece quasi arrossire.
Mi porse la mano e io la strinsi automaticamente. Era
fredda, liscia ma fredda, e repressi un brivido.
“Michele.”
“Elisa.”
“È il tuo vero nome?” chiese divertito.
“Forse. Non lo saprai mai” dichiarai, sorprendendomi per
le risposte che stavo dando. Tanta confidenza non era da me, non ero proprio il
tipo. Eppure stavo rispondendo con una disinvoltura che un po’ mi spaventava.
Con un gesto elegante rimise le braccia nella posizione
iniziale, nascondendo i polsi fasciati di spugna bianca.
“Giochi a tennis?” chiesi, senza sapermi frenare. Lui mi
guardò perplesso.
“I polsini” aggiunsi, a mò di spiegazione.
Michele si irrigidì un attimo, e temetti di aver fatto una
gaffe enorme. Poi riassunse il solito aspetto rilassato, anche se negli occhi
qualcosa era cambiato.
“Sono stata inopportuna” dissi, arrossendo leggermente.
“Certo. Sei una stalker. Dovrebbero condannarti, sai?”
Aveva ripreso il tono di prima, quindi mi ero calmata un
po’.
“Mpf. Certo.”
Controllai l’orologio, se non mi fossi sbrigata avrei
fatto tardi alla lezione.
“Devo andare. Mi ha fatto piacere aver chiarito la
situazione.”
“Se è servito a tranquillizzarti, ben venga.”
C’era simpatia nel suo sguardo, leggera come una sfumatura
colorata quasi impercettibile. Un tocco di giallo, forse? Con i colori ero una
frana, avrei dovuto ripassarmi l’ultima lezione su come, ad ogni emozione e
sensazione, venivano affiancate determinate sfumature. Ma da quel ragazzo non
provenivano forti onde emozionali. Sembrava immerso in un grigio indefinito.
“Beh, grazie. Sei stato gentile.”
“Meno male. L’idea di essere nuovamente traumatizzato da
una che si fionda a darmi del maleducato non mi entusiasmava poi tanto.”
“Meglio, anche perché penso non capiterà mai più. A parte
tutto, non è stato terribile conoscerti.”
“Grazie.” Trattenne un altro sorriso.
“Ciao.”
Feci qualche passo, domandandomi cosa mi fosse successo.
Poi sentii la sua voce.
“Elisa?”
Pronunciato da lui il mio nome aveva un ché di incerto.
Mi girai verso la panchina.
Michele si era alzato e non sorrideva più.
“Scusami, davvero. A volte so di essere poco cortese.
Comunque, vengo spesso qui. Forse potremo rivederci.”
Era elegante, nessuno avrebbe saputo ribadire a questo.
Per quanto fosse alto e smilzo e vestisse dei banali jeans scoloriti e una
felpa azzurra, aveva un certo portamento. Con le mani nelle tasche e lo sguardo
serio sembrava quasi più vecchio dell’età che dimostrava all’inizio.
“Okay. Ci vediamo.”
[ You can hear the music with no sounds
You can heal my heart without me knowing
I can cry in front of you
‘cause you’re not afraid to face my weakness]
Come fai a guardarmi sempre così? Come se fossi una
persona migliore di ciò che sono. Eppure nei tuoi occhi vedo solo una dolcezza
che mi disarma. Le cicatrici spariscono sotto il tuo sguardo, e mi sento
migliore di ciò che sono. Forse è niente, forse è tutto, e questa sensazione
che mi scalda potrà essere la svolta che mi farà amare la vita. Non ci sono
parole che possano esprimere quello che sento, non posso spezzare l'incantesimo
che ci sta vincendo. Sdraiati sul tuo letto, mi sembra che niente sia stato
tanto bello nella mia intera esistenza. Hai il rimmel che si è fatto strada sul
tuo viso bianco, sembri un piccolo panda spaesato, con le guance rosse e i
capelli neri come una bandiera di pirati che sventola sul candido lucore delle
lenzuola. Detesto quando ti coprono gli occhi, perché è come se interrompessero
la strada che mi porta verso te. Ma questo lo sai già. Senti i miei pensieri
muti come se fossero nella tua testa e questo mi spaventava un po', prima. Ora
invece la trovo una cosa divertente. Divertente. Non ho mai provato niente di
simile. Sorridi? E' bello quando sorridi, ti vengono le fossette ai lati della
bocca rosa come quelle dei bambini. C'è così tanto di puro in te, che ho quasi
paura di insozzarti con la mia presenza. Non merito la tua compagnia. Come fai
ad essere così bianca? Sfioro con la mano la tua fronte calda e anche le mie
mani sono calde, ma a mala pena me ne accorgo. Sei bianca come lo zucchero
filato, di un bianco dolce e delicato. Capelli neri e pelle bianca, un
contrasto che ti ha sempre resa bellissima. Poi ci sono questi improvvisi
sprazzi di colore di cui non ti rendi conto, quando le guance si pizzicano di
rosso e le labbra risaltano di un rosa porcellana. Gli occhi scuri si
confondono con tutto quel trucco pesante che ti metti addosso, ma nel tuo
essere bianco e nero c'è qualcos'altro e io l'adoro, credo. Non ho mai adorato
niente, è una delle altre sensazioni nuove che hai portato con te nella mia
vita. Sei spiazzante. E profumi di primavera, mentre assaporo il collo che esce
dalle coperte. Le piccole cicatrici prudono un po', crepitano cercando di
richiamare l'attenzione che non hanno più da parte mia. Adesso ho altro a cui
pensare.
Seconda parte
Fa male capire che non c'è niente di interessante attorno
a te. Vedere come l'esistenza si srotola di fronte in un tappeto grigio e
immobile. Non c'è niente che provochi in me una reazione. Stupore? Nah, niente.
Non esiste. O meglio, non esisteva. Mi sono stupito per la prima volta quando
mi sono trovato di fronte un tornado bianco e nero e rosso di imbarazzo che mi
chiedeva spiegazioni. Al parco, come tutti i giorni, rovistavo tra le macerie
che mi trovavo dentro stringendo le mani a pugno sotto le ascelle per impedirmi
di grattare le ferite nuove che si erano aggiunte alle piccole cicatrici
bianche, frutto di anni di disperazione.
Era un'emozione anche la disperazione? Allora non tutto
era perduto, mi dicevo, quando guardavo con disgusto quelle linee perlacee e
rosse.
Poi era arrivata lei, a stupirmi. Lei che con i capelli
assurdi impazziti al vento e la tracolla nera, vestita di nero da capo a piedi,
mi faceva capire quanto ero stato maleducato. Lei, minuta e con le guance rosse
per l'assurdità della situazione, muoveva avanti e indietro le mani con gesti
strani e buffi. Ero stato sgarbato, ma non ci avevo riflettuto molto. Ero
sgarbato per il novanta per cento della mia vita, ma nessuno aveva mai provato
a farmelo notare con tanta enfasi. Mi era venuto spontaneo sorriderle, sembrava
un cartone animato in bianco e nero, con le guance e le labbra rosse come unico
colore concesso al suo stato d'animo alterato. A dire il vero mi erano venute
spontanee tante cose, oltre al sorriderle. Ad esempio, non mi ero mai
soffermato con lo sguardo sui capelli di una persona, sulla sua postura, sul
suo modo di parlare. Niente era interessante, figuriamoci le persone. Elisa,
questo è il suo nome, era diversa. Gli occhi mi scivolavano addosso come a
inquadrarmi e comprendermi, a caccia di particolari. Era andata così vicina a
rovinare tutto con le sue osservazioni spontanee e maldestre, ma, mentre la mia
testa mi ordinava di lasciarla stare, qualcosa nel petto si muoveva in cerca di
un respiro nuovo. Invece di marcire nell'aria squallida che inglobavo ogni
giorno in più che mi costringevo ad alzarmi dal letto, avevo sentito la necessità
impellente di non separarmi dalla sua stranezza vivace. E non ero riuscito
ad allontanarla senza gettarle un'ancora. Avevo bisogno di salvezza? Dentro di
me ne ero quasi certo, ma non sono mai stato bravo a capire certe cose. Per
quanto mi fosse facile leggere equazioni come italiano fluido e scorrevole, il
mondo che avevo dentro mi era per lo più sconosciuto. L'unica cosa di cui ero
sicuro era l'inquietudine che non mi lasciava mai, come un cane rabbioso che
fiatava sul collo: non sentivo altro che la sensazione stringente di essere
perso in un luogo senza via di uscita.
[ I was looking for a place to stay
Are you looking for a place to stay?]
Rividi Elisa qualche giorno più tardi. Seduto sulla solita
panchina, mi chiedevo con ansia se avessi sbagliato i calcoli. Sarebbe stata la
prima volta. Ma Elisa non si era fatta vedere da nessuna parte e, forse, avevo
frainteso tutto. Poi, quel pomeriggio, intercettai la piccola statura della
ragazza, una figura in nero con i fitti ricci afro che cercavano in tutti i
modi di eludere la legge di gravità. In quel momento nascosi bene i polsi sotto
le maniche del giubbotto e continuai a seguirla con gli occhi, mentre teneva in
mano una macchina fotografica e scattava furiosamente appena trovava qualcosa
che reputava interessante. Fece scivolare l'obiettivo davanti a sé e alla fine
mi vide. Il sorriso che seguì mi immobilizzò il cuore.
Era una sensazione diversa dalle solite che mi obbligavo a
provare. Fresca e calda contemporaneamente, del tutto spontanea; pareva
che niente fosse più colorato di lei, più vistoso di lei, mentre mi veniva
incontro.
“Ciao” disse, e contai due fossette ai lati della bocca
che facevano capolino come due monelle.
Risposi con un cenno del capo, troppo preso da ciò che mi
stava accadendo per parlare.
“Non mi inviti a sedere?” chiese, indicando la panchina.
Scrollai le spalle e si mise a sedere sull’altro bordo della panchina fredda.
Quando la visuale mi fu occlusa dalla massa di capelli neri iniziai a
ridacchiare. Alzò il viso appuntito verso il mio e arrossì.
“Sono un po’ eccentrici, lo so, ma a me piacciono così.”
Allungò distrattamente un ricciolo.
“Non c’è niente di male, ma non riuscivo a vederti con
tutti questi capelli.”
Gli occhi neri erano incorniciati da pesanti linee scure,
come le sue iridi. Sembravano grandi e profondi come pozzi di tenebra, ma in
tutta la luce che aveva il suo viso, sembrava una tenebra amica e non qualcosa
di cui aver paura. Un salto nel vuoto, pericoloso forse, ma eccitante.
“Ciao” sussurrai, affascinato.
Si armò della Nikon che teneva ancora tra le mani e mi
guardò attraverso l’obiettivo. Mi aspettavo un flash e il click dello
scatto, ma si limitò a squadrarmi da dietro la macchina fotografica.
“Che fai?” chiesi, incuriosito.
“Ti studio.”
“Non voglio essere studiato” replicai a disagio. Mi mossi
un po’ sul posto, ma non sembrava aver recepito il messaggio.
“Non importa. Ho bisogno di conoscerti, e per farlo questo
è il modo migliore.”
“Studiarmi come...cosa?”
“Come uno dei miei soggetti. Faccio la fotografa. Cioè,
no, non ancora. Sto studiando per diventare una buona fotografa. E uno dei miei
compiti è studiare i soggetti da immortalare.”
Parlava con tranquillità, non c’era imbarazzo da dietro la
Nikon. Solo curiosità analitica, all’insegna della scoperta di particolari
interessanti. Mi sfiorai la punta del naso.
“Perché sono diventato uno dei tuoi soggetti?”
Tolse la Nikon di fronte agli occhi e mi rispose con una
serietà che mi lasciò di sasso.
“Perché sei strano.”
“Posso assicurarti che in questo momento, tra i due, la
più strana sei tu.”
“Siamo strani entrambi.”
“Vorrei replicare, se mi è concesso.”
“Non ti è concesso: sei strano. Non c’è da vergognarsi di
questo.”
“E perché sarei strano, scusa?”
Si mordicchiò il labbro rosa.
“Perché sei il primo ragazzo che incontro che non ha
colore. È come se lo stessi nascondendo da qualche parte.”
Rimasi paralizzato. In qualche modo mi sentii violato
nella mia sicurezza, nella mia corazza. Come poteva dire una cosa del genere?
“Non mi conosci. Cosa ne puoi sapere?” Avevo la mascella
serrata: non era così che immaginavo potessero mettersi le cose. Non avevo
bisogno di qualcuno che cercasse di capirmi.
“Nulla. Per questo ti sto studiando” disse, e i suoi occhi
rimasero nei miei abbastanza per far salire il disagio che già provavo.
“Non mi sembra il caso.”
“Io dico di sì invece.”
“Se lo dici te.”
Rise del modo in cui mi uscì la frase dalle labbra, come
un sbuffo esasperato.
“Di solito non mi sbaglio. Quando guardo qualcosa è
normale per me assimilarne i lati essenziali, come catturare la sua anima. E
vedo che tu sei diverso.”
Non sai quanto, pensai. Ma non credo che
sarebbe stata pronta per sentirmi dire fino a quanto aveva visto giusto.
Risi forzatamente.
“E come avresti fatto a capirlo? È solo la terza volta che
ci vediamo.”
“Sensazioni. Poi i tuoi occhi. Per quanto mi riguarda è
vero che sono lo specchio dell’anima, come dicono in molti.”
Si alzò con uno scatto leggero e mi si fece di fronte.
Sentii il cuore cedere un battito e il respiro fermo in gola.
“Tremi dentro e fuori sei immobile. Troppo
immobile, non so se mi spiego. La tranquillità è solo apparenza, una forzatura.
Non so chi tu sia, è vero. Di te conosco il nome e so che studi all’università,
probabilmente Matematica, sicuramente materie scientifiche. Ma guardandoti in
faccia si capisce molto di più. So che ho ragione, non serve smentirmi”,
aggiunse con un sorriso strano mentre mi preparavo a contraddirla. Adesso,
oltre che dentro, tremavo anche fuori. Mi maledissi e maledissi lei, che con
tanta disinvoltura mi spogliava di tutto.
“Credo di aver fatto abbastanza danni per oggi. Io vado,
ci...vediamo.”
Non riuscivo a staccare gli occhi dalla sua figura, anche
quando fu lontana continuai a seguirla finché non mi rimase da guardare altro
che il vuoto. Ero abituato ad avere le mani fredde, ma non mi sono mai sentito
così gelido. Iniziò a farmi male la vista e distesi le palpebre sul bruciore
insistente.
Poi venne la frustrazione.
Mi alzai sentendo le spalle che premevano in giù, come se
un peso si fosse messo a gravare su di esse, e ogni passo verso casa si faceva
sempre più faticoso. Arrivai al portone dell’appartamento che condividevo con
altri studenti della mia età, tutti di facoltà diverse, col fiatone.
Mi pareva di essere invecchiato di vent’anni di colpo.
Non incontrai nessuno nel breve percorso fino in camera
mia, entrai nella penombra della stanza e chiusi a chiave. Non avevo più forze.
Schiacciai la schiena contro la porta ruvida, vecchia almeno quanto me, e pian
piano mi lasciai scivolare a terra. Alzai le maniche della maglia, tolsi
bruscamente i polsini che mi fasciavano. L’interno della spugna era macchiato
di marrone in alcuni punti, dove la crosta delle ferite si era staccata e aveva
fatto uscire piccole gocce di sangue. L’intreccio delle cicatrici perlacee si
intuivano appena sulla pelle chiara degli avambracci, ma sui polsi la cosa era
differente. Piccoli tagli sottili si confondevano con quelli più recenti, era
disgustoso. Alcuni punti si erano rimarginati male, la crosta faticava a
ricostruirsi. Con freddezza seguii la linea azzurra della vena, che
miracolosamente usciva indenne da quel massacro. Non avevo mai avuto il coraggio
di sfiorarla, nonostante mi divertissi a giocare costantemente col fuoco. Un
millimetro in più e il gioco era fatto. Ma dovevo guardare in faccia la realtà.
Ero un vigliacco. In qualche modo non mi sentivo pronto per andarmene
definitivamente. La mediocrità della mia esistenza, così squallida e grigia,
era diventata comoda. Sentii il disgusto dipingersi sulla mia faccia, ed ebbi
pietà di me stesso. Poi pensai a Elisa, che sembrava così pura e bella.
Mi domandai per giorni come avesse fatto a leggermi così
facilmente, mentre gli altri a mala pena si accorgevano della mia esistenza.
Terza parte
Michele entrò nella mia vita, giorno dopo giorno. Era
diventato il mio miglior amico: la confidenza che si era instaurata tra di noi
era particolare. Era fatta di sguardi, occhiate franche e sensazioni che
entrambi non capivamo da dove venissero. Quando stavo con lui ero me stessa,
senza sentirmi a disagio. E lui si sentiva a disagio perché capiva che riuscivo
a vederlo per quello che era. Un ragazzo fragile e impaurito. Mi sfuggiva
ancora, però, da cosa fosse impaurito. E non sembrava il caso di
approfondire l’argomento. A volte arrivava ai nostri incontri con gli occhi
vuoti e le occhiaie a segnargli lo sguardo. Sembrava perso in qualcosa di così
lontano e incomprensibile che metteva ansia anche a me. Cercavo di lasciar
perdere però: non era ancora pronto per parlarmene, non era giusto forzare la
mano. Tenevo a lui? Per com'ero fatta io, tanto abituata a pensare a me stessa,
anche troppo. Per la prima volta ero completamente presa da una persona che non
fossi io.
A novembre l’azzurro del cielo aveva dato forfait,
liberando su di noi un grigio piombo che niente aveva di naturale. Sembrava una
cappa pesante, immobile, soffocante. Eppure non sentivo la depressione che
normalmente accompagnava questo tipo di clima. Metereopatica di natura, ero
abituata a sentire l’umore che si accordava al cielo che vedevo fuori dalla
finestra. Invece, sentivo solo un brivido d’eccitazione mentre camminavo veloce
fino all’appartamento di Michele. Era sera, il buio aveva un po’ coperto i
nuvoloni che avevano minacciato pioggia per tutto il giorno e per evenienza
l’ombrello era finito in borsa insieme al materiale nuovo su cui avevo
lavorato. Mi sentivo euforica, quasi. Anzi, senza quasi. Per la prima volta ero
soddisfatta di ciò che avevo tra le mani. E non vedevo l’ora di mostrarlo a
Michele, che mi aveva gentilmente invitato a casa sua per un film. Mi ci volle
un po’ per ricordarmi la strada che mi aveva descritto qualche tempo prima, ma
alla fine riuscii a trovare l’edificio squadrato e vecchio nel quale
condivideva l’appartamento con altri ragazzi. Il portone antico di legno era
lasciato aperto, entrai e guardai con stizza le scale che facevano capolino
dall’angolo illuminato a destra. Niente ascensore, ovvio. E lui abitava al
quinto piano, ovvio. Quando mi trovai di fronte alla porta ero senza fiato.
Suonai il campanello e mi aprì un ragazzo che non avevo mai visto, alto quanto
me e ben messo. Mi sorrise come se non riuscisse a credere ai suoi occhi.
“Sei l’amica di Michele. Entra, vieni pure.”
L’ingresso era un corridoio stretto e lungo, da lì si
accedeva a sei porte – contai- tutte abbastanza vecchiotte. C’era un forte
odore di patatine fritte e panni appena stesi, e la cosa mi fece sorridere. Il
ragazzo si girò e indicò una porta alla sua sinistra.
“Michele sta lì. Comunque io sono Giovanni.”
Aveva una stretta decisa e la faccia simpatica.
“Io sono Elisa.”
Giovanni si grattò il mento, ridacchiando.
“Sei la prima persona che Michele si porta a casa. E ci
conosciamo da parecchio. Non so, è strano.”
Risi apertamente.
“È un male?”
“Beh, è solo...strano. Ma sono contento per lui. Se ne sta
sempre per i fatti suoi, non da molta confidenza alle persone.”
Non so come, arrossii. Era il modo in cui mi guardava,
come se avessi qualcosa di speciale, che mi metteva in imbarazzo. Forse capì il
mio disagio, fatto è che lanciò uno sguardo alla porta da dove veniva il suono
della tv accesa, e mi salutò.
“Speriamo di rivederci” mi disse, e mi fece un cenno col
capo prima di sparire.
Bussai alla porta che mi aveva indicato, stringendo la
borsa con l’altra mano. Michele aprì e mi salutò con un sorriso divertito.
“Chi ti ha aperto?”
"Giovanni. Un tizio simpatico.”
La camera non era grande, ma i soffitti erano alti e
bianchi, come in ogni vecchia casa che si rispetti. Invece del letto c’era un
divano rosso, un po’ consunto, e sotto la finestra c’era una scrivania nera,
col pc e una catasta assurda di libri. L’armadio era piccolo, discreto,
nascosto in un angolo e nel complesso la stanza non era male.
“Non c’è letto. Non mi dirai che alla fine ti riveli
l’Edward Cullen della situazione, ti prego”, dissi preoccupata.
Lui rise e si accasciò sul divano con un aspetto da vero
vampiro. Era pallido, ora che lo squadravo meglio, sotto la luce del lampadario
sembrava più vecchio che mai.
“Chiamasi divano letto: è abbastanza comodo a dire il
vero. Comunque non si sa mai nella vita. Ma non credo che sarò tentato dalla
tua tenera carne.”
“Dovresti essere tentato dal mio sangue, per essere
precisi.”
“Già. Chi erano quelli che squartavano le loro vittime per
mangiarsele?”
“Zombie? Non ne ho la minima idea” ammisi, scrollando le
spalle. Appoggiai la borsa a terra, con molta attenzione, e mi sedetti accanto
a lui.
“Tutto bene?” chiesi. Altro che occhiaie, quelli che aveva
sotto gli occhi erano veri e propri solchi. Iniziai a preoccuparmi.
“Sì. Sono solo un po’...stanco” disse, accennando con un
sorriso rigido ai libri sulla scrivania.
Ma avrei scommesso la mia Nikon che non era solo questione
di studio.
Capì che non gli credevo e si sbrigò a cambiare argomento.
“Il film è già nel pc. Ma se non vuoi vedere ‘Quarto
Potere’ possiamo sempre ripiegare su qualcosa di più leggero.”
Sorrisi.
“Tipo?”
“Dovrei avere una copia del Re Leone, da qualche parte.”
“Non puoi mettere ‘Quarto Potere’ e ‘Re Leone’ a
confronto!” esclamai divertita.
“È ovvio che vinca il Re Leone!”
Michele si mise le mani nei capelli, arruffandoli.
“Abbiamo vent’anni. Non penso sia legale vedere ‘Re
Leone’ alla nostra età.”
Incrociai le braccia al petto con aria bellicosa.
“Ci provino a dirmi una cosa del genere! Io voto per il
‘Re Leone’.”
Mi guardò e mi parve di scorgere una luce tenera nei suoi
occhi. Ma forse mi sbagliavo. Lui non era mai stato tenero. Al massimo gentile.
Quell’espressione era una novità che mi fece arrossire. Non ero immune al suo
cambiamento d’umore. E la cosa iniziava seriamente a turbarmi. Non ero davvero
abituata a tenere così tanto ad una persona.
“Re Leone sia, allora” proclamò, con l’aria di un uomo che
andava al patibolo. E si mosse dal divano per accendere il pc e caricare il
film.
Non penso di essermi mai divertita tanto come quella sera.
Il film fece riemergere ricordi d’infanzia che entrambi avevamo rimosso, e
anche Michele alla fine si unì alle mie risate. Eravamo spensierati come due
ragazzini, e non c’era cosa che mi facesse più piacere che vederlo libero per
una volta dai suoi problemi. Per la contentezza non riuscii a reprimere un
brivido che lui colse subito.
“Ti fa freddo?” domandò.
Negai col capo, sorridendo, ma lui si alzò ugualmente e
recuperò con la solita compostezza elegante una coperta di pile celeste che mi
drappeggiò sulle spalle.
Ecco, forse avrei dovuto aggiungere che non ero più immune
nemmeno al suo fascino discreto.
“Grazie”, dissi, mentre affondavo col naso nel tessuto
soffice e profumato.
Si rimise a sedere e finimmo di vedere il film con lo
stesso stato d’animo di prima dell’interruzione.
Quando arrivarono i titoli di coda allungai le braccia
stiracchiandole un po’.
“Hakuna matata” dissi allegra e Michele ridacchiò.
“Ridi come una bambina, te l’ha mai detto nessuno?”
“Dici se qualcuno è mai stato tanto scortese da farmelo
notare prima di te? No, sono sicura di no” risposi soavemente.
Si limitò ad osservarmi e quando stava per dire qualcosa
bussarono alla porta: Giovanni fece capolino con un sorriso divertito,
interrompendolo.
“Ehm, Michele, io e Dario andiamo a farci un giro. C’è la
festa della facoltà di Economia, non se la vuole perdere e io lo accompagno. Mi
sa che non torneremo prima di domani mattina.”
Michele lo guardò perplesso.
“Va bene, certo” disse, educatamente.
“Okay. Allora a domani. Ciao Elisa.”
La testa scomparve alla stessa velocità con cui era
entrata. Il mio sguardo si posò sulla tracolla che avevo lasciato a terra.
“Ti devo far vedere una cosa” dissi, aprendo con
entusiasmo la borsa. Presi la cartellina spigolosa e gliela sbandierai di
fronte al viso. Un altro sorriso dolce, e il mio cuore perse un colpo. Dovevo
calmarmi.
Mi rimisi sul divano e lui fece lo stesso, guardandomi con
curiosità. Quando è tranquillo gli occhi prendono una sfumatura più limpida,
come se il grigio si diluisse fino a diventare trasparente. È impossibile non
rimanerne incantati. Aprii la cartellina, sfilando con sicurezza la foto.
Lasciai che me la togliesse di mano e che restasse per qualche secondo in
silenzio ad osservarla. Più la vedevo e più rimanevo soddisfatta del mio
lavoro. Non mi sfuggì la sua espressione esterrefatta, il pomo d’Adamo che fece
un balzo prima di tornare a scendere al suo posto.
“Questo sono io” sussurrò.
Era stato un momento prima che lui si era accorto della
mia presenza, al nostro ultimo appuntamento al parco. Lo scatto era venuto
fuori così spontaneo che mi aveva fatto paura. Era seduto sulla panchina,
leggermente piegato in avanti come a scrutare il suolo, il profilo risaltava
perfetto e delicato proprio come l’ho sempre visto. I capelli gli coprivano gli
occhi, ma la bocca aveva l’inclinazione distratta e persa che aveva sempre
cercato di nascondere. Ma era il gioco dei grigi che rendeva quella figura viva.
Sembrava vero il vento che gli scompigliava le onde dei capelli, che gli
strattonava la giacca. Mi ci era voluto un po’ prima di capire quali toni
fossero adatti ad una figura del genere, volevo provare col colore, ma alla
fine era stato il solito contrasto bianco/nero a darmi ragione. Traspariva la
sua delicatezza, la sua vulnerabilità, ma anche la sua eleganza d’altri tempi,
nel modo in cui teneva incrociate le braccia o nelle gambe piegate come in un
dipinto del Settecento. Speravo che a lui arrivassero tutte quelle sensazioni,
e, dalla faccia che fece, avrei scommesso di sì.
“È così che ti vedo. Volevo che tu capissi...”Mi si spezzò
la voce.
“Cosa? Che io capissi cosa?” chiese, bruciandomi con gli
occhi.
Abbassai la testa, confusa. Non sapevo cosa dire. Sapevo
solo che i battiti del cuore erano diventati troppo dolorosi e non avevo idea
di come si facesse a farli smettere.
La sua mano fredda scostò i capelli che mi nascondevano,
con una delicatezza quasi commovente.
“Mi fanno impazzire, sai? Quando prendono il sopravvento,
non riesco proprio a sopportarli questi riccioli” sussurrò divertito.
Ebbi la forza di alzare lo sguardo ma me ne pentii quasi
subito. Il viso di Michele era a pochi centimetri dal mio, sentivo il leggero
profumo di dopobarba che usava tutti i giorni pizzicarmi il naso.
“Sono eccentrici ma..”
“A te piacciono così. Lo so” concluse con un sorrisetto
che non riuscì a stemperare la situazione.
Deglutii a fatica.
“È così che ti vedo. Ed è così che mi piaci” sussurrai con
una spontaneità che mi spiazzò, facendomi sprofondare nel rossore infinito del
mio imbarazzo. Mi sentivo soffocare.
Repressi un brivido quando mi posò leggermente due dita
gelide sul volto, disegnando il profilo dello zigomo.
E un altro, quando le sue labbra si posarono sulle mie.
E smisi di respirare quando mi prese tra le braccia,
schiacciandomi contro la seduta del divano, toccandomi come se fossi stata di
cristallo, colmando tutta la solitudine che avevo provato nei giorni prima di
lui, prima del nostro scontro al parco. Prima che ce ne rendessimo conto
giacevamo sdraiati sul divano letto, la foto dimenticata a terra, a guardarci
negli occhi come non avevamo mai avuto il coraggio di fare, a baciarci come se
tutto il resto fosse niente. Sentivo la giustezza di quel momento nel petto
gonfio di calore. Le sue mani mi accarezzavano la schiena in cerchi ampi, le
dita che affondavano un po’ di più ad ogni nuovo giro, nel maglioncino nero che
indossavo. Tremavo, e non c’era freddo: non c’era nient’altro che lui accanto a
me.
Sentii l’abbraccio farsi più forte e risi davvero come una
bambina, ma stavolta lui non mi seguì. Affondò la testa nel mio collo e mi
sfiorò col naso.
“Non scappo, non c’è bisogno di stringermi così” sussurrai,
immergendo una mano tra i suoi capelli.
Lo sentii irrigidirsi e l’incantesimo di quel momento
appena passato cessò d’improvviso. Quando alzò la testa e mi guardò non c’era
più nulla di dolce nel suo sguardo.
“Devi andare.”
Aveva un tono di voce così duro che per poco non
impallidii.
“Perché?” chiesi, sentendo il peso delle lacrime ostruirmi
la gola.
Michele si allontanò da me, lasciandomi indifesa contro il
freddo dell’aria attorno a noi.
Senza guardarmi, si ricompose e sospirò forte.
“ Non posso stare con te.”
Aveva le spalle piegate come se una mano invisibile le
stesse premendo giù, fino a farlo affondare nel pavimento, e percepii con
chiarezza una disperazione che non era mia.
“Michele...”
“Va via, ti prego.”
“Non puoi mandarmi via, così. Non dopo...questo” mormorai,
buttando i capelli indietro per non perderlo di vista.
Il silenzio che seguì mi lasciò una tristezza amara che mi
portai dietro per molti giorni.
Me ne andai senza una parola, afferrai il giubbotto e
corsi per le scale come una forsennata. Una volta fuori, sentii il cuore così
piccolo da fare male.
Quarta Parte
[You’re
not my enemy anymore
there’s a ray of light upon your face now
It will be all new again
There is something else
Just round the corner]
Mi girai credendo che fosse ancora lì, con gli occhi
grandi e luccicanti di lacrime, invece se n'era andata lasciandomi in silenzio
e con il suo sapore sulla lingua. Non credevo di essere capace di provare tante
emozioni insieme. Da che aveva suonato il campanello era stato un susseguirsi
di immagini e toni via via sempre più intensi, e mi aveva mandato fuori di
testa. Vederla lì, sul divano, così vicina da poterne sentire il calore,
sentirla ridere spensierata e bella come non mai mi aveva dato l'illusione di
essere cambiato. Tutto era così leggero quando stavo con lei, tutto così
naturale. Era stato naturale avvicinarmi, sfiorarla con il braccio mentre si
distendeva e si rilassava guardando il film. Era stato bello.
Quando aveva tirato fuori la foto ero rimasto
impressionato. Quello ero io. Io, senza difese, io. E c'era tanta cura
nell'immagine da farmi venire i brividi.
I suoi occhi erano di un nero liquido, sembrava caffè, e
il volto era bianco e rosso come quella prima volta che ci eravamo parlati al
parco. Sentivo che c'era qualcosa di pericoloso nella nuova vicinanza in cui ci
trovavamo, ma era lì, così invitante, con le labbra ad un soffio dalle mie. Con
gli occhi neri, le guance color fragola e i capelli impazziti, era lì che mi
guardava come se non ci fosse niente di sbagliato in me. Era lì.
Non avevo mai baciato una ragazza come Elisa. Ad ogni
bacio mi perdevo sempre un po' di più in lei, nella morbidezza del suo calore;
nel suo abbraccio stavo dimenticando anche il mio nome. Non c'era altro nel
mondo se non la necessità di toccarla e sentirla un po' più mia. I suoi capelli
erano morbidi, più di quello che immaginavo, e ci circondavano in una nuvola
calda e rassicurante. Avrei voluto che quel momento non finisse mai. Mi ero
aggrappato a lei, ma sapevo che non era cambiato nulla. Non potevamo stare
insieme per lo stesso motivo per cui non mi aveva mai visto con le braccia
scoperte, o per cui non mi aveva mai sentito dire cosa mi turbava. Non ero
pronto a portarla nella mia esistenza incasinata. Era una persona troppo pura per
poter stare con me e condividere i miei momenti di disperazione. Guardai la
stanza libera della sua presenza: la tracolla era afflosciata a terra, vicino
al divano, la foto era sul pavimento. Tolsi con rabbia i polsini e mi chiesi
per la prima volta nella vita perché non potevo essere come lei. Perché non
potevo smetterla di sentirmi inutile? Perché non potevo smetterla di sentirmi
vuoto? Elisa mi aveva dimostrato che erano tante le emozioni che mi
aspettavano, appena fuori dalla porta di casa. Dovevo smetterla di nascondermi,
ma...Ma. Non ero ancora pronto. Sbuffando di frustrazione mi lasciai andare sul
divano, guardandomi i polsi. Quando sarei stato pronto, solo allora, avrei
potuto abbandonarmi all'idea di avere una vita normale. Mi addormentai così, tra
un pensiero e l’altro, con la sensazione di aver appena iniziato davvero a
vivere.
Quando mi aprì la porta non sorrise. Semplicemente, si
scostò dall'entrata e mi fece un segno silenzioso per farmi entrare. Non ero
mai andato nel quartiere dove abitava, una zona residenziale ben tenuta e
tranquilla, con casette dai color pastello e giardini verde smeraldo anche
d'inverno. Era passato un mese dal nostro ultimo incontro e ancora non ero
riuscito a portarle la borsa che mi aveva lasciato. Non c'era niente di che, se
non qualche foglio e la cartella che mi aveva fatto vedere. Entrammo nel
salotto in ordine, in casa oltre a noi non c'era nessuno.
“Non ci sono i tuoi?” chiesi per stemperare il silenzio
che ci avvolgeva. Nella tuta più grande di un paio di taglie sembrava più
piccola e fragile che mai.
Scosse la testa, sorridendo amaramente.
“Vivo da sola da un po' ormai.”
“Oh. Beh, ti ho portato la borsa.”
Misi il sacchetto che la conteneva sul tavolino di fronte
alla televisione.
“Grazie.”
Mi guardava come se fosse in difficoltà e sospirai a
disagio.
Misi le mani a coprirmi il viso stanco, cercando di non
pensare a quanto fosse bella e immobile in quel momento, seduta a pochi metri
da me.
“Non farmi questo, ti prego.”
Strinse le labbra che avevano preso a tremare, sbattendo
gli occhi grandi.
“Non sto facendo nulla” sussurrò, e mi si spezzò il cuore
sentendo la sua voce.
“Va bene, parliamo un po'. Ti va?”
Silenzio.
Sospirai.
“Non doveva succedere quello che è successo. Ma non è tua
la colpa. Non c'entri te. Sono io che...non vado bene.” Passò qualche secondo
prima che mi dicesse qualcosa.
“Ci siamo baciati. Anzi, tu mi hai baciato. E poi
mi hai buttato fuori di casa.”
“Detta così sembra peggio di quanto pensavo.”
“Così è andata. E sono abbastanza arrabbiata da chiedermi
cosa ci fai ancora in casa mia.”
Mi alzai, in difficoltà. Percorsi avanti e indietro la
distanza che ci separava, fermandomi prima di sbatterle addosso. Poi parlai.
“Cosa credi? Che non abbia pensato a quella sera? Sono
stato ogni santo giorno a chiedermi cosa potevo fare per migliorarmi, perché
non posso sopportare l'idea di perderti. Solo oggi mi sono sentito pronto a
rivederti e adesso sto mandando a puttane tutto ciò su cui ho lavorato!”
Alzai le maniche della felpa, mostrandole le braccia senza
più paura. Gli occhi neri di lei si allargarono ancora di più e parve un
pulcino di fronte ad un mostro.
“Questo è ciò che ti ho nascosto per tanto tempo. Faccio
schifo, vero? Come potevo avvicinarmi a te in quel modo continuando con
tutta questa merda?”
Mi rimisi a sedere, poggiando la testa sulle mani. Stavo
per scoppiare. Passai qualche minuto fermo, credendo di aver combinato un bel
casino. Dovevo andarmene. Poi sentii le sue dita alzarmi il viso e incontrai il
suo sguardo umido vergognandomi della mia povertà d’animo.
“Sono un mostro”, ammisi, sorridendo debolmente.
Lei toccò le mie braccia con delicatezza, soffermandosi
sui polsi.
“Sono tutte rimarginate.”
Mi sorprese? No. Non è mai stata una ragazza come le
altre.
Incredibile il suo occhio critico, riusciva sempre a
cogliere ogni sfumatura. Era per questo che era una brava fotografa. Aveva un
dono tale e io la stavo per perdere.
“Ho smesso la sera stessa in cui te ne sei andata. Ho
smesso. Adesso sono solo delle brutte cicatrici.”
Lei sorrise tra le lacrime, bella e bianca come un angelo.
“Bene. Perché non avrei sopportato di starti lontana
ancora per molto.” E mi abbracciò forte, sommergendomi con i capelli neri
svolazzanti, annullando la mia vergogna col suo amore.
“Non ti faccio schifo?” sussurrai incredulo.
Per tutta risposta lasciò che le nostre labbra si
unissero, finalmente in pace.
“Non mi hai mai fatto schifo. Ho sempre saputo che avevi
qualcosa che ti turbava e non sapevo fino a che punto eri...coinvolto.
L'importante è che sia tutto passato.”
Le accarezzai la fronte, pieno di gratitudine.
“Ero solo e non riuscivo a vivere. Mi sentivo immobile e
invisibile. Non riuscivo a cambiare e...poi sei arrivata te.”
La baciai con forza, assaporando le labbra che sapevano di
lampone, imprimendo in quel gesto tutto il bisogno di lei che sentivo e che
avevo patito in quel mese di separazione.
Se avessi avuto Elisa accanto sin dall’inizio sarebbe
stato diverso, pensai. Ma dopo tutto quello che avevo passato, annullarmi in
lei perdendomi tra i suoi baci portava una pace dal sapore ancora più dolce.
[When we’ll wake up
some morning rain
will wash away our pain
‘cause it never began for us
It’ll never end for us]
Epilogo
“Smettila di guardarmi
così, mi farai arrossire di nuovo.”
Mi sposto
i capelli di fronte agli occhi per schermarmi dai suoi sguardi ammirati. È la prima volta che qualcuno mi guarda come
se fossi una stella o un miracolo vivente che cammina su una terra troppo
insulsa per i suoi piedi.
“Smettila di metterti i
capelli di fronte al viso.”
Le sue proteste hanno
il tono delle carezze con cui ci siamo riempiti le mani questa notte, e il
rossore sale spontaneo al ricordo dei nostri momenti insieme.
Mi toglie un ricciolo
sbarazzino giusto in tempo per vedere la fiamma del mio viso e la cosa lo fa sorridere.
Rabbrividisco e lui aumenta la presa sull’abbraccio, come ad assorbirmi
completamente e non farmi più sentire freddo. Ma non è il freddo a farmi
rabbrividire, è la magia di quella mattina di sole d’inverno, è la certezza che
non mi dirai di nuovo Vattene. I fantasmi sono spariti dai tuoi occhi
che brillano di una limpidezza quasi innaturale. Tu ovviamente non lo sai,
preso come sei dalla tua contemplazione adorante che mi strappa un’altra
risata. Alzi la testa e ti volti verso la finestra e riesco ad infilarmi meglio
nell’incavo del tuo petto.
“Piove” sussurra lui, e
mi giro anche io.
Dalla
finestra la luce non è la sola cosa che si vede. Gocce di cristallo scendono
con leggerezza dal cielo che non è scuro come al solito. Meravigliata, scendo
pian piano dal letto, malgrado il brontolio sommesso del suo corpo che si trova
denudato della mia presenza fisica accanto. Apro il balcone che si affaccia sul
terrazzo della mia camera e osservo lo spettacolo senza fiato. C’è una sorta di
delicatezza arcana nel modo in cui ogni goccia si stende al suolo, come un
piccolo bacio o una lacrima silenziosa. Non mi rendo conto di essere
completamente uscita fino a quando non sento la pioggia appiattirmi i capelli e
bagnarmi la sottoveste di raso, troppo leggera anche d’estate.
Inizio a ridere e non
so perché. È l’aria forse, che sa di vita, d’amore, di pace. Sarà che mi
sento una bambina innamorata, soddisfatta del bianco e del nero che mi sono
trovata di fronte e mi viene da pregare come la credente che non sono mai stata.
Giro in tondo, allargo le braccia e trovo Michele che ride perché rido
come una bambina, perché anche lui è felice e innamorato, perché
l’aria è fredda e stiamo ballando come due scemi mezzi nudi sul terrazzo di
camera mia. Non abbiamo bisogno di altri perché. Mi appoggio a lui in
preda alle vertigini e sento il bisogno di baciarlo e baciarlo ancora, mentre
le sue mani calde scacciano la pioggia dalla mia pelle e si appropriano dei
miei capelli bagnati e innocui.
La pioggia ha smesso di
cadere, ma noi non abbiamo smesso di baciarci e quando rientriamo nel calore
intimo della stanza da letto sappiamo entrambi come andrà a finire. Ridiamo
come degli sciocchi, tiriamo su le coperte ed eccoci lì, pronti ad amarci
ancora come la prima volta.
Fine.
Angolo dell’autrice:
Salve a tutti!
Che dire, questa storia
mi ha presa un po’ alla sprovvista, lo ammetto. I personaggi sono spuntati dal
nulla mentre ascoltavo la canzone di Elisa e mi hanno chiesto di dar loro voce
e come potevo rifiutarmi? La fotografia è stato un elemento che mi ha molto ispirata,
sarà che la adoro ma non sono capace di prendere in mano una macchina
fotografica e scattare una foto senza ritrarre anche il solito dito che spunta
di lato, brutto e nero e che sciupa tutta l’immagine!
Oltre a demolire le mie
doti di fotografa, volevo approfittare di questo piccolo spazio per poter
ringraziare la ‘giudicia’ del contest a cui ha partecipato la storia EmmaWright98
e il suo giudizio che oltre a farmi sciogliere in lacrime, ha dato una sferzata
di energia in più alla mia autostima traballante. Grazie grazie ^^.
Elisa e Michele sono
grati di tutto e chiedono timidamente se sarebbe possibile per voi cari lettori
lasciare una piccola recensione sulle loro avventure. Sono giovani e innocenti,
che ci volete fare. Ma non voglio negare a loro qualche commento, quindi mi
aggiungo anche io alle loro suppliche J!
Alla prossima!
La vostra commossa
_Nalushka_