Capitolo
15 – Chiudi gli occhi
Il
mondo, all’improvviso, si era ridotto. Era stato risucchiato
dall’ansia, violenta come un colpo allo stomaco,
là dove negli
adulti era gestita l’essenza più aggressiva
– se non fosse stata un cherubino l’avrebbe sentita
ribollire,
calda, quasi liquida, prima che divenisse incorporea e premesse
disperatamente contro quella di Michael per liberarsi dal gelo e dal
panico. E l’organo cavo e immobile nel petto, che in un corpo
maturo dava origine all’essenza e faceva con
quell’energia
circolare il sangue, si sarebbe dilatato fin quasi a scoppiare, pur
di darle la forza di liberarsi. E il ventre si sarebbe contratto in
uno spasmo caldo e freddo, là dove l’essenza
infetta si
raccoglieva, quasi tangibile, per essere depurata e assimilata,
perché nulla di quell’energia andasse sprecato.
Ma
era un cherubino, dall’anatomia sconosciuta e assai meno
efficiente. La poca essenza tangibile, mischiata al sangue, scorreva
lenta nelle vene per darle la forza di muoversi; non ribolliva, non
reagiva, non cercava una soluzione. L’essenza vera, quella
spirituale, si dibatteva sempre più debolmente, priva
dell’energia
necessaria – e si disperdeva, si assottigliava, si consumava.
Il
mondo, quindi, non era ridotto alla sensazione di un’essenza
in
lotta, ma a quella di un’essenza sfinita, perché
il suo corpo
acerbo non le concedeva altro. La mente, invece, era sveglia e
lucida, di quella lucidità data dal panico, e percepiva con
angosciante chiarezza ogni cosa.
L’essenza
che si agitava e si spegneva lentamente. Il corpo che si indeboliva,
sostenuto solo da Michael e dal tronco d’albero. Gli squarci
che,
riaperti in modo orrendo, vomitavano sangue e essenza –
l’essenza
destinata alle ali, quella più pura, quella più
preziosa. I capelli
impigliati nella corteccia. I denti candidi affondati nel labbro
inferiore per non urlare, perché Michael le aveva ordinato
di tacere
e lei aveva l’istinto e il buonsenso di non opporsi.
Il
fiato gelido del caduto sulla fronte, le sue unghie affondate nelle
spalle. Le proprie braccia alzate d’impulso in difesa, di
fronte al
petto, che sfioravano quello di lui con un brivido. I muscoli nervosi
sotto le proprie dita, guizzanti nei brevi attimi in cui il caduto si
tendeva, come aspettandosi un attacco da una direzione ignota.
Ma
fu lui ad attaccare. Un istante la stava premendo contro il tronco,
quello successivo era scomparso tra gli alberi, silenzioso e letale,
e quello successivo ancora era riapparso poco lontano, inginocchiato
a terra, le ali nere esposte all’improvviso con furia e
minaccia. I
suoi occhi non apparivano più grigi, ma neri, neri neri, due
pozze
enormi che sembravano voler inghiottire il mondo intero – era
l’essenza che si faceva liquida e visibile per la rabbia.
Sotto
di lui un angelo si dibatteva e sibilava, misero tentativo di urlo,
soffocato dal suo stesso sangue e dalla mano di Michael, affondata
nella sua gola. La fascia azzurra dei Custodi gli cingeva i fianchi,
lacerata, e per un attimo Amitiel temette che fosse Ridwan; poi si
accorse dei capelli troppo scuri per essere quelli
dell’insegnante,
ma la sua angoscia si acquietò appena.
Un
angelo subiva un attacco di fronte a lei. Doveva reagire? E come, se
riusciva a malapena a sostenersi, puntellata contro il tronco? E
come, se nemmeno sapeva in favore di chi dovesse intervenire?
Michael
ringhiava domande, intanto, a cui il Custode rispondeva con risate
strozzate e sibili inudibili. Da quanto era lì? Cosa aveva
visto?
Aveva avvertito qualcuno? Domande, ringhi, gemiti di dolore. Il
terreno si copriva di sangue bianco, denso, che la luce del tramonto
tingeva di riflessi rossastri. La carne sempre più dilaniata
dell’angelo offriva la vista di muscoli e vene e ossa.
...era
anche peggio del gatto, quello.
«Michael.»
mormorò, rauca.
Lui
la ignorò, continuando a fissare la vittima, furioso.
«Michael.»
Una
domanda. Silenzio. Il rumore orribile della carne che si apriva, un
urlo soffocato dal sangue che scorreva in gola.
«Michael!»
«Ci
ha visti, Amitiel.» le ringhiò, voltandosi verso
di lei con
espressione così feroce da procurarle un brivido
«Ha visto troppo.
Devo capire meglio la situazione.»
«Devi
fare per forza così?» mormorò, mentre
tutto il suo essere gridava
pietà e disgusto per ciò a cui stava assistendo
«Non c’è un
altro modo? Non c’è... qualcun altro?»
«Li
sto chiamando, ma ci vuole tempo, e non c’è altro
modo.» ghignò,
ferino «E, anche se ci fosse, dubito che rinuncerei a
quest’occasione, considerando chi ho tra le mani.»
Le
fece paura. Una paura così istintiva e intima da farla
premere
contro il tronco, incurante del dolore, pur di rimanere in piedi e
ritrarsi il più possibile da lui. Era crudele. Era come quei
bambini
umani.
Michael
dovette accorgersene, perché smise di sorridere in quel modo
animalesco e le fece segno di aspettare. Si voltò di nuovo
verso
l’angelo, incurante dei suoi tentativi di liberarsi: quello
si
dibatteva, lo colpiva, gli sputava addosso il suo sangue corrosivo,
eppure l’arcangelo non sembrava nemmeno accorgersene.
Mascherava il
dolore dietro una furia calma, calcolatrice, e per questo ancor
più
terrorizzante.
«Torno
subito.» ringhiò all’angelo
«Tu non ti muovi, vero? Fammi questo
favore, così dopo potremo continuare la nostra amabile
chiacchierata
tra amici, Shoftiel.»
Con
un colpo di palmo su un’ala, violento, lo
schiacciò a terra. Un
altro colpo, l’orrendo rumore di qualcosa che si frantuma, un
urlo
così acuto da non essere soffocato nemmeno dal sangue che
invadeva
la gola dell’angelo. L’altra ala. Pausa per
spostarsi più
indietro. Un ginocchio. L’altro.
E
urla, e sangue, e urla e sangue, e ancora urla e ancora sangue.
Straziante. Nauseante. Spaventoso.
E
Michael continuava, rapido, metodico. Gli spezzava le ossa per
impedirgli di fuggire, versava il suo sangue e la sua essenza per
impedirgli di richiamare qualcuno.
Si
ripulì le mani sul lembo meno lordo della divisa del
Custode, poi si
alzò e ripassò i palmi sui pantaloni, per
eliminare le ultime
tracce vischiose. Una soddisfazione feroce gli animava lo sguardo,
ancora nero per l’essenza che si agitava in lui. Non
un’impressione
di rimorso. Non un accenno di turbamento. Solo un lampo amaro,
brevissimo, nel vedere l’espressione terrorizzata di Amitiel;
un
suono di gola, a metà tra un ringhio e una risata, quando
lei mosse
precipitosamente un passo indietro, perdendo l’appoggio del
tronco.
La afferrò senza delicatezza appena prima che cadesse e la
premette
di nuovo contro l’albero, con più forza del
necessario.
«Mi
fai male.» mormorò Amitiel, con voce incrinata,
una tiepida scia di
lacrime lungo il viso «Lasciami.»
Lui
strinse di più. «Sai chi è?»
«Lasciami.»
«Sai
chi è?» ripeté con un ringhio.
«Cosa
importa?»
«Importa.»
«Non-»
«Shoftiel.
Troverai il suo nome in almeno metà dei processi
più recenti.» le
strattonò i capelli per costringerla a guardarlo negli occhi
«Un
semplice angelo che, non potendo diventare Censore, ha sfogato la sua
frustrazione accusando decine e decine di compagni al minimo errore.
E non serve che ti dica quanto è clemente la giustizia del
Paradiso,
vero?»
Non
le importava. Aveva di fronte agli occhi l’immagine del suo
corpo
dilaniato, gli schizzi di sangue bianco sul terreno, i suoi disperati
tentativi di liberarsi; udiva ancora i suoi rantoli di sofferenza.
Era così sbagliato, così crudele torturarlo in
quel modo. Era
peggio del gatto, infinitamente peggio, e faceva male e schifo e
paura, le tremavano le ginocchia e le affioravano singhiozzi convulsi
alle labbra. Non le importava chi fosse, quello che Michael gli aveva
fatto era comunque terribile. Terribile e agghiacciante.
«Avrebbe
potuto accusare anche Anane, sai. E potrebbe accusare te, ora che ci
ha visti, se non risolviamo la cosa. Vuoi farti condannare
perché
provi pietà di una serpe?»
«Risolvere
la cosa...» mormorò, benché il
riferimento a sé stessa e ad Anane
l’avesse resa molto meno comprensiva verso l’angelo
«include
torturarlo?»
«Per
sapere se ha avvisato qualcuno, sì. Mi servono
informazioni.»
«E
devi raccogliere proprio... proprio così?»
«Ti
accuserebbe di lascivia con un caduto.» le
ringhiò, affondando con
violenza le unghie nelle sue braccia «Anche se non
c’è stato
nulla, lui lo farebbe. Sai qual è la condanna,
vero?»
Il
terrore la stordì, perché lo sapeva e il solo
pensiero era orrore
puro, che non le permise nemmeno di rispondere. C’era solo
una
preghiera, un ‘no’ sussurrato,
singhiozzato, urlato dentro
di lei, dalla parte della sua mente più disperatamente
aggrappata
alla vita.
«Il
Ritorno. E non ho la minima intenzione di
permettertelo.» si
chinò si di lei, fino a sibilare ad un soffio dalle sue
labbra: «Mi
hai già fatto aspettare abbastanza.»
«...mi
fa male. Mi fa male vederlo così, io non... non ce la
faccio.»
«Chiudi
gli occhi, allora.»
La
lasciò e lei, non più sostenuta dalla sua
stretta, scivolò a
terra. Non aveva nemmeno la forza di parlare: si limitava a fissarlo,
implorante, no, no, non farlo, non tornare lì,
rimani, non
tornare lì. Ti prego, non farlo, mi fa male, mi fai male.
No, no, ti
prego.
«Chiudi
gli occhi.» le ripeté, gli occhi grigi fissi su di
lei, che
sembravano l’acciaio di un’arma affilata, tagliente
– un’arma
fragile e sottile da guerriero stanco, però.
Stanco
di lei, perché lei era ignoranza, debolezza,
emotività. Lacrime.
Urla. Paure. E ancora cercava un modo di farla restare in Paradiso,
di non esporla troppo presto alla guerra che andava germogliando
nella dimensione umana.
Lasciò
crollare il capo, sconfitta, premendo la fronte contro le ginocchia.
I capelli sciolti e scompigliati le ricaddero ai lati del viso come
onde nere, oscurandole la vista; il nastro bianco che li aveva
trattenuti nella treccia abituale doveva giacere a qualche passo di
distanza, dove Michael l’aveva abbandonato.
Inspirò tremante
l’aria fresca della notte, pregna di odore di erba e di terra
arida
e di sangue, intenso, disgustoso, vagamente dolciastro. Smise di
nuovo di respirare, ma le era rimasto nelle narici e nella testa e
non riusciva a farlo andare via; e, tra le ciocche di capelli, si
apriva come uno squarcio candido la vista delle macchie sul terreno.
L’angelo,
poco lontano, rantolava.
«Chiudi
gli occhi.»
Dopo
quell’ordine, ripetuto in tono quasi stanco, tra i capelli
intravide anche l’ombra densa di Michael che si spostava
lentamente, intrecciandosi con quelle degli alberi. La sua sagoma che
si chinava su qualcosa che, grazie Dio grazie, non
riusciva a
vedere. Udì ringhi, urla, domande, rantoli; e gli schizzi
sul
terreno aumentavano sempre di più, sempre di più,
ferendola come
lame bianche e crudeli.
Chiuse
gli occhi.
* * *
Sachiel
ricordava Khamiel con mesta precisione. Era un Guardiano alto,
robusto, dall’aspetto poco rassicurante; la sua espressione
poteva
variare da una rarissima neutralità, nei momenti di buon
umore, ad
una assai più frequente minaccia, e non si distendeva mai in
un
sorriso che non fosse un ghigno sarcastico e preoccupante. Molto
preoccupante.
Non
il genere di persona che qualcuno avrebbe reputato adatta
all’insegnamento, in sintesi, come sottolineavano le occhiate
compassionevoli riservate dagli adulti ai suoi allievi; e, nonostante
il dovuto rispetto che gli portava, Sachiel non poteva biasimare
troppo quegli sguardi. Non che avesse l’autorità
di farlo, ben
inteso, ma se anche avesse potuto se ne sarebbe astenuta.
L’atteggiamento
della sua maestra poteva dirsi spontaneo e confidenziale, in
confronto a quello di Khamiel, e ciò era sufficiente per
provare
compassione nei riguardi dei – pochi – Cherubini
che erano sotto
la tutela dell’arcangelo. Non più di una
quindicina, valutò con
un’occhiata, poiché a lui venivano affidati solo i
più
promettenti, per spremere da loro qualsiasi goccia di energia e
talento.
In
bilico sui rami più robusti per non sporcarsi di erba e
terriccio,
seguivano la lezione con concentrazione angosciosamente palese,
perché Khamiel non pensasse che fossero disattenti; solo i
più
arditi o i più stanchi osavano gettare brevi occhiate verso
di lei,
unico cherubino tra i Custodi e i Guardiani che li sorvegliavano. Dal
saluto dell’insegnante l’avevano identificata come
una precedente
allieva e, per questo, i loro sguardi si erano accesi per un attimo
di interesse e speranza – se era sopravvissuta lei, potevano
farcela anche loro; e sì, sapevano che in molti avevano
superato più
o meno indenni la sesta classe sotto Khamiel, ma vederlo
era
un’altra cosa. Curiosamente non avevano bisogno di prove,
invece,
per tremare al racconto di Cherubini crollati sotto
l’estenuante
peso della severità dell’arcangelo. A quel
‘crollati’ non si
dava mai un significato preciso, perciò non sapevano se
s’intendesse
stancati fino a logorare anche l’essenza o... forse pensare a
degli
allievi morti era un po’ eccessivo, ma chi poteva dirlo?
Sachiel
un morto – il morto, più
precisamente, che nei racconti poi
si era moltiplicato fino a diventare due e cinque e dieci –
lo
aveva visto, alla fine della sesta classe. Non intenzionale, certo:
Khamiel era severo, non stupido, e non avrebbe mai spinto un
cherubino oltre i suoi limiti. Il problema sussisteva, però,
nel
fatto che era l’arcangelo a valutare i limiti del cherubino
– un
arcangelo molto esigente e, soprattutto, adulto da troppo tempo per
ricordare come fosse fragile il corpo degli infanti. Quella che
doveva essere un’esercitazione per i migliori tra i
migliori,
gli allievi più promettenti di quelli già
affidati al maestro più
capace, si era trasformata in un massacro: un attacco improvviso dei
Caduti, pochi adulti sul luogo, i portali per tornare in Paradiso
troppo lontani. Lei era stata inclusa nell’esercitazione
perché
stava per essere promossa, non per un reale talento che giustificasse
la sua presenza lì: gli altri quattro Cherubini, seppur
più
immaturi, erano di gran lunga più capaci. Ironicamente,
l’unica a
tornare in Paradiso quasi indenne era stata proprio lei, ma non prima
di aver visto un compagno tramutarsi in cenere, morto, sotto i propri
occhi inorriditi. Questo, insieme a tre feriti gravi, aveva reso
chiaro a Khamiel quanto avesse sopravvalutato i suoi allievi; le
conseguenze, poi, gli avevano lasciato una cicatrice alla schiena e
l’intenzione di non ripetere mai più
l’errore.
Ma,
nonostante la sua essenza non si fosse estinta per volere
dell’arcangelo, il morto restava morto. Non si poteva
biasimare
l’inquietudine dei Cherubini sotto la sua guida.
Non
si poteva biasimare nemmeno l’apprensione con cui Khamiel
vigilava
sui suoi allievi nella dimensione umana, però, nonostante
fosse
ritenuta eccessiva da molti – da chi non aveva mai visto la
cicatrice che gli deturpava il corpo dalla scapola destra al fianco
sinistro, o quella ancor più spaventosa che gli sfigurava
l’essenza;
perché solo segnando questa per sempre si potevano sfregiare
le loro
carni immortali, e ciò era un avvenimento tanto raro quanto
raccapricciante.
Sachiel,
che vedeva le essenze con una precisione quasi pari a quella con cui
poteva osservare il mondo materiale, provava di fronte a
quell’apprensione una comprensione rispettosa e pietosa
insieme,
badando però a mostrare solo il rispetto; e non si stupiva
che
Khamiel fosse rimasto così irritato dal trovare senza
preavviso
un’allieva sconosciuta nel suo gruppo, un istante prima di
discendere nella dimensione umana. Se avesse potuto permettersi una
simile mancanza di rispetto nei confronti di
un’Autorità, Sachiel
avrebbe pensato che la sua maestra non aveva scelto il momento
migliore per spostare il cherubino in quel gruppo.
Sperava
solo di non dover comunicare di persona a Khamiel che, presa in
consegna la sua nuova allieva, avrebbe ignorato le sue disposizioni
per metterla alla prova in altri modi a cui, onestamente, non aveva
ancora pensato. Un Custode o un Guardiano avrebbe potuto riferirgli
la notizia senza correre il rischio di subire uno dei suoi temuti
scoppi d’ira.
A
quanto sembrava dall’espressione minacciosa
dell’arcangelo, la
prima vittima non sarebbe stata comunque lei, ma un allievo che non
stava concentrando ogni sua più intima energia nel prendere
appunti
con la dovuta alacrità. Il fatto che stesse sfregando la
punta della
matita sulla carta ruvida per affilarla non importava: la mente di
Khamiel, evidentemente, registrava solo che il cherubino non stava
scrivendo. Quello dovette percepire il suo sguardo, perché
si
affrettò a riporre la carta ruvida nella borsa per tornare
ai suoi
appunti con zelo encomiabile. La voce dell’insegnante divenne
all’improvviso vibrante, irritata: non aveva ancora raggiunto
il
limite, ma mancava poco, e – benché questo fosse
un ulteriore
incentivo per gli allievi a mantenere una condotta irreprensibile
–
Sachiel dubitava che sarebbero sfuggiti alle ire di Khamiel.
«Credo
che la lezione durerà ancora per un po’. Non
è mai un bene
affrettare le spiegazioni sugli Umani e sulla morale.» le
disse una
Custode, accovacciata su un ramo poco lontano, in tono vagamente
materno «La zona è ben presidiata; puoi
allontanarti senza pericolo
e tornare tra un paio di tramonti, se ti annoi.»
Ringraziò
e declinò l’offerta con la dovuta cortesia,
affermando che non si
stava affatto annoiando, poiché quegli argomenti la
interessavano
sempre; il che avrebbe anche potuto essere vero, se non avesse dovuto
seguire quelle lezioni decine e decine di volte, al punto che avrebbe
potuto ripeterle a memoria senza difficoltà. Ma la sua
maestra le
aveva ordinato di recarsi lì e una Custode non aveva
l’autorità
di dispensarla da quel compito: assentarsi, seppur per breve tempo,
le sarebbe parso un tradimento della promessa fatta
all’insegnante,
e se Sachiel temeva qualcosa con tutta sé stessa era di
perdere la
sua fiducia così faticosamente guadagnata. La gratitudine
che doveva
a Leliel era troppa per permetterle una disobbedienza – per
concepire una disobbedienza. Sarebbe rimasta
lì ad annoiarsi
finché fosse stato necessario.
Non
lo fu per molto ancora. Nonostante le previsioni della Custode,
un’alba un po’ nuvolosa giunse a rischiarare il
cielo – quel
cielo che le piaceva tanto guardare, di giorno, quando assumeva il
colore dei suoi occhi – e Khamiel smise di spiegare,
ritenendo di
aver ripetuto abbastanza gli stessi due o tre concetti sulla
debolezza degli Umani, sulla compassione degli Angeli e sulla
mostruosità degli Sconsacrati. Non concesse ai Cherubini di
rilassarsi, ordinando loro di prepararsi all’arrivo degli
allievi
del ciclo superiore, per la seconda parte della lezione; alle parole
‘Percezioni’ e ‘anime’, Sachiel
poté giurare di aver visto
almeno metà del gruppo curvare le spalle, già
esausto, e provò per
loro un misto di compassione e divertimento.
Essere
al ciclo superiore era decisamente piacevole, convenne tra
sé e sé.
Lo
fu un po’ meno quando dovette avvicinarsi, balzando da un
ramo
all’altro, all’imponente figura di Khamiel, e ancor
meno nel
comunicargli il proprio compito. Ogni traccia di piacevolezza
scomparve del tutto quando, sotto il suo sguardo adirato,
rifiutò la
scorta di un Custode: la sua maestra si era raccomandata la massima
discrezione, non voleva offenderlo o respingere la sua generosa
offerta, ma non poteva davvero disobbedire agli ordini
dell’Autorità.
Benché
non fosse particolarmente minuta, in confronto alla mole
dell’arcangelo si sentiva insignificante e vulnerabile;
così
vulnerabile che, non appena lui glielo permise, si precipitò
dall’allieva affidatale e fu sul punto di afferrarla per un
braccio
e trascinarla malamente, pur di allontanarsi il prima possibile.
L’ira di Khamiel le aveva lasciato ricordi
tutt’altro che
piacevoli e anche allora, ormai quasi adulta, preferiva evitare di
ripetere l’esperienza.
Il
cherubino non sembrò comprendere quell’urgenza,
perché la seguì
in volo con irritazione malcelata, e non prima di aver salutato
Khamiel e gli altri Guardiani con frasi quasi ossequiose. Se cercava
l’approvazione dell’insegnante, aveva davvero
sbagliato metodo:
l’arcangelo detestava gli adulatori con fervida
intensità, ma
ancor di più detestava chi non portava rispetto ai Custodi,
che tra
le proprie file includevano anche la sua compagna – forse
proprio
la donna che le aveva dato il permesso di andarsene,
rifletté
Sachiel distrattamente, scorgendo i due parlare con
familiarità. Non
che le interessassero particolari di questo tipo; non sapeva nemmeno
come fosse venuta a conoscenza della relazione tra Khamiel e una
Custode, in effetti.
Forse
avrebbe dovuto metterne al corrente l’altro cherubino,
perché non
incorresse nella temibile ira dell’insegnante,
pensò. Poi si
accorse dell’aria di superiorità e fastidio con
cui quella la
fissava e si disse che, in fondo, imparare
l’umiltà a proprie
spese avrebbe potuto giovarle.
Ancora
non sapeva se Cassiel avesse capacità degne di un allievo
del ciclo
superiore, ma di certo ne aveva l’alterigia.
*
* *
Aveva
chiuso gli occhi e premuto le mani sulle orecchie pur di non sentire
e non vedere, ma sapeva che erano lì, a pochi passi da lei,
rantoli
e ringhi e urla e carne dilaniata, così vicini che le
sembrava di
avvertire il tepore del sangue, il suo odore dolciastro. Si era
rannicchiata con un fianco contro l’albero, dando le spalle a
quell’orrore e artigliandosi i capelli con le dita; nel farlo
le
unghie le erano strisciate sul collo, proprio nel punto in cui le
dita di Michael avevano stretto fino a incidere la pelle, e un rivolo
bianco aveva ripreso a scorrere sul suo corpo, gola clavicola seno,
ma poi lei l’aveva asciugato con un gesto rabbioso prima che
raggiungesse il ventre, perché il sangue le faceva schifo e
non
voleva avercelo addosso.
Ce
n’era già abbastanza sul terreno.
E
poi la stanchezza l’aveva vinta, tentandola con il suo
pacifico
nulla: si era lasciata scivolare nel sonno, i muscoli sempre
più
rilassati, la mente immersa nell’oblio.
Rinvenne
dopo un tempo che non seppe quantificare, quando due mani piccole e
tiepide le accarezzarono gentilmente il viso. Aprì gli
occhi, priva
della difficoltà che accompagnava – secondo
ciò che aveva
accennato la sua insegnante – il risveglio degli Umani, per
vedere
alla luce del giorno un sorridente – ghignante
– viso di
bambino ad un soffio dal suo; dopo qualche istante comprese che era
il corpo posseduto da Eisheth. Non si era nemmeno accorta del suo
arrivo.
«Oh,
mia cara, finalmente.» ridacchiò il demone
«Temevo che non ti
svegliassi più.»
«Anane?»
«L’ho
lasciata con Sephon. Non voglio che si avvicini a certa feccia.»
indicò alle sue spalle con espressione disgustata
«Ti porto i suoi
saluti, se ti consola.»
Feccia.
Un collaboratore dei Censori, che si assicurava che tutto andasse
secondo la morale. Chi veniva condannato lo era, non certo chi
accusava; e, se fino a poco tempo prima lei non si era sentita tale,
dopo aver chiuso gli occhi e ignorato quell’orrore non poteva
più
dirsi certa di non essere feccia. Anzi.
Lasciò
ricadere la testa sulle ginocchia, trattenendo a malapena un
singhiozzo. Non aveva nemmeno il coraggio di voltarsi, di cercare
Michael e vederlo sporco di sangue, sangue dolce, sangue angelico,
sangue di chi l’aveva cresciuta, sangue come il suo. Non le
importava nemmeno sapere cosa avesse scoperto, voleva solo chiudere
gli occhi e dimenticare. Ignorare tutto, come aveva fatto sino a quel
momento, rendendosi complice.
Quel
pensiero le provocò un altro singhiozzo.
«Su,
su, cara, non fare così. Sei davvero irritante.»
Eisheth
si portò alle sue spalle e le sfiorò la base
delle ali in un gesto
materno; poi, preso un laccio da una tasca, le raccolse i capelli in
una coda morbida. Sarebbe persino parsa rassicurante, se non avesse
continuato a ridacchiare tra sé e sé.
«Shoftiel
non ha comunicato a nessuno i suoi sospetti su Anane... molto da lui.
Avrebbe dovuto dividere la gloria con qualcuno, altrimenti. La sua
ambizione gioca a vostro favore, sì? Non
c’è nulla di cui
preoccuparsi.»
Il
demone sembrava sapere perfettamente che non stava singhiozzando per
la preoccupazione. Subito aggiunse, infatti, con un ghigno
più ampio
degli altri: «Ora dobbiamo solo trovare il modo di
eliminarlo. Hai
mai visto un’essenza estinguersi, cara? Sono certa che ti
piacerà,
è spetta-»
«Eisheth.»
Il
ringhio di Michael fu un balsamo, dopo le continue risatine acute del
demone. Amitiel lo accolse rialzando di scatto la testa per guardare
sopra di sé, ma se ne pentì con un brivido: il
volto del caduto era
contratto per la rabbia, gli occhi ancora neri, il corpo lambito da
sottili fiamme scure per l’essenza che si concretizzava,
nutrita
dalla rabbia. E sangue, sangue sulle sue mani, sangue sul suo corpo,
sangue ovunque, ma lui ignorava il dolore e nemmeno tamponava quel
liquido bianco che, per gli Sconsacrati, doveva essere bruciante
quanto l’Espiazione. E sangue nero, anche, sulle unghie
irregolari
e scheggiate.
«Oh,
tesoro, hai finito di strapazzare la povera Liwet?» gli
chiese
Eisheth, leziosa, ignorando la sua occhiata furiosa «Povera
cara,
non poteva sapere che Shoftiel avesse deciso di fare una visitina
qui, sì? La sua Influenza è stata discreta, sui
Custodi di cui era
a conoscenza. Non buona quanto la mia, certo,» fece
schioccare la
lingua sul palato, pensierosa «ma comunque degna di nota,
considerando che si è sviluppata da poco. Così
giovane... era
appena due classi avanti a Sa-»
«Eisheth.»
«Sì,
sì, taccio, come vuoi.» annuì con
espressione beffardamente
contrita, salvo poi riprendere dopo pochi istanti: «Oh, non
indovinerai mai chi ho visto venendo qui!»
Michael
non diede segno di interessarsene.
«Non
ci provi nemmeno? Dai, fa’ contenta tua madre, almeno un
nome!»
«Eisheth.»
«Tesoro,
è scontato che io mi sia vista venendo qui.»
fissò i grandi occhi
infantili su Amitiel «E tu, mia cara, non vuoi provare a
indovinare?»
«Basta!»
Le
fiamme nere che lambivano il corpo del caduto si estesero e Amitiel
si ritrasse di scatto, spaventata, per non esserne sfiorata. Erano
terribilmente simili all’Espiazione e, benché con
ogni probabilità
non fossero tanto dolorose, preferiva non rischiare.
«Proprio
nessuno vuole indovinare? E va bene...» la falsa espressione
di
delusione fu sostituita da un ghigno eccitato «Tuo padre, ci
crederesti? Pensavamo tutti che avesse smesso di insegnare, dopo
quell’incidente, sì? E persino il padre di
Anane!» batté le
mani, entusiasta «E sua-»
«Madre.»
Eisheth
sembrò soddisfatta.
«Vuoi
che vada da Liwet, caro? Ha sempre idee brillanti, potrebbe
risparmiarmi il tedio di pensare al modo di sistemare questa
situazione, sì? Non vorrei mai che la tua cara
Amitiel si
trovasse in pericolo. E mia
figlia, non dimentichiamoci di lei.»
Scoccatagli
un’occhiata che Amitiel non seppe interpretare, Eisheth
tornò
indietro saltellando, senza attendere risposta. Il cherubino
voltò
istintivamente il capo per seguirla con lo sguardo; tentando di
ignorare – ignorare? No, no, non poteva davvero
ignorarlo, era
terribile, faceva schifo – il corpo straziato a
terra,
abbandonato come una bambola divenuta inutile, incontrò la
figura di
colei che doveva essere Liwet. La prima parola che le
associò fu
‘morbida’, perché la bassa statura la
faceva apparire più
robusta di quanto già la rendesse una lieve pinguedine, data
probabilmente da un’essenza fin troppo florida; ma non se ne
ricavava un’impressione sgradevole e, anzi, Amitiel avrebbe
potuto
trovarla rassicurante, se uno squarcio non le avesse lacerato il viso
dallo zigomo alle labbra.
Sangue
nero colava copiosamente, imbrattandole il collo e i capelli castani,
eppure non sembrava esserne colpita: si limitava a rimanere immobile,
attendendo che Eisheth la raggiungesse con la sua andatura
saltellante, senza dar segno d’inquietudine o di dolore.
Addirittura le sorrise, accorgendosi del suo sguardo, riuscendo a
sembrare benevola anche con quella ferita a deturparle i tratti
morbidi del viso.
«Posso
avere l’onore della tua attenzione?» la riscosse
Michael,
irritato.
Alzando
il viso verso l’alto per guardarlo, notò che le
sottili fiamme
nere erano del tutto scomparse – blanda rassicurazione che
non
diminuì l’orrore per il sangue che gli imbrattava
il corpo. Quando
lui allungò una mano, Amitiel si ritrasse di scatto,
tremando,
perché se aveva fatto quello chissà di
cos’altro poteva essersi
macchiato, e senza il minimo rimorso, senza la minima esitazione, e
chissà cosa avrebbe potuto fare a lei, e ad Anane, e...
...e
l’aveva fatto per lei, perché altrimenti sarebbe
stata accusata e
condannata. Per lei. Una sottile lusinga si
aprì uno
spiraglio tra l’orrore, abbastanza a non farla più
ritrarre
quando, lo sguardo furioso ma le mani ripulite sugli abiti, Michael
la afferrò per un polso e la strattonò per farla
alzare in piedi.
Le
fece male. La sua pelle inviò un fremito di dolore, tanto
intenso da
lasciarla per un attimo annichilita, perché sulle dita del
caduto
erano rimaste tracce nere e gelide, di quel gelo che sembra mordere e
bruciare anche le ossa. Come il loro primo contatto,
ricordò; no,
quello era stato peggio, con la mano di Michael a serrarle la gola e
le fiamme a divorarla dentro, ma anche questo era doloroso, tanto,
troppo, e un singhiozzo le sfuggì senza che neppure provasse
a
reprimerlo.
«Non
osare piangere.» ringhiò il
caduto «Sei già abbastanza
patetica.»
Le
lasciò il polso, ma solo per passarle il braccio attorno ai
fianchi
e stringersela contro. Amitiel sibilò di dolore e ribrezzo,
le
braccia nude a contatto con il tessuto intriso di sangue, la fronte
premuta contro il collo gelido del caduto. Gli spinse le mani contro
il torace, inutilmente, mentre i singhiozzi divenivano più
frequenti.
«Non
piangere.» le ripeté, in un tono quasi stanco, che
più che un
ordine sembrava una richiesta.
«Lasciami.»
In
risposta, la strinse di più. Alla lieve lusinga si aggiunse
un
languore strano, che dilagava nel ventre in onde lente e tiepide;
paradossalmente – o forse coerentemente con il gelo del
caduto –
rabbrividì. Le piaceva quel contatto,
nei brevi istanti in
cui l’orrore cedeva il passo ad altre sensazioni. I muscoli
compatti del torace sotto le proprie dita, il respiro freddo che le
lambiva un orecchio, le ali di cui avvertiva la presenza ad un soffio
dalla pelle, il braccio che le cingeva i fianchi quasi con violenza.
Gli
occhi grigi che la fissavano, furiosi e annebbiati da qualcosa che,
forse, era ciò che stava pervadendo anche lei.
Michael
era crudele. Spietato. Glorioso, si ritrovò a pensare. Glorioso.
E quello che aveva fatto l’aveva fatto per lei. Per
lei.
Quanti altri, nella sua breve vita, le avevano prestato
un’attenzione
simile? Quanti l’avevano stretta e si erano chinati a
sfiorarle
l’orecchio con le labbra e l’avevano guardata? Non
vista, non
scorta, non esaminata con freddezza, ma guardata,
con uno
sguardo così intenso da farla rabbrividire.
Lo
voleva. Era un
bisogno di cui
non comprendeva il senso, o le implicazioni, ma c’era. Il
desiderio
di toccarlo e lasciarsi toccare, pelle e muscoli e la mano che le
stringeva il fianco e occhi e respiro e... e quel languore intanto
minacciava di divorarla, sarebbe morta nel calore che dilagava nel
ventre e nel brivido che le scuoteva la schiena e le ali.
E
all’improvviso non importava più del sangue e del
tradimento e
della sua complicità in quell’orrore, e neanche di
Eisheth a pochi
passi da loro e di Anane e del Paradiso e di tutto il resto, lo
voleva ed era una sensazione così nuova e così
intensa da
inghiottire ogni altra cosa e non permetterle nemmeno un pensiero
coerente. Importava solo il torace contro cui era premuta – a
cui si aggrappava
–, la mano
sul suo fianco e l’altra che era risalita a stringerle i
capelli,
il respiro gelido che le sfiorava il viso, lo sguardo grigio che la
trafiggeva. Importava solo lui.
«Chiudi
gli occhi.» le ordinò, roco.
Obbedì.
***
Angolo autrice
Sì, so che sarete tutti in preda allo shock.
Questo capitolo contiene una spaventosa rivelazione.
Gli Angeli non usano i
temperini.
*tossicchia* Bene, dopo aver concesso la dovuta attenzione alla carta
ruvida con cui il povero allievo di Khamiel stava temperando la matita,
torniamo alle cose serie. Grazie come sempre a chi ha inserito la
storia in una delle tre liste e un ringraziamento particolare a chi
commenta (:
Questo capitolo potrebbe partecipare alle fiere del "Scene con personaggi secondari
che sembrano inutili ma inutili non sono" e del "Interrompiamo sul
più bello". E ora lascio voi, Amitiel
"Finalmente il corpo si
dà una svegliata" e il
povero Michael "Trattieniti
o le fai una lezione di anatomia in pubblico" in attesa
del prossimo, non avendo particolari appunti su questo.
A domenica! (:
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