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Autore: TuttaColpaDelCielo    13/05/2012    6 recensioni
«Ho sbagliato qualcosa?» chiedesti, tremando nel fuoco.
«No. Non hai sbagliato nulla.» ti risposero «Non è colpa tua.»
Ti condannarono ugualmente.

Nata dalle proprie ceneri come l'araba fenice, si chiede Chi sono? e impazzisce lentamente, senza memoria di ciò che fu prima.
Senza passato non c'è futuro; se non eri, non sarai. Allora che senso ha essere?
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo 15 – Chiudi gli occhi





Il mondo, all’improvviso, si era ridotto. Era stato risucchiato dall’ansia, violenta come un colpo allo stomaco, là dove negli adulti era gestita l’essenza più aggressiva – se non fosse stata un cherubino l’avrebbe sentita ribollire, calda, quasi liquida, prima che divenisse incorporea e premesse disperatamente contro quella di Michael per liberarsi dal gelo e dal panico. E l’organo cavo e immobile nel petto, che in un corpo maturo dava origine all’essenza e faceva con quell’energia circolare il sangue, si sarebbe dilatato fin quasi a scoppiare, pur di darle la forza di liberarsi. E il ventre si sarebbe contratto in uno spasmo caldo e freddo, là dove l’essenza infetta si raccoglieva, quasi tangibile, per essere depurata e assimilata, perché nulla di quell’energia andasse sprecato.
Ma era un cherubino, dall’anatomia sconosciuta e assai meno efficiente. La poca essenza tangibile, mischiata al sangue, scorreva lenta nelle vene per darle la forza di muoversi; non ribolliva, non reagiva, non cercava una soluzione. L’essenza vera, quella spirituale, si dibatteva sempre più debolmente, priva dell’energia necessaria – e si disperdeva, si assottigliava, si consumava.
Il mondo, quindi, non era ridotto alla sensazione di un’essenza in lotta, ma a quella di un’essenza sfinita, perché il suo corpo acerbo non le concedeva altro. La mente, invece, era sveglia e lucida, di quella lucidità data dal panico, e percepiva con angosciante chiarezza ogni cosa.
L’essenza che si agitava e si spegneva lentamente. Il corpo che si indeboliva, sostenuto solo da Michael e dal tronco d’albero. Gli squarci che, riaperti in modo orrendo, vomitavano sangue e essenza – l’essenza destinata alle ali, quella più pura, quella più preziosa. I capelli impigliati nella corteccia. I denti candidi affondati nel labbro inferiore per non urlare, perché Michael le aveva ordinato di tacere e lei aveva l’istinto e il buonsenso di non opporsi.
Il fiato gelido del caduto sulla fronte, le sue unghie affondate nelle spalle. Le proprie braccia alzate d’impulso in difesa, di fronte al petto, che sfioravano quello di lui con un brivido. I muscoli nervosi sotto le proprie dita, guizzanti nei brevi attimi in cui il caduto si tendeva, come aspettandosi un attacco da una direzione ignota.
Ma fu lui ad attaccare. Un istante la stava premendo contro il tronco, quello successivo era scomparso tra gli alberi, silenzioso e letale, e quello successivo ancora era riapparso poco lontano, inginocchiato a terra, le ali nere esposte all’improvviso con furia e minaccia. I suoi occhi non apparivano più grigi, ma neri, neri neri, due pozze enormi che sembravano voler inghiottire il mondo intero – era l’essenza che si faceva liquida e visibile per la rabbia.
Sotto di lui un angelo si dibatteva e sibilava, misero tentativo di urlo, soffocato dal suo stesso sangue e dalla mano di Michael, affondata nella sua gola. La fascia azzurra dei Custodi gli cingeva i fianchi, lacerata, e per un attimo Amitiel temette che fosse Ridwan; poi si accorse dei capelli troppo scuri per essere quelli dell’insegnante, ma la sua angoscia si acquietò appena.
Un angelo subiva un attacco di fronte a lei. Doveva reagire? E come, se riusciva a malapena a sostenersi, puntellata contro il tronco? E come, se nemmeno sapeva in favore di chi dovesse intervenire?
Michael ringhiava domande, intanto, a cui il Custode rispondeva con risate strozzate e sibili inudibili. Da quanto era lì? Cosa aveva visto? Aveva avvertito qualcuno? Domande, ringhi, gemiti di dolore. Il terreno si copriva di sangue bianco, denso, che la luce del tramonto tingeva di riflessi rossastri. La carne sempre più dilaniata dell’angelo offriva la vista di muscoli e vene e ossa.
...era anche peggio del gatto, quello.
«Michael.» mormorò, rauca.
Lui la ignorò, continuando a fissare la vittima, furioso.
«Michael.»
Una domanda. Silenzio. Il rumore orribile della carne che si apriva, un urlo soffocato dal sangue che scorreva in gola.
«Michael!»
«Ci ha visti, Amitiel.» le ringhiò, voltandosi verso di lei con espressione così feroce da procurarle un brivido «Ha visto troppo. Devo capire meglio la situazione.»
«Devi fare per forza così?» mormorò, mentre tutto il suo essere gridava pietà e disgusto per ciò a cui stava assistendo «Non c’è un altro modo? Non c’è... qualcun altro?»
«Li sto chiamando, ma ci vuole tempo, e non c’è altro modo.» ghignò, ferino «E, anche se ci fosse, dubito che rinuncerei a quest’occasione, considerando chi ho tra le mani.»
Le fece paura. Una paura così istintiva e intima da farla premere contro il tronco, incurante del dolore, pur di rimanere in piedi e ritrarsi il più possibile da lui. Era crudele. Era come quei bambini umani.
Michael dovette accorgersene, perché smise di sorridere in quel modo animalesco e le fece segno di aspettare. Si voltò di nuovo verso l’angelo, incurante dei suoi tentativi di liberarsi: quello si dibatteva, lo colpiva, gli sputava addosso il suo sangue corrosivo, eppure l’arcangelo non sembrava nemmeno accorgersene. Mascherava il dolore dietro una furia calma, calcolatrice, e per questo ancor più terrorizzante.
«Torno subito.» ringhiò all’angelo «Tu non ti muovi, vero? Fammi questo favore, così dopo potremo continuare la nostra amabile chiacchierata tra amici, Shoftiel.»
Con un colpo di palmo su un’ala, violento, lo schiacciò a terra. Un altro colpo, l’orrendo rumore di qualcosa che si frantuma, un urlo così acuto da non essere soffocato nemmeno dal sangue che invadeva la gola dell’angelo. L’altra ala. Pausa per spostarsi più indietro. Un ginocchio. L’altro.
E urla, e sangue, e urla e sangue, e ancora urla e ancora sangue. Straziante. Nauseante. Spaventoso.
E Michael continuava, rapido, metodico. Gli spezzava le ossa per impedirgli di fuggire, versava il suo sangue e la sua essenza per impedirgli di richiamare qualcuno.
Si ripulì le mani sul lembo meno lordo della divisa del Custode, poi si alzò e ripassò i palmi sui pantaloni, per eliminare le ultime tracce vischiose. Una soddisfazione feroce gli animava lo sguardo, ancora nero per l’essenza che si agitava in lui. Non un’impressione di rimorso. Non un accenno di turbamento. Solo un lampo amaro, brevissimo, nel vedere l’espressione terrorizzata di Amitiel; un suono di gola, a metà tra un ringhio e una risata, quando lei mosse precipitosamente un passo indietro, perdendo l’appoggio del tronco. La afferrò senza delicatezza appena prima che cadesse e la premette di nuovo contro l’albero, con più forza del necessario.
«Mi fai male.» mormorò Amitiel, con voce incrinata, una tiepida scia di lacrime lungo il viso «Lasciami.»
Lui strinse di più. «Sai chi è?»
«Lasciami.»
«Sai chi è?» ripeté con un ringhio.
«Cosa importa?»
«Importa.»
«Non-»
«Shoftiel. Troverai il suo nome in almeno metà dei processi più recenti.» le strattonò i capelli per costringerla a guardarlo negli occhi «Un semplice angelo che, non potendo diventare Censore, ha sfogato la sua frustrazione accusando decine e decine di compagni al minimo errore. E non serve che ti dica quanto è clemente la giustizia del Paradiso, vero?»
Non le importava. Aveva di fronte agli occhi l’immagine del suo corpo dilaniato, gli schizzi di sangue bianco sul terreno, i suoi disperati tentativi di liberarsi; udiva ancora i suoi rantoli di sofferenza. Era così sbagliato, così crudele torturarlo in quel modo. Era peggio del gatto, infinitamente peggio, e faceva male e schifo e paura, le tremavano le ginocchia e le affioravano singhiozzi convulsi alle labbra. Non le importava chi fosse, quello che Michael gli aveva fatto era comunque terribile. Terribile e agghiacciante.
«Avrebbe potuto accusare anche Anane, sai. E potrebbe accusare te, ora che ci ha visti, se non risolviamo la cosa. Vuoi farti condannare perché provi pietà di una serpe?»
«Risolvere la cosa...» mormorò, benché il riferimento a sé stessa e ad Anane l’avesse resa molto meno comprensiva verso l’angelo «include torturarlo?»
«Per sapere se ha avvisato qualcuno, sì. Mi servono informazioni.»
«E devi raccogliere proprio... proprio così?»
«Ti accuserebbe di lascivia con un caduto.» le ringhiò, affondando con violenza le unghie nelle sue braccia «Anche se non c’è stato nulla, lui lo farebbe. Sai qual è la condanna, vero?»
Il terrore la stordì, perché lo sapeva e il solo pensiero era orrore puro, che non le permise nemmeno di rispondere. C’era solo una preghiera, un ‘no’ sussurrato, singhiozzato, urlato dentro di lei, dalla parte della sua mente più disperatamente aggrappata alla vita.
«Il Ritorno. E non ho la minima intenzione di permettertelo.» si chinò si di lei, fino a sibilare ad un soffio dalle sue labbra: «Mi hai già fatto aspettare abbastanza.»
«...mi fa male. Mi fa male vederlo così, io non... non ce la faccio.»
«Chiudi gli occhi, allora.»
La lasciò e lei, non più sostenuta dalla sua stretta, scivolò a terra. Non aveva nemmeno la forza di parlare: si limitava a fissarlo, implorante, no, no, non farlo, non tornare lì, rimani, non tornare lì. Ti prego, non farlo, mi fa male, mi fai male. No, no, ti prego.
«Chiudi gli occhi.» le ripeté, gli occhi grigi fissi su di lei, che sembravano l’acciaio di un’arma affilata, tagliente – un’arma fragile e sottile da guerriero stanco, però.
Stanco di lei, perché lei era ignoranza, debolezza, emotività. Lacrime. Urla. Paure. E ancora cercava un modo di farla restare in Paradiso, di non esporla troppo presto alla guerra che andava germogliando nella dimensione umana.
Lasciò crollare il capo, sconfitta, premendo la fronte contro le ginocchia. I capelli sciolti e scompigliati le ricaddero ai lati del viso come onde nere, oscurandole la vista; il nastro bianco che li aveva trattenuti nella treccia abituale doveva giacere a qualche passo di distanza, dove Michael l’aveva abbandonato. Inspirò tremante l’aria fresca della notte, pregna di odore di erba e di terra arida e di sangue, intenso, disgustoso, vagamente dolciastro. Smise di nuovo di respirare, ma le era rimasto nelle narici e nella testa e non riusciva a farlo andare via; e, tra le ciocche di capelli, si apriva come uno squarcio candido la vista delle macchie sul terreno.
L’angelo, poco lontano, rantolava.
«Chiudi gli occhi.»
Dopo quell’ordine, ripetuto in tono quasi stanco, tra i capelli intravide anche l’ombra densa di Michael che si spostava lentamente, intrecciandosi con quelle degli alberi. La sua sagoma che si chinava su qualcosa che, grazie Dio grazie, non riusciva a vedere. Udì ringhi, urla, domande, rantoli; e gli schizzi sul terreno aumentavano sempre di più, sempre di più, ferendola come lame bianche e crudeli.
Chiuse gli occhi.

* * *

Sachiel ricordava Khamiel con mesta precisione. Era un Guardiano alto, robusto, dall’aspetto poco rassicurante; la sua espressione poteva variare da una rarissima neutralità, nei momenti di buon umore, ad una assai più frequente minaccia, e non si distendeva mai in un sorriso che non fosse un ghigno sarcastico e preoccupante. Molto preoccupante.
Non il genere di persona che qualcuno avrebbe reputato adatta all’insegnamento, in sintesi, come sottolineavano le occhiate compassionevoli riservate dagli adulti ai suoi allievi; e, nonostante il dovuto rispetto che gli portava, Sachiel non poteva biasimare troppo quegli sguardi. Non che avesse l’autorità di farlo, ben inteso, ma se anche avesse potuto se ne sarebbe astenuta.
L’atteggiamento della sua maestra poteva dirsi spontaneo e confidenziale, in confronto a quello di Khamiel, e ciò era sufficiente per provare compassione nei riguardi dei – pochi – Cherubini che erano sotto la tutela dell’arcangelo. Non più di una quindicina, valutò con un’occhiata, poiché a lui venivano affidati solo i più promettenti, per spremere da loro qualsiasi goccia di energia e talento.
In bilico sui rami più robusti per non sporcarsi di erba e terriccio, seguivano la lezione con concentrazione angosciosamente palese, perché Khamiel non pensasse che fossero disattenti; solo i più arditi o i più stanchi osavano gettare brevi occhiate verso di lei, unico cherubino tra i Custodi e i Guardiani che li sorvegliavano. Dal saluto dell’insegnante l’avevano identificata come una precedente allieva e, per questo, i loro sguardi si erano accesi per un attimo di interesse e speranza – se era sopravvissuta lei, potevano farcela anche loro; e sì, sapevano che in molti avevano superato più o meno indenni la sesta classe sotto Khamiel, ma vederlo era un’altra cosa. Curiosamente non avevano bisogno di prove, invece, per tremare al racconto di Cherubini crollati sotto l’estenuante peso della severità dell’arcangelo. A quel ‘crollati’ non si dava mai un significato preciso, perciò non sapevano se s’intendesse stancati fino a logorare anche l’essenza o... forse pensare a degli allievi morti era un po’ eccessivo, ma chi poteva dirlo?
Sachiel un morto – il morto, più precisamente, che nei racconti poi si era moltiplicato fino a diventare due e cinque e dieci – lo aveva visto, alla fine della sesta classe. Non intenzionale, certo: Khamiel era severo, non stupido, e non avrebbe mai spinto un cherubino oltre i suoi limiti. Il problema sussisteva, però, nel fatto che era l’arcangelo a valutare i limiti del cherubino – un arcangelo molto esigente e, soprattutto, adulto da troppo tempo per ricordare come fosse fragile il corpo degli infanti. Quella che doveva essere un’esercitazione per i migliori tra i migliori, gli allievi più promettenti di quelli già affidati al maestro più capace, si era trasformata in un massacro: un attacco improvviso dei Caduti, pochi adulti sul luogo, i portali per tornare in Paradiso troppo lontani. Lei era stata inclusa nell’esercitazione perché stava per essere promossa, non per un reale talento che giustificasse la sua presenza lì: gli altri quattro Cherubini, seppur più immaturi, erano di gran lunga più capaci. Ironicamente, l’unica a tornare in Paradiso quasi indenne era stata proprio lei, ma non prima di aver visto un compagno tramutarsi in cenere, morto, sotto i propri occhi inorriditi. Questo, insieme a tre feriti gravi, aveva reso chiaro a Khamiel quanto avesse sopravvalutato i suoi allievi; le conseguenze, poi, gli avevano lasciato una cicatrice alla schiena e l’intenzione di non ripetere mai più l’errore.
Ma, nonostante la sua essenza non si fosse estinta per volere dell’arcangelo, il morto restava morto. Non si poteva biasimare l’inquietudine dei Cherubini sotto la sua guida.
Non si poteva biasimare nemmeno l’apprensione con cui Khamiel vigilava sui suoi allievi nella dimensione umana, però, nonostante fosse ritenuta eccessiva da molti – da chi non aveva mai visto la cicatrice che gli deturpava il corpo dalla scapola destra al fianco sinistro, o quella ancor più spaventosa che gli sfigurava l’essenza; perché solo segnando questa per sempre si potevano sfregiare le loro carni immortali, e ciò era un avvenimento tanto raro quanto raccapricciante.
Sachiel, che vedeva le essenze con una precisione quasi pari a quella con cui poteva osservare il mondo materiale, provava di fronte a quell’apprensione una comprensione rispettosa e pietosa insieme, badando però a mostrare solo il rispetto; e non si stupiva che Khamiel fosse rimasto così irritato dal trovare senza preavviso un’allieva sconosciuta nel suo gruppo, un istante prima di discendere nella dimensione umana. Se avesse potuto permettersi una simile mancanza di rispetto nei confronti di un’Autorità, Sachiel avrebbe pensato che la sua maestra non aveva scelto il momento migliore per spostare il cherubino in quel gruppo.
Sperava solo di non dover comunicare di persona a Khamiel che, presa in consegna la sua nuova allieva, avrebbe ignorato le sue disposizioni per metterla alla prova in altri modi a cui, onestamente, non aveva ancora pensato. Un Custode o un Guardiano avrebbe potuto riferirgli la notizia senza correre il rischio di subire uno dei suoi temuti scoppi d’ira.
A quanto sembrava dall’espressione minacciosa dell’arcangelo, la prima vittima non sarebbe stata comunque lei, ma un allievo che non stava concentrando ogni sua più intima energia nel prendere appunti con la dovuta alacrità. Il fatto che stesse sfregando la punta della matita sulla carta ruvida per affilarla non importava: la mente di Khamiel, evidentemente, registrava solo che il cherubino non stava scrivendo. Quello dovette percepire il suo sguardo, perché si affrettò a riporre la carta ruvida nella borsa per tornare ai suoi appunti con zelo encomiabile. La voce dell’insegnante divenne all’improvviso vibrante, irritata: non aveva ancora raggiunto il limite, ma mancava poco, e – benché questo fosse un ulteriore incentivo per gli allievi a mantenere una condotta irreprensibile – Sachiel dubitava che sarebbero sfuggiti alle ire di Khamiel.
«Credo che la lezione durerà ancora per un po’. Non è mai un bene affrettare le spiegazioni sugli Umani e sulla morale.» le disse una Custode, accovacciata su un ramo poco lontano, in tono vagamente materno «La zona è ben presidiata; puoi allontanarti senza pericolo e tornare tra un paio di tramonti, se ti annoi.»
Ringraziò e declinò l’offerta con la dovuta cortesia, affermando che non si stava affatto annoiando, poiché quegli argomenti la interessavano sempre; il che avrebbe anche potuto essere vero, se non avesse dovuto seguire quelle lezioni decine e decine di volte, al punto che avrebbe potuto ripeterle a memoria senza difficoltà. Ma la sua maestra le aveva ordinato di recarsi lì e una Custode non aveva l’autorità di dispensarla da quel compito: assentarsi, seppur per breve tempo, le sarebbe parso un tradimento della promessa fatta all’insegnante, e se Sachiel temeva qualcosa con tutta sé stessa era di perdere la sua fiducia così faticosamente guadagnata. La gratitudine che doveva a Leliel era troppa per permetterle una disobbedienza – per concepire una disobbedienza. Sarebbe rimasta lì ad annoiarsi finché fosse stato necessario.


Non lo fu per molto ancora. Nonostante le previsioni della Custode, un’alba un po’ nuvolosa giunse a rischiarare il cielo – quel cielo che le piaceva tanto guardare, di giorno, quando assumeva il colore dei suoi occhi – e Khamiel smise di spiegare, ritenendo di aver ripetuto abbastanza gli stessi due o tre concetti sulla debolezza degli Umani, sulla compassione degli Angeli e sulla mostruosità degli Sconsacrati. Non concesse ai Cherubini di rilassarsi, ordinando loro di prepararsi all’arrivo degli allievi del ciclo superiore, per la seconda parte della lezione; alle parole ‘Percezioni’ e ‘anime’, Sachiel poté giurare di aver visto almeno metà del gruppo curvare le spalle, già esausto, e provò per loro un misto di compassione e divertimento.
Essere al ciclo superiore era decisamente piacevole, convenne tra sé e sé.
Lo fu un po’ meno quando dovette avvicinarsi, balzando da un ramo all’altro, all’imponente figura di Khamiel, e ancor meno nel comunicargli il proprio compito. Ogni traccia di piacevolezza scomparve del tutto quando, sotto il suo sguardo adirato, rifiutò la scorta di un Custode: la sua maestra si era raccomandata la massima discrezione, non voleva offenderlo o respingere la sua generosa offerta, ma non poteva davvero disobbedire agli ordini dell’Autorità.
Benché non fosse particolarmente minuta, in confronto alla mole dell’arcangelo si sentiva insignificante e vulnerabile; così vulnerabile che, non appena lui glielo permise, si precipitò dall’allieva affidatale e fu sul punto di afferrarla per un braccio e trascinarla malamente, pur di allontanarsi il prima possibile. L’ira di Khamiel le aveva lasciato ricordi tutt’altro che piacevoli e anche allora, ormai quasi adulta, preferiva evitare di ripetere l’esperienza.
Il cherubino non sembrò comprendere quell’urgenza, perché la seguì in volo con irritazione malcelata, e non prima di aver salutato Khamiel e gli altri Guardiani con frasi quasi ossequiose. Se cercava l’approvazione dell’insegnante, aveva davvero sbagliato metodo: l’arcangelo detestava gli adulatori con fervida intensità, ma ancor di più detestava chi non portava rispetto ai Custodi, che tra le proprie file includevano anche la sua compagna – forse proprio la donna che le aveva dato il permesso di andarsene, rifletté Sachiel distrattamente, scorgendo i due parlare con familiarità. Non che le interessassero particolari di questo tipo; non sapeva nemmeno come fosse venuta a conoscenza della relazione tra Khamiel e una Custode, in effetti.
Forse avrebbe dovuto metterne al corrente l’altro cherubino, perché non incorresse nella temibile ira dell’insegnante, pensò. Poi si accorse dell’aria di superiorità e fastidio con cui quella la fissava e si disse che, in fondo, imparare l’umiltà a proprie spese avrebbe potuto giovarle.
Ancora non sapeva se Cassiel avesse capacità degne di un allievo del ciclo superiore, ma di certo ne aveva l’alterigia.

* * *

Aveva chiuso gli occhi e premuto le mani sulle orecchie pur di non sentire e non vedere, ma sapeva che erano lì, a pochi passi da lei, rantoli e ringhi e urla e carne dilaniata, così vicini che le sembrava di avvertire il tepore del sangue, il suo odore dolciastro. Si era rannicchiata con un fianco contro l’albero, dando le spalle a quell’orrore e artigliandosi i capelli con le dita; nel farlo le unghie le erano strisciate sul collo, proprio nel punto in cui le dita di Michael avevano stretto fino a incidere la pelle, e un rivolo bianco aveva ripreso a scorrere sul suo corpo, gola clavicola seno, ma poi lei l’aveva asciugato con un gesto rabbioso prima che raggiungesse il ventre, perché il sangue le faceva schifo e non voleva avercelo addosso.
Ce n’era già abbastanza sul terreno.
E poi la stanchezza l’aveva vinta, tentandola con il suo pacifico nulla: si era lasciata scivolare nel sonno, i muscoli sempre più rilassati, la mente immersa nell’oblio.
Rinvenne dopo un tempo che non seppe quantificare, quando due mani piccole e tiepide le accarezzarono gentilmente il viso. Aprì gli occhi, priva della difficoltà che accompagnava – secondo ciò che aveva accennato la sua insegnante – il risveglio degli Umani, per vedere alla luce del giorno un sorridente – ghignante – viso di bambino ad un soffio dal suo; dopo qualche istante comprese che era il corpo posseduto da Eisheth. Non si era nemmeno accorta del suo arrivo.
«Oh, mia cara, finalmente.» ridacchiò il demone «Temevo che non ti svegliassi più.»
«Anane?»
«L’ho lasciata con Sephon. Non voglio che si avvicini a certa feccia.» indicò alle sue spalle con espressione disgustata «Ti porto i suoi saluti, se ti consola.»
Feccia. Un collaboratore dei Censori, che si assicurava che tutto andasse secondo la morale. Chi veniva condannato lo era, non certo chi accusava; e, se fino a poco tempo prima lei non si era sentita tale, dopo aver chiuso gli occhi e ignorato quell’orrore non poteva più dirsi certa di non essere feccia. Anzi.
Lasciò ricadere la testa sulle ginocchia, trattenendo a malapena un singhiozzo. Non aveva nemmeno il coraggio di voltarsi, di cercare Michael e vederlo sporco di sangue, sangue dolce, sangue angelico, sangue di chi l’aveva cresciuta, sangue come il suo. Non le importava nemmeno sapere cosa avesse scoperto, voleva solo chiudere gli occhi e dimenticare. Ignorare tutto, come aveva fatto sino a quel momento, rendendosi complice.
Quel pensiero le provocò un altro singhiozzo.
«Su, su, cara, non fare così. Sei davvero irritante.»
Eisheth si portò alle sue spalle e le sfiorò la base delle ali in un gesto materno; poi, preso un laccio da una tasca, le raccolse i capelli in una coda morbida. Sarebbe persino parsa rassicurante, se non avesse continuato a ridacchiare tra sé e sé.
«Shoftiel non ha comunicato a nessuno i suoi sospetti su Anane... molto da lui. Avrebbe dovuto dividere la gloria con qualcuno, altrimenti. La sua ambizione gioca a vostro favore, sì? Non c’è nulla di cui preoccuparsi.»
Il demone sembrava sapere perfettamente che non stava singhiozzando per la preoccupazione. Subito aggiunse, infatti, con un ghigno più ampio degli altri: «Ora dobbiamo solo trovare il modo di eliminarlo. Hai mai visto un’essenza estinguersi, cara? Sono certa che ti piacerà, è spetta-»
«Eisheth.»
Il ringhio di Michael fu un balsamo, dopo le continue risatine acute del demone. Amitiel lo accolse rialzando di scatto la testa per guardare sopra di sé, ma se ne pentì con un brivido: il volto del caduto era contratto per la rabbia, gli occhi ancora neri, il corpo lambito da sottili fiamme scure per l’essenza che si concretizzava, nutrita dalla rabbia. E sangue, sangue sulle sue mani, sangue sul suo corpo, sangue ovunque, ma lui ignorava il dolore e nemmeno tamponava quel liquido bianco che, per gli Sconsacrati, doveva essere bruciante quanto l’Espiazione. E sangue nero, anche, sulle unghie irregolari e scheggiate.
«Oh, tesoro, hai finito di strapazzare la povera Liwet?» gli chiese Eisheth, leziosa, ignorando la sua occhiata furiosa «Povera cara, non poteva sapere che Shoftiel avesse deciso di fare una visitina qui, sì? La sua Influenza è stata discreta, sui Custodi di cui era a conoscenza. Non buona quanto la mia, certo,» fece schioccare la lingua sul palato, pensierosa «ma comunque degna di nota, considerando che si è sviluppata da poco. Così giovane... era appena due classi avanti a Sa-»
«Eisheth.»
«Sì, sì, taccio, come vuoi.» annuì con espressione beffardamente contrita, salvo poi riprendere dopo pochi istanti: «Oh, non indovinerai mai chi ho visto venendo qui!»
Michael non diede segno di interessarsene.
«Non ci provi nemmeno? Dai, fa’ contenta tua madre, almeno un nome!»
«Eisheth
«Tesoro, è scontato che io mi sia vista venendo qui.» fissò i grandi occhi infantili su Amitiel «E tu, mia cara, non vuoi provare a indovinare?»
«Basta!»
Le fiamme nere che lambivano il corpo del caduto si estesero e Amitiel si ritrasse di scatto, spaventata, per non esserne sfiorata. Erano terribilmente simili all’Espiazione e, benché con ogni probabilità non fossero tanto dolorose, preferiva non rischiare.
«Proprio nessuno vuole indovinare? E va bene...» la falsa espressione di delusione fu sostituita da un ghigno eccitato «Tuo padre, ci crederesti? Pensavamo tutti che avesse smesso di insegnare, dopo quell’incidente, sì? E persino il padre di Anane!» batté le mani, entusiasta «E sua-»
«Madre
Eisheth sembrò soddisfatta.
«Vuoi che vada da Liwet, caro? Ha sempre idee brillanti, potrebbe risparmiarmi il tedio di pensare al modo di sistemare questa situazione, sì? Non vorrei mai che la tua cara Amitiel si trovasse in pericolo. E mia figlia, non dimentichiamoci di lei.»
Scoccatagli un’occhiata che Amitiel non seppe interpretare, Eisheth tornò indietro saltellando, senza attendere risposta. Il cherubino voltò istintivamente il capo per seguirla con lo sguardo; tentando di ignorare – ignorare? No, no, non poteva davvero ignorarlo, era terribile, faceva schifo – il corpo straziato a terra, abbandonato come una bambola divenuta inutile, incontrò la figura di colei che doveva essere Liwet. La prima parola che le associò fu ‘morbida’, perché la bassa statura la faceva apparire più robusta di quanto già la rendesse una lieve pinguedine, data probabilmente da un’essenza fin troppo florida; ma non se ne ricavava un’impressione sgradevole e, anzi, Amitiel avrebbe potuto trovarla rassicurante, se uno squarcio non le avesse lacerato il viso dallo zigomo alle labbra.
Sangue nero colava copiosamente, imbrattandole il collo e i capelli castani, eppure non sembrava esserne colpita: si limitava a rimanere immobile, attendendo che Eisheth la raggiungesse con la sua andatura saltellante, senza dar segno d’inquietudine o di dolore. Addirittura le sorrise, accorgendosi del suo sguardo, riuscendo a sembrare benevola anche con quella ferita a deturparle i tratti morbidi del viso.
«Posso avere l’onore della tua attenzione?» la riscosse Michael, irritato.
Alzando il viso verso l’alto per guardarlo, notò che le sottili fiamme nere erano del tutto scomparse – blanda rassicurazione che non diminuì l’orrore per il sangue che gli imbrattava il corpo. Quando lui allungò una mano, Amitiel si ritrasse di scatto, tremando, perché se aveva fatto quello chissà di cos’altro poteva essersi macchiato, e senza il minimo rimorso, senza la minima esitazione, e chissà cosa avrebbe potuto fare a lei, e ad Anane, e...
...e l’aveva fatto per lei, perché altrimenti sarebbe stata accusata e condannata. Per lei. Una sottile lusinga si aprì uno spiraglio tra l’orrore, abbastanza a non farla più ritrarre quando, lo sguardo furioso ma le mani ripulite sugli abiti, Michael la afferrò per un polso e la strattonò per farla alzare in piedi.
Le fece male. La sua pelle inviò un fremito di dolore, tanto intenso da lasciarla per un attimo annichilita, perché sulle dita del caduto erano rimaste tracce nere e gelide, di quel gelo che sembra mordere e bruciare anche le ossa. Come il loro primo contatto, ricordò; no, quello era stato peggio, con la mano di Michael a serrarle la gola e le fiamme a divorarla dentro, ma anche questo era doloroso, tanto, troppo, e un singhiozzo le sfuggì senza che neppure provasse a reprimerlo.
«Non osare piangere.» ringhiò il caduto «Sei già abbastanza patetica.»
Le lasciò il polso, ma solo per passarle il braccio attorno ai fianchi e stringersela contro. Amitiel sibilò di dolore e ribrezzo, le braccia nude a contatto con il tessuto intriso di sangue, la fronte premuta contro il collo gelido del caduto. Gli spinse le mani contro il torace, inutilmente, mentre i singhiozzi divenivano più frequenti.
«Non piangere.» le ripeté, in un tono quasi stanco, che più che un ordine sembrava una richiesta.
«Lasciami.»
In risposta, la strinse di più. Alla lieve lusinga si aggiunse un languore strano, che dilagava nel ventre in onde lente e tiepide; paradossalmente – o forse coerentemente con il gelo del caduto – rabbrividì. Le piaceva quel contatto, nei brevi istanti in cui l’orrore cedeva il passo ad altre sensazioni. I muscoli compatti del torace sotto le proprie dita, il respiro freddo che le lambiva un orecchio, le ali di cui avvertiva la presenza ad un soffio dalla pelle, il braccio che le cingeva i fianchi quasi con violenza.
Gli occhi grigi che la fissavano, furiosi e annebbiati da qualcosa che, forse, era ciò che stava pervadendo anche lei.
Michael era crudele. Spietato. Glorioso, si ritrovò a pensare. Glorioso. E quello che aveva fatto l’aveva fatto per lei. Per lei. Quanti altri, nella sua breve vita, le avevano prestato un’attenzione simile? Quanti l’avevano stretta e si erano chinati a sfiorarle l’orecchio con le labbra e l’avevano guardata? Non vista, non scorta, non esaminata con freddezza, ma guardata, con uno sguardo così intenso da farla rabbrividire.
Lo voleva. Era un bisogno di cui non comprendeva il senso, o le implicazioni, ma c’era. Il desiderio di toccarlo e lasciarsi toccare, pelle e muscoli e la mano che le stringeva il fianco e occhi e respiro e... e quel languore intanto minacciava di divorarla, sarebbe morta nel calore che dilagava nel ventre e nel brivido che le scuoteva la schiena e le ali.
E all’improvviso non importava più del sangue e del tradimento e della sua complicità in quell’orrore, e neanche di Eisheth a pochi passi da loro e di Anane e del Paradiso e di tutto il resto, lo voleva ed era una sensazione così nuova e così intensa da inghiottire ogni altra cosa e non permetterle nemmeno un pensiero coerente. Importava solo il torace contro cui era premuta – a cui si aggrappava –, la mano sul suo fianco e l’altra che era risalita a stringerle i capelli, il respiro gelido che le sfiorava il viso, lo sguardo grigio che la trafiggeva. Importava solo lui.
«Chiudi gli occhi.» le ordinò, roco.
Obbedì.





***
Angolo autrice
Sì, so che sarete tutti in preda allo shock. Questo capitolo contiene una spaventosa rivelazione.
Gli Angeli non usano i temperini.
*tossicchia* Bene, dopo aver concesso la dovuta attenzione alla carta ruvida con cui il povero allievo di Khamiel stava temperando la matita, torniamo alle cose serie. Grazie come sempre a chi ha inserito la storia in una delle tre liste e un ringraziamento particolare a chi commenta (:
Questo capitolo potrebbe partecipare alle fiere del "Scene con personaggi secondari che sembrano inutili ma inutili non sono" e del "Interrompiamo sul più bello". E ora lascio voi, 
Amitiel "Finalmente il corpo si dà una svegliata" e il povero Michael "Trattieniti o le fai una lezione di anatomia in pubblico" in attesa del prossimo, non avendo particolari appunti su questo.
A domenica! (:
   
 
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