“Write me a paper,then.”
“Ok, about what?”
“History. Pick a topic, keep it local and no Wikipedia
regurgita. These old towns have a lot of rich history, so…Just get your hands
dirty, make it sing and you’re back on track. Deal?”
“Yeah,deal!”
Episode 1x09. History Repeating
Chapter 8.
History Repeating.
Well I know the feeling
Of finding yourself stuck out on the ledge
And there ain't no healing
From cutting yourself with the jagged edge.
Lullaby.
Nickelback
Il telefono squillò a vuoto diverse volte, prima che
Tyler avvertisse dall’altra parte del ricevitore la voce della segreteria
telefonica. Inspirò profondamente, continuando a camminare avanti e indietro
lungo il corridoio, lo sguardo teso, pronto a scattare alla minima fonte di
rumore. Si decise a lasciare un messaggio in segreteria, la voce scalfita da
una nota di esitazione.
“Caroline… sono Tyler.” inspirò a fondo una seconda
volta, prima di proseguire. “Stai bene?”
Una porta si aprì alle sue spalle; si affrettò a
voltarsi, osservando poi con delusione due infermieri attraversare il
corridoio: la porta della sala operatoria era ancora chiusa. Appoggiò la
schiena al muro e riprese a parlare al cellulare.
“Ascolta… ho bisogno che tu mi raggiunga in ospedale
il prima possibile. Passa di qui non appena ricevi il messaggio. Fa’ in
fretta.” aggiunse. Chiuse la chiamata e si cacciò nuovamente il cellulare in tasca,
lo sguardo a interrogare in silenzio la porta della sala operatoria. Più i
minuti scorrevano e più si trovava a desiderare che non si aprisse mai; era ansioso
al pensiero di quello che avrebbero potuto comunicargli i medici. Voleva
starsene lì, dove ancora poteva aggrapparsi a qualche brandello di fune
sfilacciata per evitare di cadere a terra. Lì, dove se ne stavano i codardi,
incapaci di mettersi in gioco quando a sfidarli erano le loro paure più grandi.
Lì, dove suo figlio Mase sarebbe rimasto per sempre un ragazzino spaventato: ma
nulla di più.
Appoggiò anche la testa al muro, incrociando le
braccia al petto. Le iridi scure dell’uomo fulminarono la porta della sala
operatoria ancora una volta, prima di saettare verso le scale, riconoscendo i
passi affrettati di due persone.
“Papà!”
Si irrigidì, nell’avvertire quel tono di voce. Ricki
camminava con andatura incerta, lo sguardo stralunato e l’aspetto scomposto di
chi è stato appena scrollato con forza, dopo aver avuto un incubo. Jeffrey
camminava al suo fianco.
“Papà, che succede?”
“Vai a casa, Ricki.”
Le iridi scure di Tyler si scontrarono con quelle
identiche del figlio e le fulminarono con aria di ammonimento. Ricki non lo
ascoltò.
“Ha appena chiamato Vicki.” continuò imperterrito
guardandosi intorno, come se stesse cercando qualcuno. “Un incidente... ha
detto… ha detto che c’è stato… dov’è Mase? Papà, dov’è…”
“È a casa. Sta bene.”
Lo interruppe bruscamente il padre, spezzando
l’incontro fra i due sguardi. “Vacci anche tu. Anzi, resta a dormire da Jeffrey
per questa notte. Guida tu.” aggiunse, rivolgendosi all’altro ragazzo che
annuì, afferrando l’amico per un braccio.
“Andiamo…” comunicò a Ricki, che tuttavia non si
mosse.
“Se Mase è a casa, come mai sei qui?” domandò
ancora, liberandosi dalla presa di Jeff. Tyler sbuffò, lo sguardo
improvvisamente più vivo, più brusco.
“Ho investito qualcuno.” ringhiò in tono di voce
meno fermo, ricambiando l’occhiata decisa del figlio. “Lo stanno operando,
adesso vai e resta dai Donovan fino a quando non ti richiamo io.”
“Ricki, muoviti…” cercò di convincerlo l’amico,
notando con nervosismo l’espressione adirata di Tyler. Lo tirò una seconda
volta per il braccio, ma Ricki si liberò dalla sua presa.
“Chi hai investito? Papà, è successo qualcosa!”
riprese, appoggiandogli le mani sulle spalle, per poi sostenere il suo sguardo
con espressione preoccupata. “Quel mal di testa strano, è successo anche a te,
vero? E a Mase? Mase sta…”
Tyler si passò una mano sul viso, riprendendo a
inspirare con forza. Ricki arretrò, indugiando sulla venatura di rabbia che
aveva preso a illuminare i suoi occhi.
“Ha bevuto troppo…” lo giustificò Jeff, afferrandolo
per il braccio e strattonandolo all’indietro. Ricki scosse il capo, allarmato
dall’eccesso di collera del padre.
“È successo qualcosa a mio fratello.” intuì,
mormorando la frase a mezza voce. Improvvisamente si sentì stanco; stanco e
pesante. Aveva attraversato l’ospedale di corsa senza mai vacillare, ma in quel
momento si sentì piombare crollare addosso tutto quello che gli era accaduto
nel corso della sera; l’eccesso di alcool, il mal di testa improvviso, la
chiamata di Vicki, la paura che aveva avuto. Tutto.
Sollevò il capo in direzione del padre e si accorse,
con paura, che il suo sguardo riluceva di rabbia. Di rado l’aveva visto così in
collera. Arretrò d’istinto.
“Ricki, cristo, fuori di qui.” ringhiò ancora una
volta Tyler, indicando le scale con un gesto fermo del braccio. “Se me lo fai
ripetere ancora una volta, giuro che fuori ti ci mando io!”
Ricki annuì. Gli rivolse un’ultima occhiata
apprensiva e gli diede le spalle, allontanandosi con Jeffrey al seguito. Tyler
sospirò, recuperando con calma il controllo su se stesso. L’eccesso di rabbia
sfumò lentamente nella stanchezza mista a nervosismo che gli aveva fatto
compagnia per i venti minuti di veglia precedenti all’arrivo del figlio. Stava
cercando una sedia, quando il cellulare incominciò a vibrare. Lo estrasse in fretta
dalla tasca e controllò rapidamente il display: era sua moglie.
“Ehy…” il timbro pacato della voce di Lydia riuscì
a lenire in parte la sua rabbia “Hai parlato con Caroline?”
“Ha il cellulare spento…” rispose Tyler, tornando a
fissare la porta della sala operatoria. “Penso si sia sentita male anche lei.”
“Ha chiamato proprio adesso Elena. Caroline è a casa
sua con Liz e Matt, Elena lo sta chiamando per avvertirli; Caroline arriverà
presto.”
Tyler annuì. Esitò un istante, prima di rivolgersi
nuovamente alla donna.
“Mase sta bene?” domandò a quel punto.
“È qui vicino a me.” rispose Lydia. “Gli vuoi
parlare?”
Tyler si irrigidì. Strinse con più forza il
cellulare, cercando di convincersi a parlare con il figlio, ma alla fine ci
rinunciò.
“Digli che andrà tutto bene.” si limitò a
comunicare, posandosi stanco una mano sul volto.
Mi dispiace, aggiunse
mentalmente in silenzio, prima di chiudere la chiamata.
And
you can't tell
I'm scared as hell
Cause I can't get you on the telephone
Lullaby.
Nickelback
***
Fell attraversò in fretta la strada per raggiungere
il luogo dell’incidente, l’espressione guardinga a esaminare la macchina che
aveva causato il tutto, il cellulare appoggiato all’orecchio.
“Sì, sono già qui.” spiegò al suo interlocutore,
sorvolando sul motivo per cui avesse impiegato così poco a raggiungere quella
zona. “Ero sulla strada.” si limitò ad aggiungere, camminando vicino alla
macchia di sangue di fronte alla vettura. “Chi è stato investito?”
“Un certo Jerome Clay.” comunicò il suo collega dall’altro
capo del ricevitore. Fell fece una smorfia incredula.
“Il vagabondo?” sbottò spiccio, scoccando
un’occhiata di sfuggita alla sua auto: si assicurò che la scatola recuperata
dai Lockwood non fosse individuabile, sbirciando attraverso il finestrino.
“Sì, è un senzatetto che bazzica spesso da quelle
parti.” confermò l’altro. “Diciamo che in parte se l’è cercata, era
completamente ubriaco.”
“È morto?” domandò a quel punto Fell, frugandosi in
tasca con la mano libera alla ricerca di una sigaretta.
“Non ancora.” dichiarò il collega con un barlume di
esitazione, mente controllava gli ultimi messaggi che gli erano arrivati. “Lo
stanno operando, ma a quanto pare è davvero mal ridotto.”
“Chi ha causato l’incidente?” chiese ancora lo
sceriffo, analizzando la vettura ferma in mezza alla strada con una punta di
sospetto nello sguardo: conosceva quella macchina.
“Ah, non ci crederai mai.” ribattè il suo interlocutore,
facendo una pausa, per fomentare la curiosità dell’altro uomo. “Tyler
Lockwood.” dichiarò infine.
Fell si fermò di scatto.
“Lockwood?” sbottò di rimando. Tacque un istante,
per ascoltare le parole del collega dall’altro capo del ricevitore.
“Proprio così. Stava portando a casa il figlio da
una festa e pare che Clay sia sbucato fuori all’improvviso.”
La sua espressione inquieta, venne d’un tratto
velata un alone di consapevolezza.
“A che ora è successo tutto questo?” domandò in
fretta, spostando lo sguardo in direzione della tenuta dei Lockwood. Sorrise in
maniera appena percettibile, quando il collega gli comunicò la sua risposta.
“Saranno stati quaranta, quarantacinque minuti fa.”
Fell ignorò la sfumatura di incertezza nel tono di
voce dell’uomo e fece rapidamente mente locale: l’orario coincideva, bene o
male, con il momento in cui la figlia dei Donovan lo aveva sorpreso nel cortile
dei Lockwood. Che il dispositivo avesse funzionato sul serio? In tal caso, se
Lockwood ne era rimasto affetto, significava che le ricerche di Bill Forbes
erano corrette? I Lockwood erano oppure no afflitti da una maledizione?
“Qualche testimone, oltre al ragazzo e a Clay?”
chiese ancora una volta, tornando a dirigersi in direzione della sua macchina.
“Nessun testimone.” ribattè pronto il suo
interlocutore. “Il resoconto di Lockwood regge, comunque. Clay
non ha attraversato sulle strisce e gli è andato addosso.”
“Era sicuramente oltre i limiti di velocità…”
obiettò ancora Fell, scoccando un’ultima occhiata pensierosa all’auto di Tyler.
Il collega esitò un attimo, prima di rispondere.
“Mi dispiace.” commentò infine, mentre lo sceriffo
si affrettava a recuperare le chiavi della sua auto. “Non so proprio dirti di
più.”
Si salutarono e Fell chiuse la chiamata. Una volta
entrato in macchina si chinò per recuperare la scatola che aveva infilato sotto
uno dei sedili; ci sbirciò dentro, rimuginando sull’incidente. A quanto
scriveva Forbes nelle sue ricerche, per scatenare la maledizione dei Lockwood
era necessario compiere un omicidio. Né lui, né gli altri membri del Consiglio
erano riusciti a verificare se Tyler Lockwood avesse mai provocato la morte di
qualcuno. A quel punto, l’unica cosa che potevano fare era attendere: se Jerome
Clay fosse morto quella notte in ospedale, investigare sul passato di Lockwood
non sarebbe più stato necessario.
***
Please
let me take you
Out of the darkness and into the light
Cause I have faith in you
That you're gonna make it through another night
Lullaby.
Nickelback
Lydia appoggiò il cellulare sul comodino,
lasciandosi sfuggire un sospiro. Si sedette sul letto del figlio minore e
appoggiò con tenerezza una mano sul capo del ragazzo, per fargli una carezza;
Mason non reagì. Rimase immobile, ancora rannicchiato su un fianco, lo sguardo
impassibile puntato contro il muro. Tremava.
“Hai freddo, tesoro?” domandò la donna, accentuando
la preoccupazione sul suo volto. “Fammi controllare il taglio sull’occhio.”
Si chinò leggermente, per esaminare la fronte del
ragazzo; durante l’urto contro il volante, Mase si era provocato un taglietto
all’altezza del sopracciglio. Era una ferita superficiale, risolta con pochi
punti e un paio di raccomandazioni da parte degli infermieri. Mason aveva
voluto lasciare l’ospedale il prima possibile e non appena arrivato a casa era
corso a rifugiarsi in camera sua; non si era mosso da allora. Se ne stava in
silenzio e, di tanto in tanto, tirava su col naso. Lydia aveva continuato a
fargli compagnia, gli occhi tristi che lo vegliavano con tenerezza, il cuore in
conflitto tra la fiducia e il dolore. L’apprensione le velò il volto, nel
riconoscere tutto quello smarrimento nei silenzi, nel volto di suo figlio.
Sapeva che qualcos’altro di ben più grave stava lottando per mettere a rischio
il futuro di Mason, ma in quel momento faticava a prestare ascolto a quei
pensieri. Era rannicchiato su se stesso, tirava su col naso e tremava. Era
spaventato; l’unica cosa di cui Lydia voleva occuparsi, era cercare di stargli
vicina.
“Morirà, vero?” lo sentì domandare dopo una decina
di minuti; lo sguardo del ragazzo era ancora puntato contro il muro. “Morirà.
L’ho ucciso.” lo disse in tono di voce secco, ma Lydia avvertì distintamente un
principio di esitazione tra le sue parole.
“Starà bene, vedrai.” cercò di rassicurarlo,
accarezzandogli la schiena con dolcezza. “Non è stata colpa tua, Mase.” Mason
colpì il muro con le nocche.
“S-Sì che è stata colpa mia!” sbottò, alterando il
tono di voce. “C-Chi stava guidando?” ringhiò, inciampando nelle sillabe
iniziali della prima parola. “C-Chi, chi non ha fermato la macchina in tempo?
Io!” .
“No, Mase…”
Lydia mormorò scuotendo il capo, le mani a circondare
con fermezza le spalle di suo figlio. Sospirò, appellandosi al barlume di
controllo che ancora non aveva ceduto terreno allo sconforto.
“Non è stata colpa tua.” ripeté decisa, scandendo
lentamente le parole. Mase tornò ad affondare il capo nel cuscino, lo sguardo
nuovamente aggrappato alla parete, ferito e disilluso.
“Combino sempre casini.” mormorò infine, scuotendo
appena il capo, le lacrime a rigare silenziose il suo volto. “P-Perché…”
“Shhhh…” la madre cercò di tranquillizzarlo, prima
di chinarsi ulteriormente per abbracciarlo. “Andrà tutto bene.” lo rassicurò
con dolcezza. “Non ci pensare per ora, andrà tutto bene.”
“P-perché sono sempre io a combinare c-casini?”
insistette Mason, tornando ad alzare il tono di voce. “P-perché, perchè faccio
così schifo, perché?”
“Ehi!” Lydia lo rimproverò in tono di voce fermo,
stringendosi maggiormente a lui. “Basta così. In questa famiglia non c’è
nessuno che fa casini e non c’è nessuno che fa schifo. Sono stata chiara?” domandò,
alzando appena il tono di voce. Ma si sentì a pezzi nell’individuare le lacrime
che rigavano le guance del figlio.
Stop
thinking about
The easy way out
There's no need to go and blow the candle out
Mase non rispose; rimase in silenzio per qualche
istante, prima di inspirare con forza, voltandosi in direzione della madre.
“S-Sono quello uscito peggio dei tre.” ammise.
infine Lydia negò prontamente.
“Questo non è vero.” ribattè con fermezza.
“I miei fratelli …”
“Ricki e Caroline hanno tanti difetti, quanti ne hai
tu.” lo interruppe la madre, prima di tornare ad accarezzargli i capelli. “E vi
amiamo anche per questo, lo sai?” aggiunse con dolcezza. “Tutti e tre alla
stessa maniera. Puoi ‘combinare tutti i casini’ che ti pare, Mason Lockwood:
per quanto ci riguarda, io e tuo padre continueremo a considerarti una delle
tre cose più belle e importanti che ci siano mai capitate. E nessuna di queste
tre è uscita peggio rispetto alle altre due. Perciò non dire mai più una cosa
del genere, perché è la sciocchezza più grande che abbia mai sentito.” aggiunse,
chinandosi per baciargli il capo. “Ti voglio bene, Mase.”
Mason annuì, lasciandosi ricadere nuovamente sul
cuscino. Inspirò a fondo più volte, cercando di riprendersi.
“Ho deluso papà.” ammise ancora infine, stanchezza e
sensi di colpa mescolati nel suo sguardo. Lydia scosse il capo con decisione.
“Non dirlo nemmeno per scherzo.” lo contraddisse con
dolcezza, tornando ad accarezzagli il capo. “Tuo padre è solo preoccupato per
te. Vuole che tu stia bene, solo questo.” lo rassicurò.
Mase si decise finalmente a voltarsi, per ricambiare
lo sguardo della madre. Le lacrime ancora presenti e lo smarrimento rappreso
fra quei lineamenti generalmente fermi e scostanti le infusero ancora più
tristezza.
“E, e allora, perché non è qui?” domandò Mase a bassa
voce, accennando a una smorfia, nel sentirsi inciampare di nuovo sulle prime
sillabe.
Lydia sospirò. Il suo sguardo accarezzò con
tenerezza i lineamenti del suo ultimogenito, un barlume di tristezza
incastonato fra gli occhi chiari; pensò a suo marito, al tono di voce stanco e
risentito con cui le aveva parlato al telefono e la fiducia che l’aveva
sostenuta fino a quel momento vacillò.
“Tornerà non appena i medici usciranno dalla sala
operatoria.” lo tranquillizzò un’ultima volta. “Adesso, però, cerca di dormire
un po’.” aggiunse infine, alzandosi in piedi. Mase annuì, passandosi con un
gesto brusco il dorso della mano sulle guance. Chiuse gli occhi, tornando a
girarsi su un fianco. Non aveva più voglia di pensare, né di battersi
per cercare di evidenziare alla madre i problemi in cui finiva per invischiarsi
ogni volta che metteva piede fuori casa. Si sforzò di prendere sonno
augurandosi, in silenzio, che al suo risveglio non ci sarebbe stato più nulla
di cui preoccuparsi. L’uomo che aveva investito sarebbe sopravvissuto
all’intervento. Il mal di testa sarebbe scomparso. Il senso di colpa sarebbe
scivolato via dal suo stomaco.
Lydia lo osservò dormire per un po’, incapace di
abbandonare la stanza. Recuperò il telefono dal comodino e lo strinse forte,
interrogandone lo schermo vuoto con lo sguardo. Si chiese come stessero
procedendo le cose in ospedale; se Caroline avesse raggiunto Tyler, se in quel
momento si trovasse in sala operatoria, o se non fosse arrivata in tempo. Si
sforzò di sfuggire a quei pensieri e tornò a sedersi sul letto di Mason. Gli
fece ancora una carezza, il cuore conteso tra l’apprensione e la tristezza.
Andrà tutto bene, Mase. Pensò
fra sé, cercando di infondersi fiducia; così ad occhi chiusi, rannicchiato su
un fianco, suo figlio le sembrava ancora più bambino di quanto già non fosse.
Il suo bambino.
Non gli sarebbe successo nulla. Non doveva
succedergli nulla. Lei non l’avrebbe permesso.
Andrà tutto bene.
Because you're not done
You're far too young
And the best is yet to come
Lullaby.
Nickelback
***
Si accorse che Mason si era
arrampicato su una sedia
e aveva preso a sbirciare fuori dalla
finestra con aria preoccupata.
“Ehi giovanotto.” lo richiamò,
raggiungendolo.
“È ora di andare a nanna.”
Mason scosse il capo lentamente,
voltandosi in direzione del padre.
“Lu-lupi.” mormorò con aria spaurita
indicando la luna.
“Nessun lupo verrà a darti fastidio
questa notte.”
lo rassicurò Tyler, accarezzandogli
il capo con tenerezza..
“Te lo prometto.”
da She’s
watching over us.
Di tutti i posti in cui non aveva messo più piede a
Mystic Falls, il reparto di terapia intensiva dell’ospedale era di certo
l’ultimo che avrebbe scelto di visitare per darsi una rinfrescata alla memoria.
Caroline Forbes stava rimuginando qualcosa di simile
nel momento in cui raggiunse il corridoio che portava alla sala operatoria.
Individuò subito Tyler, lo sguardo chino e le mani intrecciate appoggiate alle
labbra, seduto a pochi metri di distanza da lei.
“Tyler!” esclamò a quel punto, correndogli incontro.
“Scusa il ritardo, non so che cosa sia successo… ho sentito un dolore
fortissimo alla testa e sono svenuta.” spiegò in fretta, prima di rivolgergli
un’occhiata apprensiva. “È successo anche a te? Matt mi ha detto che stavi
guidando e che hai avuto un incidente…”
Tyler non rispose; si passò una mano sotto il mento
e inspirò con forza, appoggiando la schiena al muro. Caroline si morse un
labbro, marcando l’esitazione nel suo sguardo. “Mi ha detto anche che qualcuno
è stato investito.” aggiunse con delicatezza. “È in sala operatoria? Posso
salvarlo.”
Tyler scosse il capo un paio di volte, prima di
convincersi a incrociare lo sguardo di Caroline.
“Troppo tardi.” ammise in tono di voce atono,
tornando poi a scrutare la parete di fronte a sé. “È morto.”
La decisione tratteggiata nel volto di Caroline
scomparve; la ragazza si sedette accanto a lui.
“Tyler…” lo richiamò, analizzando tristemente la
sua espressione afflitta. Cercò di immaginare che cosa stesse provando;
entrambi avevano ucciso più di una volta, entrambi non avevano avuto scelta:
eppure, quella consapevolezza non placava del tutto il senso di colpa . “È
stato un incidente; tu non potevi fare nulla. Di sicuro ti è capitata la stessa
cosa che…”
“Caroline.” la interruppe Tyler bruscamente, squadrando
con decisione la ragazza. Rimase in silenzio per qualche istante e i suoi occhi
si spensero di nuovo, mentre l’uomo riprendeva a parlare. “Non sono stato io a
investire quell’uomo.” ammise infine, un’ incrinatura a spezzare il
tono di voce. Caroline scosse appena il capo con aria confusa, non riuscendo
capire.
“Che cosa?”
“È stato Mase.” ammise infine Tyler, abbassando il
tono di voce e indirizzando un’occhiata furtiva al corridoio. “Era Mase che
stava guidando, lui ha avuto l’incidente. È stato Mason a uccidere quell’uomo.”
ribadì infine, passandosi una mano sugli occhi. “Mase; mio figlio quindicenne.
Non sono nemmeno stato capace di…” si interruppe, notando lo stupore e
l’avvilimento nello sguardo di Caroline. “…strappargli via il volante di mano.
Non ho fatto nulla.” concluse.
La ragazza scosse il capo lentamente, sorpresa e
turbata al tempo stesso. Ripensò agli avvenimenti di quella sera; ricordò la
conversazione che aveva avuto con Mason meno di una manciata d’ora prima. Evocò
la sua iniziale diffidenza nel momento in cui l’aveva avvicinato, i sorrisi che
era riuscita a strappargli. L’aria distesa, da ragazzino qualunque, che per la
prima volta aveva colto a piegare i suoi lineamenti. Nel ricordarlo così
tranquillo e sereno a poche ore di distanza da quel momento, il suo sgomento si
estese. Quello che gli stava raccontando Tyler era ingiusto; terribile ed
ingiusto. Sia per lui, sia per Mason.
“Lui lo sa?” domandò infine con un filo di voce,
tornando a rivolgere lo sguardo verso l’amico. L’uomo riprese a fissare il pavimento
con aria assente.
“Non sa nulla.” rivelò in tono di voce asciutto,
prima di sospirare una seconda volta. “Già è sconvolto così, figuriamoci quando
dovrò parlargliene.”
“Starà bene, Tyler.” lo rassicurò Caroline cercò di
dimostrarsi fiduciosa; gli appoggiò una mano sull’avambraccio. “Tu eri da solo
quando hai scatenato la maledizione. Mason ha te.”
Lo osservò irrigidirsi nel sentirla pronunciare
quelle parole. Fino a quel momento, Tyler si era rifiutato di nominare a voce
alta la direzione brusca che aveva preso quella sera il destino di suo figlio.
La parola ‘maledizione’ lo schiaffeggiò con violenza, costringendolo ad
affacciarsi alla realtà dei fatti.
“Ha suo padre…” gli ricordò Caroline, facendo
pressione sul suo braccio. Esitò, nel riconoscere con esitazione la rabbia
farsi strada tra i lineamenti dell’uomo.
“Sì, e che razza di padre sono?” ringhiò
all’improvviso Tyler, alzandosi bruscamente. “Uno che porta il figlio a guidare
di notte, perché non riesce trovare nemmeno dieci minuti per farlo di giorno!
Gli sono stato addosso per mesi, ma questa sera era seduto lì vicino a me e non
ho potuto fare nulla per aiutarlo. Non sono nemmeno riuscito a guardarlo negli
occhi, mentre scatenava la maledizione: Jerome Clay è morto dieci minuti fa e
io non ero a casa con lui. Non lo sono nemmeno ora! Sono ancora qui, perché so
che una volta fuori dovrò spiegargli tutto. E non posso farlo, non so come
farlo. Non ce la faccio.” concluse, incrinando il tono di voce e non riuscendo
più ad aggiungere altro. Sbuffò, appoggiando una spalla alla parete e chinando
lo sguardo per sfuggire a quello apprensivo di Caroline.
“Non ha nemmeno sedici anni.” mormorò infine fra sé
tornando a sedersi, i lineamenti del volto contratti a respingere la nota di
dolore intrappolata nel suo sguardo. La ragazza gli posò nuovamente una mano
sul braccio, dispiacere e apprensione a contendersi il suo volto.
“Hai sempre fatto il possibile per cercare di
proteggere i tuoi figli. Soprattutto Mason.” affermò. “L’incidente che avete
avuto questa sera non era prevedibile; è successo e basta. Tu non hai colpa,
così come non ne ha Mase.”
Tacquero entrambi per qualche minuto, prima che
Caroline riprendesse a parlare.
“Starà bene, Tyler.” lo rassicurò ancora una volta,
guardandolo con dolcezza. “Non sarà facile… non lo è stato neanche per te. Ma
ce la farà, come ce l’hai fatta tu.”
L’uomo scosse il capo più volte.
“Lui non è me.” le ricordò a quel punto,
riavviandosi i capelli con un gesto stanco della mano. “Mason è…” si
interruppe, non sapendo bene come proseguire. Tutto ciò che avrebbe potuto
aggiungere per completare la frase impallidiva, di fronte al pensiero di ciò
che avrebbe dovuto affrontare suo figlio ad ogni luna piena. “…penso che ormai
tu abbia capito che tipo di persona sia.”
“Lo aiuteremo.” riprese Caroline in tono di voce fermo,
e guardandola, Tyler riscontrò nel suo sguardo un rinnovato barlume di fiducia:
per un attimo gli ricordò la Caroline che gli aveva dato una mano diversi anni
prima, la sera in cui lui stesso aveva scatenato la maledizione; anche quella
volta lei era rimasta con lui: lo aveva guardato allo stesso modo in cui lo
stava fissando in quel momento.
“Mason non è solo, Tyler.” ripeté la ragazza,destandolo
dai suoi pensieri. “Ci sei tu, c’è Lydia. Ci sono i suoi fratelli. E io
manterrò fede alla mia promessa.” aggiunse, tornando a scrutarlo con determinazione.
“Ho detto che l’avrei tenuto d’occhio e intendo continuare a farlo. Lo
proteggeremo.”
Quelle parole risvegliarono in Tyler un improvviso
campanello d’allarme. Qualcosa che fino a quel momento aveva accantonato in un
angolo risalì in superficie, mentre le sue iridi tornavano a cerchiarsi di
decisione.
“Nessuno deve sapere che è stato Mase a provocare
l’incidente.” dichiarò con fare risoluto. “Ero io che stavo guidando. Sono io
che ho perso il controllo dell’auto.”
La ragazza annuì.
“Pensi che il Consiglio c'entri qualcosa con quello
che è successo questa sera?” domandò, preoccupata. “Mia madre e Matt credono
che Fell stia cercando di ripristinarlo”.
Tyler si passò una mano sotto il mento.
“Non lo so.” ammise infine, recuperando il cellulare
dalla tasca e controllando il display: il numero di messaggi non letti era
aumentato rispetto a quando aveva controllato per l’ultima volta; ce n’erano
alcuni di Matt e uno di Jeremy, ma gli altri erano tutti di Ricki. Si chiese se
i suoi figli fossero sul punto di addormentarsi o se lo stessero aspettando
entrambi, in attesa di risposte. Pensò a sua figlia Caroline e fu grato al
pensiero di sapere almeno lei al sicuro e all’oscuro di tutto. “Sono preoccupato.”
continuò, tornando a rivolgersi alla ragazza. “Ricki ha avvertito il dolore
alla testa, così come me e Mase. Così come te. Questa cosa mi fa pensare alle
streghe, più che al Consiglio.”
“Ci avevo pensato anch’io.” ammise Caroline,
alzandosi in piedi e incominciando a camminare avanti e indietro per il
corridoio. “Ma non ha senso…”
Tyler ripose il cellulare nella tasca e sbuffò,
annunciando qualcosa che avrebbe voluto dire già da un po’.
“Penso che Fell sappia della maledizione…” spiegò,
portandosi le braccia sul petto. “Ci sta osservando da mesi; se ne è accorto
persino Ricki ed è stato qui due settimane appena. Fell è arrivato perfino a
fare il terzo grado a mia madre; se sa di noi, può darsi che sappia anche come
si scatena la maledizione. Per questo…” incominciò, cambiando bruscamente
espressione. Il suo sguardo si fece nuovamente teso. “…devono pensare tutti che
sia stato io a provocare l’incidente.” ribadì in tono di voce deciso. “Mase
sarà al sicuro fintantoché crederanno che a uccidere quell’uomo sia stato io.”
“Non gli accadrà nulla.” lo rassicurò Caroline. Addolcì
la sua espressione nel notare il suo rinnovato nervosismo e l’insistenza con
cui Tyler aveva ripreso a tirare fuori il cellulare dalla tasca. “Adesso vai a
casa.” lo incoraggiò, posandogli una mano sulla spalla. “Va’ da lui.”
L’uomo annuì brevemente, seppur restio ad abbandonare
l’ospedale. Aveva paura e la vergogna continuava a pungolarlo con insistenza
per questo. Aveva paura di guardare in faccia Mase, e di ammettere a sé stesso
che non avrebbe potuto aiutarlo, non questa volta. Non sapeva che cosa avrebbe
potuto dirgli per rassicurarlo, per farlo stare meglio. Si alzò ugualmente,
volgendo appena il capo per incrociare lo sguardo di Caroline.
“Grazie.” le disse semplicemente. Caroline gli
sorrise.
“Passo a controllare la zona dell’incidente, prima
di tornare a casa.” lo rassicurò, raggiungendolo per abbracciarlo. “Chiamami
domani, fammi sapere come sta Mason.” aggiunse. L’uomo annuì.
“Buonanotte, Caroline.” la salutò, prima di
abbandonare il corridoio e di dirigersi verso le scale. Non appena uscì
dall’ospedale, il suo sguardo saettò istintivamente verso l’alto: la luna era a
malapena visibile quella sera, eppure a Tyler la sua luce parve più luminosa e insistente
che mai. Avvertì il suo peso gravargli sulle spalle e improvvisamente accelerò
il passo in direzione della tenuta dei Lockwood, deciso a raggiungere casa –
suo figlio - il prima possibile.
If you can hear me now
I'm reaching out
To let you know that you're not alone
Lullaby.
Nickelback
***
“Stai bene?”
Lydia domandò, non appena distinse la sagoma del
marito nel corridoio. Tyler annuì brevemente. Abbracciò forte sua moglie e
avvertì la tensione e il nervosismo allentare appena la presa. Lydia era così:
quando lo toccava, quando lo stringeva, gli infondeva sicurezza; spesso sapeva
essere abbastanza forte per tutte e due. Ma non quella notte; in quel momento,
c’era bisogno che lo fosse anche lui. Si voltò a fissare la porta che dava alla
camera di Mase: Lydia era rimasta sulla soglia fino all’arrivo del marito.
“Ti sta aspettando.” gli sussurrò la donna con
dolcezza. “Vai.”
Tyler annuì. Aprì la porta e, aguzzando lo sguardo
nell’oscurità della stanza, individuò all’istante il profilo del suo figlio
minore. Mase era accovacciato sul letto, le spalle appoggiate al muro e le
braccia a cingersi le ginocchia.
“Papà?” domandò esitante, aggrottando le
sopracciglia e guardando meglio, per assicurarsi che fosse lui. Tyler si
sedette sul letto accanto al ragazzo.
“Sì, sono io.” lo rassicurò, tendendo una mano nel
buio per sfiorargli una spalla. Lo sentì tremare; notò anche che respirava con
forza, quasi avesse il fiatone.
“Stai bene?” domandò, aumentando la pressione sulla
sua spalla. Mase esitò, prima di rispondergli.
“Ho rotto la lampada.” ammise infine, indicando il
comodino con un cenno nervoso del capo, nonostante fossero al buio. “Non so
come abbia fatto. Mi sono alzato di scatto perché mi girava di nuovo la testa.
Mi bruciavano gli occhi, volevo accendere la luce.”
“Non fa niente...”
“Ho cercato l’interruttore e quando ho premuto il
bottone di accensione… l’ho rotto. Si è aperto in due. E poi mi è venuta voglia
di rompere anche il resto. Ero arrabbiato, non lo so perché, non capisco che…”
“Non importa, Mase.” cercò di ribadire il padre, ma
il ragazzo proseguì ugualmente.
“Credo che mi sia successo qualcosa.” ammise a quel
punto, stringendosi nelle braccia. “M-mi fa male la testa, mi fanno male gli
occhi, bruciano. Fo-forse è successo quando ho sbattuto contro il volante.
F-forse dovrei tornare in ospedale.”
“Hai solo bisogno di riposare.” lo rassicurò il
padre, continuando a stringergli la spalla; un po’ più forte, per cercare di
mantenersi calmo. Tentò di parlargli, di spiegarli, ma non fu in grado di aggiungere
nulla. “Stai tremando.” costatò infine.
“Sì.” ammise il figlio.
“Hai freddo?”
“No.”
“Hai paura?”
“Non lo so!” esclamò infine Mason, lasciando
ricadere il capo all’indietro, per appoggiarsi alla parete. “Non lo so. Non so
se ho paura o se sono arrabbiato… non so perché mi brucino gli occhi, non so
perché mi faccia male la te…”
Si interruppe, passandosi una mano sulla fronte.
Tyler cercò di distinguere i suoi lineamenti al buio.
“Papà, i punti…” mormorò a quel punto il ragazzo,
passandosi una mano sul sopracciglio ferito. Il padre sospirò. “Il ta-taglio
che avevo sulla fronte; no-no-non lo sento più.”
Tyler smise di stringergli la spalla e sfiorò il
capo del figlio con la mano, alla ricerca di una ferita che non c’era più. Si
soffermò a passargli una mano fra i capelli e le lacrime che fino a quel
momento non c’erano state gli rigarono traditrici una guancia. Aveva voglia di
avvicinarselo maldestramente al petto, di prenderlo in giro e arruffargli i
capelli, come faceva quando era bambino. Come quando il figlio stringeva la
mano a pugno attorno alla manica della sua camicia, per sedare le sue paure.
Aveva voglia di ridere, di sdrammatizzare, per riuscire a strappargli a sua
volta un sorriso. Voleva recuperare uno di quei momenti in cui era riuscito a guardarlo
e negli occhi e dirgli che gli voleva bene. Spiegargli che non c’era bisogno di
avere paura di tutto, perché non c’era creatura al mondo che avrebbe potuto
ferirlo: perché Mase era suo figlio, e perché lui era suo padre. Lui non
l’avrebbe permesso. Voleva promettergli ancora una volta, come aveva fatto più
volte in passato, che nessun lupo si sarebbe mai avvicinato a lui: ma sarebbe
stata una menzogna.
Perciò non lo fece. Non fece nulla di tutto questo.
Si limitò a tacere, la mano ancora appoggiata sul
suo capo, e quando Mason si voltò a fissarlo intuì all’istante che le cose non
sarebbero andate meglio. Qualcosa era successo: suo padre gli aveva mentito.
Tutti gli avevano mentito.
“C-Che mi sta succedendo?” chiese in tono di voce
flebile, la paura disegnata tra i suoi occhi.
Tyler non seppe rispondergli: tutto ciò che riuscì a
pronunciare, fu l’ennesimo “mi dispiace”.
Richmond,
Virginia Commonwealth University.
Julian stiracchiò svogliatamente un braccio per
interrompere la suoneria della sveglia e si voltò dall’altra parte. Venti
minuti più tardi scattò sull’attenti, ricordando all’improvviso cosa aveva in
programma di fare quella mattina. Si sollevò a sedere sbadigliando, la mente
ancora rivolta alla telefonata che aveva avuto con la sorella la sera
precedente. Autumn non si era fatta sentire all’orario stabilito e nemmeno più
tardi, quando, preoccupato, aveva tentato di cercarla sul cellulare. Alla fine erano
riusciti a scambiarsi due parole su Skype in tarda nottata, ma nessuno dei due
aveva ancora toccato l’argomento ‘magia’, nonostante ci avessero entrambi
girato attorno più volte; anche se non poteva averne la certezza, Julian si era
convinto dal modo in cui gli aveva parlato che a Autumn fosse sul serio
successo qualcosa legato alla magia. O forse, era solo quello che avrebbe
desiderato accadesse. Non conoscere nessun altro che fosse come lui era spesso
frustrante, per Julian. Amava quell’aspetto di sé, per quanto fosse a malapena
in grado di usarlo e prendersene cura: gli sarebbe piaciuto avere qualcuno con
cui condividerlo, con cui confrontarsi ed esercitarsi. Se Autumn era una
strega, la faccenda avrebbe di certo giovato al loro rapporto.
Non essendo riuscito a discutere con lei di magia,
non aveva nemmeno avuto la possibilità di parlarle del grimorio, per chiederle
di trovare l’incantesimo che stava cercando. Intestardito dall’assenza di
novità, una volta chiusa la chiamata con la sorella, aveva tirato nuovamente
fuori dal cassetto il suo quaderno di formule. L’aveva esaminato per una buona mezzora,
ignorando l’ora tarda, e alla fine era riuscito a individuare una formula che
avrebbe potuto essergli utile. Stando quello che aveva scritto, serviva a
ritrovare cose o persone che avevano qualcosa in comune – parenti, oggetti
dello stesso materiale e forse, Julian ci sperava, anche due stregoni. Aveva
deciso di fare un tentativo quel mattino, sapendo che il professor Ringle si
sarebbe sicuramente diretto al pub la mattina presto. Per quello aveva puntato
la sveglia, ma come al solito la puntualità non era stata dalla sua nemmeno
quel giorno.
Si vestì in fretta e si ricordò di prendere le
chiavi per un soffio, prima di uscire sul pianerottolo. Nel raggiungere il bar,
incominciò a sentirsi nervoso; era deciso a scoprire se Ringle fosse uno
stregone o no, ma in fondo non aveva idea di cosa avrebbe fatto in caso la
risposta fosse stata sì. Gli avrebbe parlato? In fondo, forse avrebbe fatto
meglio a tenersi distanza da lui, visto ciò che era successo il giorno del
compito in classe. Julian diede una scrollata di spalle e si intrufolò nel pub.
Scrutò i vari clienti seduti al tavolo e individuò facilmente l’insegnante di
chimica seduto verso la fine del locale.
“Non eri a riposo, tu?” una voce brusca lo richiamò
dai suoi pensieri. Arielle lo superò camminando spedita, il vassoio in bilico
sulle mani. Il castano-rossiccio naturale dei suoi capelli era stato sostituito
di recente da un rosso acceso che spiccava vivace sulla divisa da lavoro,
rendendola riconoscibile anche a parecchi metri di distanza.
“Ciao anche a te!” la salutò in risposta Julian,
ormai abituato all’atteggiamento ostile della ragazza. Tirò fuori le mani
dalla tasca e focalizzò nuovamente l’attenzione sull’insegnante, la formula
bene a mente. Per far si che l’incantesimo funzionante, c’era bisogno che i due
elementi analizzati si toccassero. Doveva fare in modo che Ringle avesse un
contatto con lui. Si affrettò a correre in bagno per infilarsi la camicia della
divisa.
“Ehy, Krew!” si rivolse a uno dei colleghi di lavoro
una volta tornato nella sala principale. “Sono appena arrivato per il turno.” spiegò,
sicuro che il compagno non avrebbe trovato nulla da ridire, al contrario di
Aria. “Che porto al professore all’ultimo tavolo? Mi ha chiesto di sbrigarmi a
servirlo e in maniera non proprio carina. ” Krew, che aveva appena attraversato
il bancone, gli porse il suo vassoio.
“Tieni.” dichiarò, prima di avviarsi verso la
cucina. “Meglio tu che io.” Julian sorrise fra sé; si aggrappò istintivamente
ai manici di plastica e incominciò a dirigersi verso Ringle, l’incantesimo da
formulare ben impresso in mente; il fruscio non tardò a farsi sentire.
Non sapeva bene cosa sarebbe successo, una volta che la sua mano avesse
sfiorato il braccio con l’insegnante, ma tanto valeva provarci: pronunciò
mentalmente la formula quando ormai aveva quasi raggiunto l’uomo e siinnervosì,
quando si accorse che il professore aveva preso a fissarlo. Gli rivolse
un’occhiata insospettita e Julian perse per un attimo la concentrazione. Superò
l’ultimo metro che lo separava dal tavolo di Ringle.
“Ecco qui.” esclamò, appoggiando il vassoio sul
tavolo, in maniera che fosse particolarmente vicino al braccio del professore.
La sua mano era sul punto di toccarlo, quando il suo gomito incominciò a
tremare: qualcuno lo aveva afferrato per il braccio.
“Che cosa…” mormorò fra sé, mentre la persona lo
trascinava lontano dai tavoli, il tremore al braccio ancora presente: quella
sensazione gli ricordava incredibilmente il fruscio. La magia
sbatacchiava contro la sua pelle, cercando di entrare in contatto contro quella
della persona che lo aveva afferrato per il gomito; era una ragazza dallo
sguardo immusonito che camminava rapida, senza degnarlo di uno sguardo: Aria.
“Sei una strega?” domandò a quel punto Julian,
rivolgendole un’occhiata incredula. Arielle lo zittì con un’occhiataccia e
continuò a guidarlo, fino a quando non furono fuori dal locale.
“Tu sei fuori di testa!” esclamò a quel punto,
portandosi le braccia sul petto. “Prima l’allarme anti-incendio e adesso
questo! Completamente fuori di testa!”
“Aspetta, aspetta…L’allarme anti-incendio?” Julian
la interruppe. “Sei stata tu a cercare di impedirmi di farlo partire?” Aria
strinse le labbra e non disse nulla. Julian continuò a fissarla, nella speranza
che aggiungesse altro. Ricordava di averla avuta come vicina di banco, il
giorno del test di chimica. La rosicchia-matite. La secchiona:
era lei la strega; Ringle non centrava nulla.
Inspiegabilmente, sorrise.
“Non dovresti impiegare i tuoi poteri per stupidaggini
come i compiti in classe.” commentò infine la ragazza, sistemandosi un ciuffo
di capelli che era sfuggito alla coda.
Julian le rivolse un’occhiata confusa.
“E per cosa dovrei usarli, allora?” Aria lo ignorò.
“Non dovresti nemmeno usarli in posti dove possono
vederti tutti.”
“Nessuno ha capito nulla di quello che è successo in
cla…”
“E poi che cosa stavi cercando di fare con Ringle?”
aggiunse ancora la giovane, continuando ad ignorare i suoi commenti. Julian
prese ad arrotolarsi il colletto della camicia con un dito.
“Pensavo fosse uno stregone.” ammise infine. Da
ostile, lo sguardo della ragazza si fece incredulo; alla fine, scoppiò a
ridere. Julian fu quasi sorpreso; era la prima volta che la sentiva ridere.
“Ringle uno stregone?” chiese la ragazza in tono di
voce divertito.
Il giovane annuì. “Perché no?” Aria scosse il capo
con aria incredula, ma non aggiunse altro.
“Da che stirpe di streghe discendi?” domandò infine,
prendendo a scrutarlo con aria di sufficienza. “Non ho mai sentito parlare dei
Morgan…”
“Mi madre è una Bennett.” spiegò Julian, abbozzando
un sorriso. La ragazza si irrigidì.
“Ah.” Si limitò a commentare, indirizzandogli un’occhiata
diffidente. Arretrò di un passo, sotto lo sguardo sbigottito del ragazzo.
“Adesso si spiega tutto.”
“Perché?” domandò un sempre più confuso Julian. “Che
cos’è che si spiega?”
“La mia antipatia nei tuoi confronti.” spiegò la
giovane, portandosi nuovamente le braccia al petto. “Sei un Bennett, per forza
non mi piaci.”
“Che c’è di male nell’essere un Bennet?” domandò
ancora Julian, sempre più confuso. “Tu da che famiglia discendi?”
La ragazza roteò gli occhi.
“Ma non sai proprio niente?” domandò a quel punto. “Da
generazioni, diverse famiglie di streghe sono ostili ai Bennett, perché voi
finite sempre per immischiarvi in faccende che non vi riguardano.”
“Beh, io non ne sapevo nulla.” ammise il ragazzo. “Mia
madre non mi ha mai raccontato molto sulla nostra discendenza; ma forse
potresti dirmi qualcosa tu.” azzardò.
Aria lo squadrò con aria diffidente, prima di
scuotere il capo, risoluta.
“Preferisco averci a che fare il minimo
indispensabile con te”. ammise infine, dandogli le spalle per tornare al
locale. Julian la afferrò per il polso.
“Per favore!” la pregò. Il gomito incominciò
nuovamente a tremarle. “Non conosco nessuno come me,oltre mia madre. Lascia che
ti faccia almeno qualche domanda; prendiamoci qualcosa, un caffè , e poi
prometto che ti lascerò in pace.”
Aria gli rivolse un’ultima occhiata indecisa, prima
di annuire.
“Possiamo incontrarci dopo il turno di lavoro.” acconsentì,
interrompendo bruscamente il contatto fra il suo polso e la mano di Julian. “Mezzora
e non di più.” ribadì, prima di allontanarsi in direzione del locale.
Il giovane continuò a sorridere, osservandola
allontanarsi.
“Non mi hai ancora detto da che famiglia discendi!”
le gridò dietro quando la ragazza aveva ormai raggiunto le porte del pub. Aria
si voltò per fulminarlo ancora una volta con lo sguardo.
“Non urlare!” lo rimbeccò, prima di scuotere il capo,
esasperata. “Di cognome faccio Walcot.” Spiegò, prima di scomparire all’interno
del locale.
***
Quel mattino, Ricki si svegliò con un forte mal di
testa e un nervosismo marcato, che lo spinsero ad uscire ancor prima che
Jeffrey si svegliasse. Percorse rapido il tragitto che lo separava dalla tenuta
dei Lockwood e una volta rincasato ignorò la porta di camera sua e quella di
Caroline per introdursi nella stanza di suo fratello: Mase stava ancora
dormendo. Rimase per un po’ nella sua stanza, analizzandolo con attenzione, per
assicurarsi che stesse bene; sembrava tranquillo e questo lo rincuorò
lievemente. Eppure, il nervosismo rimase. Il brutto presentimento trovò
conferma qualche minuto più tardi, quando Tyler lo raggiunse in camera di
Mason. Prese posto accanto a lui e lo guardò brevemente, prima di spostare la
sua attenzione verso il figlio più piccolo: Ricki non ebbe bisogno che il padre
aggiungesse nulla. Gli era bastato incrociare il suo sguardo per comprendere a
fondo quello che già aveva incominciato a intuire la sera precedente:
l’apprensione si trasformò in rabbia.
“Perché lui?” aveva domandato al padre più tardi,
nel pomeriggio. Calciò malamente la valigia ancora aperta in mezzo alla
stanza, dopo esserci inciampato per l’ennesima volta. “Perché il mio
fratellino?”
Tyler sedeva sul letto e lo osservava in silenzio,
le braccia incrociate sul petto, l’espressione tesa.
“Non lo so.” ammise infine, incrociando lo sguardo
del figlio. “Non lo so.”
Richard sospirò, decidendosi a lasciar stare la
valigia.
“Non gli hai detto ancora nulla, vero?” domandò,
guardando il padre dritto negli occhi. Tyler si sforzò di ignorare una fitta di
fastidio, nel notare nello sguardo del figlio una nota di rimprovero.
“Qualcosa.” ribattè secco, passandosi una mano fra i
capelli. “Non so bene come parlagliene; non è facile spiegare una cosa del
genere a un figlio. Io l’avevo scoperto da solo. Tu anche.” aggiunse, evitando
di ricambiare il suo sguardo.
Ricki scosse il capo con aria rassegnata, prima di
scavalcare la valigia, puntando alla porta.
“Dove stai andando?” domandò a quel punto il padre.
“A cercare il vecchio diario di tuo zio Mason.” rispose
Ricki, ricambiando il suo sguardo con aria determinata. Padre e figlio si
squadrarono per una manciata di secondi; infine, Richard si convinse a concludere
la frase. “Se non riesci a farlo da solo, allora glielo diremo assieme.”
***
"Those who cannot remember the past are
condemned to repeat it."
George
Santayana
“Allora?” Caroline sbirciò oltre la spalla di Xander
per individuare il voto sul suo compito di storia; il ragazzo voltò il plico di
fogli e fece una smorfia, soffermandosi sulle note finali del professore.
“Diciamo che è meglio del precedente.” ammise con
un sorrisetto imbarazzato, passandole il compito.
“D meno…” lesse ad alta voce la ragazza,
prima di rivolgergli un’occhiata di rimprovero. Xander diede una scrollata di
spalle.
“L’ultimo compito era una F più.” le ricordò,
incominciando a picchiettare sul banco con gli indici. “La storia non mi entra
in testa, non posso farci nulla.” proseguì poi. “È barbosa e mi fa venir voglia
di dormire. E poi non si parla nemmeno mai di cibo…”
“Mase potrebbe aiutarti.” ipotizzò la ragazza. Nel
notare l’espressione poco convinta dell’amico, gli diede un colpetto sul
braccio. “Cosa? Mio fratello piccolo è un genietto.” lo rimbeccò,
decisa. Xander sorrise.
“Secchione, non è esattamente sinonimo di genietto.”
ribattè Xander, riprendendo a picchiettare gli indici sul tavolo. “Oh, era
ora!” aggiunse, quando la campanella annunciò la fine della lezione. Caroline
tornò ad analizzare il compito di Xander con aria assente.
“Ad ogni modo, non penso che in questo momento sia
il caso di chiedere aiuto a Mase…” mormorò fra sé, ripensando all’espressione
atterrita con cui l’aveva salutata quel mattino; non era nemmeno andato a
scuola. Quando Caroline era rincasata dal lago, sua madre l’aveva presa da
parte per raccontarle dell’incidente: sapeva che suo padre aveva perso il
controllo dell’auto mentre stava guidando, la sera precedente, e che aveva
investito un uomo. C’era anche Mase nella macchina, ma sia lui, sia il Tyler,
ne erano usciti praticamente illesi. Eppure suo fratello continuava ad essere
sconvolto. Caroline era preoccupata per lui; e a giudicare dal gioco di sguardi
che aveva intercettato tra Ricki e i suoi genitori quel mattino, dovevano
esserlo anche loro.
“’Tumn ci sta aspettando fuori per andare assieme a
biologia.” esclamò la ragazza rivolta all’amico. “Sbrighiamoci.” aggiunse,
incominciando a ritirare le sue cose. Xander la imitò, ma si fermò quando il
suo sguardo capitò sul vecchio diario di Gilbert accantonato nel suo zaino: se
l’era portato dietro per poterlo esaminare in tutta calma durante la pausa
pranzo. Il che era strano per lui; detestava la storia – i suoi pessimi voti lo
dimostravano – e non era nemmeno un gran lettore. Inoltre, ben poche cose erano
in grado di distogliere la sua attenzione dal cibo, durante la pausa pranzo.
Quel diario, però, lo incuriosiva.
“Voi incominciate ad andare.” comunicò a Caroline,
infilandosi una bretella dello zaino. “Penso che andrò a implorare Lester di
farmi rifare uno dei compiti.” ammise. Caroline gli diede una pacca sulla
spalla e raggiunse il corridoio assieme ai compagni. Alexander si mosse in
direzione della cattedra e attese che il professore incrociasse il suo sguardo,
non sapendo bene che cosa dirgli: forse, in fondo, aveva mentito a Caroline.
Forse non gliene fregava niente del compito di storia; forse era un altro, il
motivo per cui aveva deciso di rivolgersi all’insegnante. Quando Lester lo notò
smise di percorrere il registro con lo sguardo e si voltò verso di lui.
“Che posso fare per te, Gilbert?” domandò,
chiudendo il quaderno: nonostante insegnasse a Mystic Falls da poco, il suo era
uno dei pochi cognomi che l’insegnante era riuscito a memorizzare quasi subito.
Un altro era quello di Caroline. Xander ricambiò incerto il suo sguardo e frugò
nuovamente nello zaino. La sua mano tentennò per un secondo sul diario di
Jonathan Gilbert, ma alla fine si limitò a recuperare il compito di storia. Lo
porse all’insegnante senza aggiungere nulla. Lester lo osservò brevemente,
prima di tornare a rivolgersi a lui.
“Sì, me lo ricordo il tuo compito.” commentò pacato,
restituendogli il foglio. “Sembra che tu non abbia nemmeno aperto libro.”
“No, l’ho aperto…” si difese maldestramente Xander.
“…è solo che non sono molto bravo e ricordarmi le date e confondo tutti i nomi.
E gli avvenimenti storici. E succedono sempre le stesse cose un po’ ovunque.”
spiegò con imbarazzo. Lester, che fino a quel momento era rimasto impassibile,
abbozzò un sorrisetto.
“L’essere umano è destinato a ripetere i propri
errori di continuo.” rispose, voltandosi in direzione della lavagna; date e
nomi di nazioni vi erano stati annotati sopra alla rinfusa col gesso. “E la
storia è fatta di uomini. E di errori. Gli scenari cambiano, ma il succo è
sempre lo stesso. In pochi ci fanno caso; le persone credono spesso che il
passato non sia importante e così lo dimenticano; c’è chi pensa sia pericoloso
e chi crede di poterlo eliminare fingendo che non sia mai accaduto. Eppure non
funziona così; ogni cosa, è destinata a ripetersi. Che ci piaccia o no, siamo
intrappolati in una sorta di circolo vizioso.”
Xander annuì svelto, non riscendo a mascherare
l’imbarazzo sul suo volto: non aveva seguito gran parte del discorso del
professore.
“Vorrei recuperare l’insufficienza.” ammise infine,
cercando di cambiare di scorso. Lester annuì brevemente.
“In che modo?” chiese, tornando a voltarsi verso di
lui. Il giovane sgranò gli occhi, confuso.
“Non lo so.” ammise, giocherellando con il foglio
che teneva ancora in mano. “Compiti extra?” propose, rabbrividendo al solo
pensiero. Lester lo osservò per qualche istante, i polpastrelli a sfiorare
ripetutamente la superficie del registro. Xander ricambiò lo sguardo; si rese
conto solo in quel momento che l’insegnante doveva essere piuttosto giovane.
Più giovane di suo padre di sicuro. Probabilmente si aggirava tra i trenta e i
trentacinque anni.
“La mia materia non ti piace, giusto?” domandò
ancora Lester, recuperando un libro di testo che uno studente aveva lasciato
sul banco di fronte alla cattedra. “Ma ci sarà pure un argomento che ti
stuzzica. Qualcosa che ti incuriosisce maggiormente, rispetto ad altri
argomenti più noio…”
“Sono interessato alla storia locale.” ribattè
Xander in fretta, interrompendolo. “Mystic Falls.” Lester aggrottò le
sopracciglia e gli rivolse un’occhiata sorpresa.
“Che periodo, con esattezza?” chiese ancora.
Alexander esitò; per un attimo fu quasi sul punto di tirare fuori il vecchio
diario di Gilbert, ma alla fine decise di non farlo.
“Il 1864.” ammise, passando istintivamente una mano
sul fondo dello zaino. “Ho sentito di alcune… ‘leggende’ – non so se si può
dire così – che parlano di quel periodo… cose un po’ folli, veramente.”
L’interesse nello sguardo di Lester si accese, “Leggende
in merito a che cosa?”
Xander arrossì, prima di rispondergli. “Ai
vampiri.”
Aveva abbassato di molto il tono di voce, sentendosi
più stupido ogni secondo che passava. Si sorprese, nel notare che l’insegnante
aveva nuovamente preso a sorridergli.
“Sei bene informato.” dichiarò asciutto Lester,
scrutandolo con espressione interessata. Xander annuì.
“So che sono solo dei racconti, ma… ho letto
qualcosa da qualche parte e mi sono incuriosito.” proseguì, appoggiando il
compito sulla cattedra e infilandosi le mani in tasca. Rivolse un’occhiata
esitante al professore, prima di domandargli: “Può parlarmene?”
Lester soppesò la sua domanda, prima di annuire.
“Ti dirò quello che so.” acconsentì infine, alzandosi.
“Ma prima, voglio vederti recuperare queste insufficienze. Portami una
relazione: argomento a scelta. Fai domande in giro, vai in biblioteca… e quando
avrai finito, ti parlerò del 1864. E dei vampiri.” aggiunse, scrutandolo con
attenzione. “Potrebbe andare bene?”
Xander annuì in fretta, sforzandosi di spazzare via
l’aria inebetita che aveva fatto capolino sul suo volto.
“Mi andrebbe bene, sì. Più che bene.” approvò,
spostandosi per permettere a Lester di passare. “Grazie!”
“Allora abbiamo un accordo.” dichiarò a quel punto
l’insegnante, tendendogli la mano. Xander la strinse, abbozzando un sorriso.
“Sì, certo. Grazie ancora!”
Lester annuì.
“E adesso faresti meglio ad andare a lezione.”
osservò l’insegnante, indicandogli la porta con il capo. Xander gli diede le
spalle per raggiungere la porta, ma si fermò sulla soglia
“Professore?” lo richiamò esitando, prima di
voltarsi nuovamente verso Lester. Attese che ricambiasse il suo sguardo, prima
di proseguire. “Come si fa a capire se in certe leggende c’è del vero o se
sono… insomma, leggende e basta? Come si fa a capire se non è tutta follia?”
chiese, tentennando incerto sull’ultima parte.
Lester recuperò le sue cose e lo raggiunse.
“Di rado si tratta di semplice follia.” rispose,
chiudendosi la porta dell’aula alle spalle. “C’è sempre qualcosa dietro le
leggende, Gilbert. Qualcosa che non dovremmo permetterci di ignorare, anche se
spesso viene fatto.”
“Che cosa?” domandò ancora Xander, incuriosito.
Lester sorrise appena. “C’è la storia.”
***
Ricki attraversò il cortile della tenuta con le mani
in tasca, lo sguardo a rincorrere distratto lo zampettare irregolare di un
corvo. Lo osservò spiccare il volo con aria inespressiva, appoggiando il gomito
alla cassetta delle lettere.
“Attenzione, prego!” una voce femminile lo distolse
dai suoi pensieri; Ricki voltò pigramente il capo verso destra. “Victoria
Donovan sta attraversando il viale! Ho pensato di avvisarti in
anticipo del mio arrivo.” aggiunse Vicki raggiungendolo di corsa, un sorriso
vispo ad arricciarle gli angoli delle labbra. “Ha funzionato! Questa volta non
hai sbattuto la testa contro la cassetta delle lettere!” dichiarò entusiasta,
alludendo all’episodio di due settimane prima.
Ricki roteò gli occhi, appoggiando anche la schiena
alla cassetta.
“Sei qui per qualcosa in particolare, Vic?” domandò,
recuperando l’espressione assente di poco prima. Vicki smise di sorridere e il
suo sguardo si fece più comprensivo.
“Come stanno tuo padre e Mase?” domandò,
analizzandolo con attenzione. “Oliver mi ha detto che Mase era molto scosso.”
Ricki annuì, pur continuando ad evitare il suo
sguardo.
“Stanno bene.” annunciò infine, portandosi le
braccia sul petto. “Mase sta bene. È agitato e ancora un po’ spaventato, ma sta
bene.” ribadì, deciso.
Victoria annuì; gli rivolse un’ultima occhiata
indecisa, prima di incominciare a trafficare con la sua borsetta.
“In effetti sì, sono passata a parlarti per qualcosa
in particolare.” Ammise infine, spalancando i due lembi della borsa e
avvicinandosela alla testa: per un attimo Ricki si trovò a domandarsi se ce
l’avrebbe infilata dentro; con Vicki, non si poteva mai sapere.
“Devo chiederti una cosa.” ammise a quel punto la
ragazza, lasciando perdere la borsetta.. “…e no, non è una proposta indecente,
quindi non c’è bisogno che mi guardi in quel modo. Anche se in effetti mi
verrebbe più facile parlare di qualcosa di simile, perché almeno lì non mi
preoccuperei di pensare a cosa dire nel caso tu non mi crede…”
“Vic, per favore…” la interruppe in quel momento
Richard, portandosi le mani alle tempie. “…torna sulla Terra e arriva dritta al
punto. Ho un mal di testa assurdo.” aggiunse, con una smorfia. Vicki sospirò
ancora una volta, cercò di soffiarsi via un ciuffo di capelli dagli occhi e
alla fine ci rinunciò.
“Ieri sera stavo andando a trovare ‘Tumn e ho
pensato di accorciare il tragitto, passando dietro casa vostra.” incominciò,
sforzandosi di evitare le divagazioni. “Mentre passavo, ho notato la macchina
dello sceriffo parcheggiata sul retro e mi sono ricordata che quando sei
tornato mi avevi chiesto se non l’avessi visto spesso da queste parti, e così…”
“Lo sceriffo Fell era qui?” la interruppe
bruscamente Ricki. Vicki gli fece cenno di tacere con la mano.
“No, aspetta, non fermarmi o perdo il filo del
discorso e poi incomincio a divagare.” ammise, prima di sorridergli con una
punta di malizia nello sguardo. “E poi se mi guardi così, non riesco a
proseguire!” aggiunse, sbattendo le ciglia. Ricki sbuffò, scuotendo il capo con
aria esasperata. Vicki estese il suo sorriso.
“Dicevo… lo sceriffo aveva parcheggiato dietro casa
vostra ed essendomi ricordata di quello che mi avevi detto, sono rimasta un po’
fuori ad aspettare, per vedere se si faceva vivo. L’ho sorpreso poco più tardi
nel giardino di casa vostra e aveva in mano una scatola; non so se fosse sua,
vostra, o di un alieno che proviene da Marte, fatto sta che…”
“Com’era fatta questa scatola?” la interruppe ancora
Richard, rivolgendole un’occhiata a metà tra l’allarmato e il furibondo. Vicki
diede una scrollata di spalle.
“Una scatola di legno, più o meno sarà stata grande
quanto uno dei tuoi palloni da calcio.” spiegò, riprendendo a frugare nella sua
borsetta.
“Fatto sta che, da quella scatola, è uscito fuori
questo.” ammise infine, porgendogli la rotellina di metallo che era caduta a
Fell la sera prima. La porse a Ricki, che se la appoggiò sul palmo della mano.
Il ragazzo incominciò ad analizzarla con le sopracciglia aggrottate. Victoria
si morse un labbro.
“Lo so che suona assurdo…” ammise, appoggiando una
mano alla cassetta delle lettere. “…ma ti giuro che è successo sul serio. L’ho
visto con i miei occhi, lo sceriffo era qui.”
Ricki continuò ad esaminare la rotellina, ignorando le
parole della ragazza. Per un po’ rimase in silenzio, ma alla fine si lasciò
scivolare l’oggetto in tasca e tornò ad appoggiarsi alla cassetta delle
lettere.
“Quel bastardo…” commentò infine con rabbia,
portandosi le braccia al petto. Vicki assunse un’espressione più sollevata.
“Quindi hai capito che cos’è?” domandò, sfilandosi
ancora una volta un ciuffo di capelli dagli occhi. “Avevo ragione, è qualcosa
di vostro?” Ricki sbuffò.
“Non ne ho idea, può darsi.” commentò infine,
tornando a rivolgersi alla ragazza. “Lo porto a mio padre, di sicuro ci capirà
qualcosa più di me.”
Victoria estese il suo sorriso.
“Allora mi credi?” domandò, vivace. Richard si trovò
costretto ad annuire.
“In altre occasioni non ti avrei creduto.” chiarì
comunque subito dopo. “Ma stiamo parlando di Fell.
Ci gironzola attorno a casa da un sacco di tempo, te l’avevo detto. E dopo
quello che è successo ieri sera…” la sua espressione tornò a indurirsi, nel
momento in cui riprese a pensare al fratello. Quel pomeriggio, aveva aiutato il
padre a raccontargli della maledizione. Fin da subito, Mase si era rifiutato di
credere a qualcosa di così assurdo. Alla fine, non avevano potuto fare altro
che mostrargli il video girato dallo zio di Tyler, Mason senior, durante la sua
prima trasformazione; da quel momento in poi, Mase non aveva più aperto bocca. A
Ricki continuava a tornare in mente la sua espressione terrorizzata.
“Sei carino a credermi, comunque!” annunciò a quel
punto Vicki, tamburellando con le dita sulla cassetta delle lettere. “Tanto
carino.”
Richard mise da parte le sue riflessioni, per
rivolgerle un’occhiata di ammonimento.
“Se preferisci sentirti dire che sei brutto, ti dirò
che sei brutto.” proseguì la ragazza con decisione.
Ricki roteò gli occhi, pur lasciandosi sfuggire un
sorrisetto.
“Buonanotte, Vic!” la salutò, staccandosi dalla
cassetta delle lettere e recuperando dalla tasca la rotellina di metallo.
“Grazie per questa.” aggiunse, facendosela saltare sul palmo della mano.
Vicki esitò; esaminò impensierita l’espressione del
ragazzo che era tornata ad indurirsi: di rado, l’aveva visto così serio e abbattuto.
“Senti…” incominciò a quel punto, chiudendo la
borsetta con uno scatto secco della cerniera. “Qualsiasi cosa stia capitando
con lo sceriffo o per il resto… io e la mia famiglia ci siamo. Lo sai. Se c’è
qualcosa che possiamo fare per te… o per Mase…”
Ricki scosse il capo, passandosi poi stancamente una
mano fra i capelli.
“Lo so… grazie, Vic.” rispose infine, sorridendo
debolmente in cenno di riconoscenza. “Ma non c’è niente che possiate fare per
lui.”
Per un attimo, fu tentato di dirle tutto. Senza
motivo, così. Voleva sputare fuori ogni cosa: parlarle della maledizione,
descriverle l’espressione atterrita di suo fratello, il mal di testa provato la
sera precedente, il terrore provato cinque anni prima nel riconoscere suo padre
in una bestia incatenata al muro. Tutto.
“Vado a portare questa a papà.” farfugliò invece,
chiudendo la mano a pugno attorno alla rotellina di ferro. Vicki si limitò ad
annuire. Fece per incominciare a correre, ma si voltò quasi subito, un dito
allacciato a una ciocca di capelli.
Si avvicinò a Ricki di qualche passo e lo abbracciò.
Il ragazzo la lasciò fare, sorpreso per via del gesto improvviso.
“Buonanotte, Ricki.” lo salutò Victoria separandosi
da lui, prima di riprendere a correre.
Richard la osservò allontanarsi in silenzio, la
rotellina di metallo ancora stretta in pugno.
***
Jeremy premette il tasto di chiamata e si portò il
cellulare all’orecchio. Mentre lo ascoltava squillare, sbirciò oltre la porta
socchiusa che dava sulla stanza del figlio minore; Oliver era seduto alla
scrivania e gli dava le spalle, intento a costruire uno dei suoi modellini di
aeroplano. Jeremy sorrise e si diresse verso la sua camera, ancora in attesa.
Al terzo squillo, la persona che stava cercando, prese la chiamata.
“Ho avuto un altro dei miei soliti incubi, questa
notte.” rivelò l'uomo in quel momento, prendendo posto sul letto. “Solo che
questa volta, eri tu a morire.”
Il suo interlocutore rise.
“Ah, io sto benissimo, Jer.” rispose Alaric,
lasciandosi ricadere sulla poltrona. “Anche se starei meglio se non avessi
finito le birre.” ammise; all’altro capo del telefono, Jeremy riuscì finalmente
ad abbozzare un sorriso.
“Tu stai bene? Elena? Hazel e i ragazzi?” chiese
ancora Rick.
“Tutto bene.” lo rassicurò Jeremy, infilandosi
istintivamente una mano nel taschino della camicia; l’ago dell’orologio-bussola
era immobile, come al solito. “Però, Xander avrebbe bisogno di qualche
ripetizione di storia...”
“Tua moglie ha ragione nel dire che ha proprio preso
da te, allora!” scherzò l’altro uomo. “Mi spiace, ma non penso che potrei essergli
di aiuto…” aggiunse poi ancora, accennando a un sorrisetto. “Ho chiuso con la
storia. Quello che ho fatto mi basta e avanza per una vita intera.”
Jeremy sorrise; si domandò se stesse alludendo alla
sua carriera da insegnante o a quella di cacciatore di vampiri.
“Non era di questo che volevo parlarti…” ammise
infine. “Per caso quando sei passato qui l’ultima volta ti ho lasciato qualcuno
dei diari di Jonathan Gilbert? Ero in soffitta, prima, e ho notato che ne
mancano alcuni.” chiese. Alaric fece mente locale per qualche istante, ma si
limitò a scuotere il capo.
“Non mi sembra.” Commentò. “Sei sicuro di non averli
spostati?”
Jeremy si sistemò i capelli arruffati con la mano
libera, cercando di ricordare quando fosse l’ultima volta che aveva messo piede
in soffitta. In quel momento, Xander fece capolino sulla soglia.
“Papà, io esco!” annunciò, infilandosi alla svelta
il giubbotto. “Ciao, zio Rick!” aggiunse ad alta voce, per farsi sentire da
Alaric.
“Dagli dell’asino da parte mia.” rispose
l’uomo; Jeremy si mise a ridere.
“Domani proverò a guardare meglio in soffitta…”
aggiunse poi, riportando il discorso sui diari di Gilbert. “È probabile che li
abbia spostati e che non mi ricordi più dove li abbia messi.”
“Vedrai che spuntano fuori.” lo rassicurò Rick.
“Stammi bene, Jer.”
“Anche tu.” ribattè Jeremy, un po’ rincuorato. “A
presto!”
Chiuse la chiamata e gettò il cellulare sul letto,
lasciandosi ricadere a sua volta sul materasso. Chiuse gli occhi per qualche
secondo, passandosi pigramente una mano fra i capelli. Li riaprì, quando
avvertì una il tocco familiare sfiorargli il capo; sorrise.
“Ehy…” mormorò, mentre la moglie prendeva posto
accanto a lui.
“Ehy!” ripeté Hazel, dandogli un colpetto col gomito
per farsi spazio. “Xander mi ha appena detto che sta andando in biblioteca per
studiare storia. Dici che dobbiamo preoccuparci?” chiese con aria divertita.
Jeremy diede una scrollata di spalle, prima di sfiorarle il capo con un bacio.
“Ti ha detto che è finito il gel?”
Hazel inarcò un sopracciglio.
“Almeno dieci volte.” rispose. “Ha attaccato il
calendario delle partite sul frigo?” proseguì la donna.
“Sì, e ha già fatto fuori metà dei biscotti dal
barattolo che abbiamo aperto questa mattina.” aggiunse Jeremy, con un sorriso.
Hazel analizzò mentalmente la situazione, riflettendo con aria critica.
“Allora non credo che dovremmo preoccuparci.”
annunciò infine la donna, sollevandosi in piedi. “È tutto come al solito.” concluse
con un sorriso furbo, prima di chinarsi ancora una volta, per baciare il
marito. Jeremy ricambiò il bacio e la osservò allontanarsi con un sorriso. Si
abbandonò nuovamente sul materasso e recuperò il cellulare, cacciandoselo in
tasca.
Aveva ragione sua moglie, pensò. Tornò a chiudere
gli occhi, passandosi poi una mano davanti alla bocca per mascherare uno
sbadiglio.
Tutto procedeva come al solito.
Nota dell’autrice.
Prima di passare al polpettone parte seconda,
comunico che da qualche mese ho aperto un gruppo facebook dedicato
esclusivamente a questa storia. Lo uso per condividere informazioni sulla
trama, spoilers, foto, sondaggi e millemila altre cavolate (e anche per
prendere in giro un po’ i pargoli, sissì.) Lo trovate QUI,
basta chiedere l’iscrizione.
Volevo anche ricondividere il sondaggio sui
personaggi preferiti che è da un sacco che non lo faccio!Lo trovate QUI. Il sondaggio
sulle coppie preferite, invece, lo trovate QUI.
Ok,
torniamo a noi. In ritardo di millemila anni luce, eccomi qui con il mio
ennesimo polpettone! A sto giro è davvero un polpettone iper-ripieno e
lungherrimo, ma anche sta volta, dovevo sopperire a un mesetto e mezzo di
assenza e ci è scappata una roba lunghetta, portate pazienza. Incomincio questo
polpettone parte seconda chiedendovi scusa: ritardo a parte, so che alcune
scene di questo capitolo non sono il massimo, avrei dovuto (e avrei potuto)
scriverle meglio, ma mi sono lasciata prendere un po’ dalla fretta e certi
pezzi li avevo scritti fin troppo tempo fa, quindi il risultato finale è stato
un pasticcio. Ho cercato di sistemare un po’ tutto in fase di revisione, spero
di essere riuscita a rendere in maniera quanto meno decente il tutto.
Passando
direttamente al capitolo… *sta volta Laura si è preparata e si è portata dietro
gli scatoloni per le scarpe che le verranno lanciate* ebbene sì: la
storia si ripete. Il titolo, in questo caso, riprende due cose diverse. In
primo luogo, ha a che fare con Mason e la maledizione, ma, come lascia
suggerire la citazione iniziale del capitolo - tratta dalla conversazione
Jeremy/Alaric nell’episodio appunto intitolato History Repeating – il
giro di boa ce l’ha anche Xander a questo giro. E il riferimento alla
storia che si ripete è letteralmente legato a lui, a Lester e alla
storia intesa come materia, come avete potuto notare. Ma andiamo con ordine.
Oh, io
ve l’avevo detto che la persona investita vi avrebbe fatto ridere. Il fatto è
che a me non piace uccidere la gente a caso (ma tanto, virtualmente, vedrete
che lo farò lo stesso xD) e poi volevo ridurre almeno di un poco il senso di
colpa di Mase XD se gli avessi fatto investire un povero giovane nel fior fiore
dei suoi anni o un uomo di mezz’età sposato con figli, mi sarei sentita troppo
in colpa. E così gli ho appioppato il Ricki ubriacone del futuro XD Se non
altro era anziano, e poi non aveva attraversato sulle strisce v.v
E
quindi, Mason scatena la maledizione, ma nessuno (a parte Caroline, la sua
famiglia e probabilmente Oliver) sa che è stato lui a provocare l’incidente; Fell
in primis, crede che a guidare fosse Tyler, e quindi, ora che Clay
è morto, saprà con certezza che papà Lockwood è un lupo mannaro.
Poi
abbiamo Mase, che nonostante fosse indirettamente il protagonista del capitolo,
non si è visto molto; ho preferito far passare tutto ciò che succedeva
attraverso il punto di vista di Tyler e in parte quello di Ricki e
serbare la reazione di Mase a quello che gli sta succedendo per il
capitolo successivo. Già qui, comunque, l’abbiamo visto oscillare un po’. Il
fatto che balbetti, come penso di aver già scritto da qualche parte, è
qualcosa che si porta dietro dalla sua infanzia, e che a volte torna a
infastidirlo (ovviamente in maniera più lieve). In genere quando è
particolarmente nervoso, spaventato o turbato per qualcosa.
Poi c’è Tyler.
Sono i pezzi in ospedale a cui mi riferivo quando dicevo che penso di non
averli scritti abbastanza bene; ho avuto un po’ di difficoltà sia con lui, sia
con Caroline. Il riferimento a “She’s watching
over us”, qui era d’obbligo, perché per me, tutto è nato da lì. Quella
one-shot è nata quando decisi che Mason avrebbe scatenato la maledizione e che
Caroline sarebbe tornata a Mystic Falls dopo tanti anni. È strettamente
collegata a questo capitolo di History Repeating, forse anche perché
spiega molto sul perché Caroline sia così decisa ad aiutare Mase, e sul come
mai tutti sembrino domandarsi “perché proprio lui?” facendo riferimento a
Mason.
Proseguendo
oltre…Il diario di Mason senior, nel caso ci fosse confusione a
riguardo, è il diario che Tyler trova nella cripta e che scopre essere di suo
zio. Quello in cui ha documentato tutto sul periodo precedente alla prima
trasformazione e che contiene il cd proprio con quella.
Poi… Lester
e Xander! Ah, la mia parte preferita del capitolo :3
Tantissimi
parallelismi a TVD in questa conversazione, non ho potuto farne a meno. Mi sono
resa conto scrivendo che i due figli di Xander stanno entrando in contatto con
il sovrannaturale grazie alle due cose che l’hanno permesso al padre: Annabelle,
i diari di Gilbert e un insegnante di storia cacciatore di
vampiri. Lester, tuttavia, non è Alaric, e Xander non è Jeremy. A differenza
del padre che ci è rimasto incappato per caso, Xander usa la sua insufficienza
per cercare di ottenere informazioni sul passato di Mystic Falls. Vedremo se
riuscirà a ricavarne qualcosa, ma confesso che la sua tontaggine un po’ mi
preoccupa XD Ah, e nel prossimo capitolo tornerà lo Xanderine, tranquilli!
Ultima nota e poi fuggo, perché sto scrivendo
davvero troppo! La telefonata Alaric/Jeremy.
Allora, su questo mi volevo proprio soffermare.
Prima di incominciare HR, non avevo un’idea ben precisa su Rick; è un
personaggio che amo e mi sarebbe piaciuto inserirlo, ma stranamente, lo sentivo
come fuoriposto. Lo immaginavo fuori città. Trasferitosi da qualche parte fuori
da MF, e così è stato. Plottando questo capitolo, mi sono resa conto che
sarebbe stato d’obbligo inserirlo in qualche modo almeno in un paragrafo,
perché tutto lo storyline di Xander e Lester si allaccia a lui, per non parlare
della citazione iniziale e del titolo. E così optai per la telefonata
Jeremy/Alaric. ___________SPOILER EPISODIO 3x20___________________________ E
poi mi hanno ucciso Alaric ç___ç E ci sono rimasta malissimo; in fondo avrei
potuto tranquillamente eliminare la scena per mantenere coerenza con il
telefilm, ma non mi andava per niente. Intanto, perché mi piace sapere che Alaric
sia vivo almeno qui, anche se non penso lo vedremo spesso. E secondo, perché
ormai questa storia ci azzecca ben più poco con la terza stagione, quindi,
essendo una what if?, non ho bisogno di adattare il tutto ai nuovi
risvolti della serie. Ma ho comunque pensato di introdurre la morte di Alaric
sottoforma di incubo. Il ‘mio’ Jeremy (quello di Pyramid e History
Repeating, per intenderci) ha spesso di questi incubi, come già ha
accennato nella conversazione con Oliver in “smells like teen spirit” e
come si può vedere in Pyramid. . E ne ho approfittato dell’incubo per inserire
un riferimento alla 3x20, , per poi smentirlo subito con un’immagine serena di
Rick. Ci tenevo proprio. E poi boh, lo ammetto, ci tenevo anche a trollare un
po’ la serie tv, visto che la morte di Rick non mi è proprio andata giù XD ______________FINE
SPOILER EPISODIO 3x20.
E poi che aggiungere? C’è stato finalmente un po’
di Rictoria –w- (Ricki/Vicki) e Julian si è dato da fare per
assicurarsi di non essere l’unico maghetto di Richmond, ma ha anche scoperto
qualcosa che l’ha sorpreso un po’: non è il professore creepy ad essere
stregone, ma la ‘rosicchia-matite’ Aria ad essere una streghetta. Un
po’ ostile, tra l’altro. Scopriremo perché.
Il prossimo capitolo arriverà non so quando e
dovrebbe intitolarsi “Brave New World”, se non erro. Il capitolo si
aggancerà in parte a qualcosa che abbiamo già visto. Posso dire che torneranno
sia Casper che la sua Kat (Oliver e Anna) e che Caroline
manterrà la promessa fatta a Tyler: quella di vegliare su Mase.
Per gli altri personaggi non posso ancora dirvi nulla,perché il capitolo devo
ancora plottarlo *\\\* Vedremo!
Un abbraccio grande a chi è riuscito a sopravvivere
fino alla very end del polpettone, per dirla alla zia Rowling.
Laura