Capitolo
19 – Cecità
«Sei
riuscita a controllare le Percezioni?»
Tono
basso, rassicurante. Solo il silenzio – no, il mormorio
dell’acqua,
smossa dalle ali tremanti – a rispondere a quella domanda.
«La
presenza di un altro allievo era un po’ disturbante, ma pensa
se
fossimo stati in gruppo.»
Nessuna
replica. Un tonfo attutito.
«Lascio
tutto qui sulla panca.»
Passi.
Esitazione. Altri passi nel senso contrario.
«Prima
di andare ti tampono il sangue, va bene?»
Ancora
silenzio. Fruscio. Passi.
«Cerco
di fare piano, ma se gli squarci ti dolgono dillo.»
Gocciolio
– capelli strizzati tra le mani e spostati oltre le spalle,
sul
seno.
«Sono lunghi. Vuoi che li tagliamo?»
Pausa.
«Va bene, li preferisci così.»
Fruscio.
«Sicura,
però? Corti sono più comodi.»
Se
nella stanza vi fosse stata solo Ramiel, probabilmente non sarebbe
cambiato nulla.
Amitiel,
all’ordine di immergersi – perché anche
rilassarsi era un ordine
–, si era seduta sui gradini che portavano alla vasca,
bagnandosi
appena le gambe e l’estremità delle ali tremanti.
Con la schiena
curva per poggiare gli avambracci sulle cosce, fissava il vuoto in
silenzio, come se non capisse nemmeno ciò che Ramiel le
stava
dicendo.
Anche
la Custode posta a vigilare su di loro taceva, senza allontanare quel
cherubino a cui era stato ordinato solo di portare alle compagne
degli abiti – i teli non potevano stringersi al busto senza
infastidire le ali – e che si stava trattenendo oltre il
tempo
consentito.
Tacevano
tutte, in realtà: Amitiel, la Custode, Sachiel, Cassiel. Un
silenzio
rotto solo dal mormorio dell’acqua e dalla voce rasserenante
di
Ramiel, che parlava solo perché lei non c’era
stata, non aveva
visto, non aveva udito; altrimenti non avrebbe trovato la forza per
quel tentativo di conforto, troppo impegnata a mantenersi lucida.
Forse sarebbe stata come Cassiel, gli occhi chiusi e il capo immerso
sott’acqua, nel tentativo di cancellare tutto; forse come
Sachiel,
con la schiena spoglia appoggiata al bordo e le braccia strette al
seno, le labbra morse a sangue, lo sguardo fisso sulla nuova
arrivata. Non come Amitiel, completamente estraniata, ma chi poteva
biasimarla? Per lei era stato peggio – ogni cosa. E per la
sua
compagna, anche, ma quella non aveva ancora finito. Non era ancora
lì
con loro.
Alle
terme degli adulti, non allo Specchio, per essere vicine.
Raggiungibili. Era un pensiero angosciante, rifletté
Sachiel, mentre
guardava Ramiel ripiegare il panno con cui aveva tamponato gli
squarci della compagna. In ogni momento avrebbero potuto mandare a
chiamarle e ricominciare tutto, ancora, di nuovo.
Rabbrividì
e abbassò il viso, per non vedere e non invidiare
quel cherubino di cui, almeno, qualcuno si preoccupava.
...invidiare.
Cosa
c’era da invidiare?
Quella
compagna che le aveva ripulito la schiena dal sangue? Quella compagna
che le stava cospargendo i capelli con gli oli?
Un
insegnante diverso da Kasbeel alla prima classe?
Non
parli come lei, quindi non sei spontanea, immediata. Se davvero
dicessi la verità lo saresti, diresti le cose come ti
vengono in
mente, e si sa che agli allievi di Kasbeel vengono in mente come
parla lei. Il principio lascia i segni, su di noi –
più che sugli
Umani. Più che su ogni altro essere.
Assurdo.
Incomprensibile.
Aveva
passato tutto il ciclo superiore a perdere quello stile così
confusionario nel parlare, e ora... ora non andava bene. Ora
significava mentire.
E,
se nonostante questo continuava a non invidiare Amitiel, era facile
immaginare quanto non invidiasse nemmeno
quell’altra, Anane
– lei sì, l’aveva avuta Kasbeel alla
prima classe. Si pretendeva
che anche lei mentisse perché non parlava come
quell’insegnante.
...e
non le aveva ancora raggiunte, lì, in quella sala, in
quell’edificio
vicino ai Censori in modo angosciante.
Vicino,
non da loro.
Era
già un miglioramento.
«Ferma.»
Passi
rapidi, lievi.
«Ma...»
Singulto
sorpreso.
«Non
puoi. E ora va’, sei qui da troppo.»
Fruscio.
«...vado.»
Passi
lenti, pesanti.
Rialzò
lo sguardo. Anche Cassiel, poco lontana da lei, sollevò il
capo
dall’acqua e fissò la Custode – non
aveva bisogno di socchiudere
gli occhi, perché l’acqua non dava loro fastidio,
a differenza
degli Umani.
Ma
non era il momento di ripassare gli appunti di – fremito di
rancore
– Leliel.
Non
riusciva a capire cosa fosse successo: il cherubino si era
allontanato con espressione sorpresa e furiosa,
l’angelo stava tornando al proprio posto contro la parete con
un
forzato distacco.
Amitiel
fissava ancora il vuoto, ma aveva il busto lievemente voltato, un
braccio disteso per poggiare il polso sul pavimento asciutto, come se
fosse stata mossa da qualcuno e avesse poi dimenticato di tornare
come in origine. Forse non si era nemmeno accorta di aver cambiato
posizione.
C’era
un alone candido, su quel polso – il Fuoco della Guarigione
che
ardeva nei Cherubini era flebile, quasi insignificante. Per
riprendersi in tempi accettabili, il loro corpo non poteva rinunciare
all’intervento dei Guaritori; e il dolore non scemava in
breve
tempo come negli adulti, ma persisteva più a lungo e
più
intensamente.
Che
la compagna volesse bendarle il polso? Che, versata in
quell’arte,
volesse guarirlo?
Qualsiasi
cosa avesse tentato, non era permesso. Non per loro, possibili
traditrici.
...continuava
a sfuggirle il senso di tutto quello.
Assurdità
su assurdità che stavano scalfendo la sua fiducia nel
Paradiso –
una fiducia totale, cieca.
Cieca
davvero, perché non era possibile che non si fosse mai
accorta di
quella ferocia, di quella violenza, o che le avesse giustificate.
Viverle, però, era tutt’altra cosa e... e non era
possibile che
anche quello fosse il
Paradiso.
Cieca.
Cieca.
Ma
aveva visto, ormai; e prima
e dopo – perché
entrava sempre una alla volta, sola, fragile, spaventata –
aveva
udito, udito tanto da star male.
Amitiel,
ancora, non accennava a voler sollevare il polso dal pavimento.
Totale disinteresse, totale alienazione. Spenta. Vuota.
Rabbrividì
e, meschinamente, ringraziò di aver ricevuto un trattamento di
favore.
Per
altre era stato peggio, mille volte peggio.
* * *
Calore.
Un
calore intenso, ustionante. Totalizzante. Tutto il suo essere
concentrato su quella fiamma che ardeva dentro e fuori, avvolgendolo
in una spirale di dolore febbrile.
Era
troppo e ne voleva ancora.
Cos’altro
aspettarsi da chi non assaporava quel calore da secoli?
Un
cherubino che non cede al sonno da interi cicli non si
accontenterà
di un istante di riposo.
Un
umano che non si disseta da giorni non sarà appagato da una
goccia
d’acqua.
Ma
aveva giurato. Secoli che erano sembrati millenni,
ere intere:
un’attesa più lunga di quanto credesse
inizialmente. Era stata una
promessa avventata, strappata dalla rabbia e dalla disperazione, e
quel calore era così invitante, così seducente.
Nessuno l’avrebbe
mai saputo.
...o
forse gli sarebbe rimasta addosso l’impronta di quel
tradimento, la
pelle bruciata, il corpo tiepido. Forse i suoi occhi non avrebbero
più potuto posarsi su quel corpo
– atteso per secoli,
desiderato ancor più a lungo – senza ricordarne un
altro,
bollente, estraneo.
Un
corpo che in quel momento era su di lui, le mani a percorrergli il
torace lacerando il tessuto con le unghie, la pelle ambrata celata
appena dalle vesti. Un corpo seducente. Caldo. Demoniaco.
Il
viso della donna era impassibile, le palpebre rilassate calate sugli
occhi, le labbra distese in un vago sorriso senza significato. O lo
stava schernendo?
Sì,
stava schernendo quella promessa. Quella debolezza. Quella rinuncia.
Stava schernendo – perché Eisheth di certo
gliel’aveva
raccontato, ghignando – quel rifiuto per il timore di
rovinare
tutto, di perderla ancora senza averla mai ritrovata davvero.
No.
Sei troppo immatura. Non posso.
Chi
si sarebbe fatto tanti scrupoli?
Doveva
apparire ridicolo agli occhi dei Demoni, probabilmente anche a quelli
dei Caduti: un uomo che rinuncia ad essere tale per tener fede ad un
giuramento, un uomo che attende per secoli una femmina priva di
particolari attrattive. Non si era mai udito di nulla di simile
–
se mai era accaduto, gli interessati avevano avuto cura di mantenerlo
riservato.
Interessati
che non avevano una madre vagamente sadica e disturbata come
Eisheth; una madre che, per fare un esempio del tutto casuale,
diffondeva dettagli sulla vita privata dei figli per il solo gusto di
provocarli, o suggeriva a conoscenti fidate di fargli visita.
O
gliela faceva lei stessa con gli identici intenti.
E
stava diventando sempre più difficile rifiutarle, quelle
visite.
Premuto
sul terreno dal lieve peso della donna, assaporava le sue dita
roventi che gli scorrevano sul torace gelido, saggiandone i muscoli,
ignorando il ringhio di minaccia – solo minaccia?
– che lo
faceva vibrare. Scie roventi che gli causavano fremiti, i muscoli
tesi come durante uno scontro, le unghie che artigliavano i fianchi
del demone senza avere la forza di allontanarlo.
Avrebbe
piuttosto voluto rovesciare le posizioni, gravare sul bacino della
donna, stracciarle le vesti e stringere quella carne invitante.
Il
fuoco cresceva. Cresceva. Cresceva. Ardeva con
l’intensità di un
desiderio represso troppo a lungo per un ridicolo
giuramento;
nessuno dei due aveva idea di cosa sarebbe successo in futuro, quando
lei gliel’aveva strappato – erano stati ottimisti.
E
invece non c’era, non c’era il suo corpo tiepido,
non c’era la
sua voce, non c’era più nulla da troppo tempo.
Troppo
condizionata, troppo influenzata lei. Troppo impaziente lui.
Più
nulla.
Solo
quel giuramento e quella donna che gravava sul suo bacino, che
percorreva il suo torace con dita roventi e sorrideva ad occhi
chiusi, come se gli stesse concedendo un grande privilegio –
abituata ad amanti più influenti, più antichi,
più degni della sua
compagnia. Temuta quasi quanto Eisheth, splendida come lei, potente
persino di più.
Desiderabile.
Desiderata.
Da
Naamah puoi ottenere tre cose: il piacere, il futuro e la morte.
E
quel giuramento, quel giuramento che non smetteva di tormentarlo
mentre il demone affondava le unghie nelle sue spalle; pelle
d’arcangelo che non ne rimaneva segnata, che neppure
avvertiva il
dolore, ma fremeva comunque sotto quel tocco.
Voglia.
Lascivia. Desiderio.
Soffocare
nel suo corpo rovente ogni ricordo, ogni rimpianto, ogni promessa
avventata, ogni nome che affiorava alle labbra. Non
è lei. Non è
lei. Stringerla e rubarle quel calore, estinguere il gelo che
avvolgeva i Caduti, sfogare la brama ignorata troppo a lungo. Trovare
il piacere e affogarvi lucidità e pensieri.
Ishild.
Le
labbra della donna sul collo. L’eccitazione come una scossa
lungo
la schiena, le unghie affondate nei suoi fianchi fino a lacerare il
tessuto e incidere la pelle, sangue di demone che colava sulle dita
come fuoco liquido. Un ringhio, le mani a risalire la schiena liscia
– ali da serafino ritirate, cicatrici inesistenti
–, a stracciare
la veste, a stringerla contro di sé.
Ishild.
Quel
nome sussurrato con rabbia, con rimpianto. Con il dolore devastante
che lo accompagnava da secoli, perché non c’era
più nulla, più
nulla, non il suo corpo, non la sua voce, non le notti trascorse ad
attendere l’alba.
La
risata del demone gli giunse alle orecchie, bassa, gentile, del tutto
diversa da quella acuta di Eisheth. Il viso di nuovo sollevato, come
a volerlo guardare dall’alto, ma gli occhi ancora chiusi
– eppure
si sentiva più scrutato che se l’avesse fissato
con le palpebre
sollevate.
«Dunque
tua madre non mentiva.» mormorò, sorridendo
leggermente «Davvero
vuoi mantenere quel giuramento.»
La
rabbia prese il sopravvento. La scostò da sé con
un movimento
furioso, gettandola sul terreno; su di lei, le mani spostate ai lati
del suo viso, resistendo all’impulso di stringerle la gola
–
poteva prevalere fisicamente con il proprio corpo
d’arcangelo, ma
lei gli era immensamente superiore. Poteva vantare
un’Influenza più
potente persino di quella di Eisheth: avrebbe potuto renderlo folle
in pochi istanti. Distruggere ogni pensiero razionale, ogni briciola
di lucidità. Annientare la sua mente con il dolore o farla
divorare
dall’ira.
Non
era sua madre, non poteva sfidarla sapendo di rimanere vivo –
devastato, sì, ma vivo –, ed era anzi una dei
pochi che avrebbero
potuto ucciderlo senza temere la vendetta di Eisheth.
E
la sentiva, sotto di sé. Carne calda, immobile, senza
neppure un
fremito di inquietudine; carne che lo invitava. Lo seduceva.
Non
è lei. Non è lei.
«Molto
poetico, ma poco concreto. Non voglio condividerti con
un’altra.»
mormorò Naamah, sfiorandogli il viso con le dita, come a
voler
ricreare nella propria mente i suoi lineamenti. Non aveva ancora
aperto gli occhi, eppure sembrava sapere esattamente come muoversi.
L’arcangelo
s’irrigidì, i muscoli tesi che trattenevano a
fatica l’impulso
di ferirla, spezzare quel corpo fragile di donna, o... o...
Non
è lei.
Un
ringhio basso, gutturale, animalesco – perché
Naamah non poteva
dissacrare così ogni cosa, non ne aveva il diritto, non ne
aveva
interesse.
«Come
lo sa-»
«Dovresti
stare più attento agli alleati cui ti affidi, arcangelo. La
fiducia va tenuta ben riposta, perché non si sciupi.»
Un
sorriso a tenderle le labbra. Le mani sollevate a sfiorargli il volto
in una carezza materna.
Scostò
il capo con un gesto brusco.
«Non
mi affido a nessuno.»
«In
tal caso, la mia Influenza arriva persino a frugare nella tua memoria
senza che tu te ne accorga. Non ne avevo idea neppure io, ti
assicuro.»
Non
sembrava ironica: stava semplicemente attestando.
Incolore,
neutra. Indifferente.
La
voce un bisbiglio che avrebbe potuto confondersi con il vento, con il
fruscio delle foglie, con il mormorio di un torrente. Come se non
appartenesse a quella dimensione, a quel tempo.
Naamah
non era diafana, non era scarna, ma rimaneva sfuggente.
Come...
«Dumah.»
«Precisamente.»
premé con le mani sul suo torace, per spingerlo a sollevarsi
«Ma
nessuna rivalsa su di lui, se non ti dispiace. Sarebbe tedioso dover
spiegare a tua madre il motivo della tua morte.»
Non
osò tenerla ancora imprigionata a terra e si
rialzò in piedi,
sovrastandola – illusione di supremazia su quel corpo
seducente
disteso a terra, pelle ambrata e graffi intravisti sotto il tessuto.
Illusione di supremazia su un’essenza che avrebbe potuto
annientarlo in pochi istanti.
«Hai
visto la mia reazione?»
«Percepisco
le tue intenzioni.» si rialzò con un movimento
calmo, indolente «Ma
evita, tua madre ti consiglierebbe la stessa cosa – lei sa
quanto
io trovi fastidiosi gli amanti feriti. Non mi piace il
sangue,
Michael.»
Amante?
Ma Dumah era...
Persino
il disgusto, però, fu sopraffatto dall’ira.
Voglia
di attaccarla. Farla a pezzi. Affondare le unghie taglienti nella
pelle, ferendo, lacerando. Mostrare le sue ossa, spezzarle,
frantumarle. Sarebbe bastato sollevare una mano, afferrarle il gomito
e stringere – una pressione minima per il corpo da guerriero
dell’arcangelo, ma in grado di devastare il fragile involucro
del
serafino.
Dilaniarle
la gola, soffocare la sua voce con il suo stesso sangue. Impedirle di
tormentarlo con quel tono neutro – eppure poteva percepire lo
scherno, dietro quell’apparente impassibilità.
Poteva sentirsi
attaccato dal suo sorriso, schernito dalla sua indifferenza.
Stava
sporcando ricordi. Frasi antiche, promesse, sussurri –
nemmeno
sapeva che Dumah li avesse raccolti, quando la sua mente era esposta
e la sua essenza più fragile, sotto la sua Influenza. Parole
custodite gelosamente e strappate, ormai; rovinate. Distrutte da
quella voce impassibile.
Brama
di violenza.
«Non
imporrò la mia compagnia a chi non sa
apprezzarla.» un gesto della
mano sottile «Puoi andare.»
Come
se l’avesse raggiunta Michael e non il contrario. Come se si
fosse
recato da lei.
Rabbia.
Un ringhio in gola, le mani serrate a pugno. Le ali esposte
all’improvviso, tanto bruscamente da provocargli una
fastidiosa
fitta alle scapole – ali nere, ali enormi, ali taglienti, da
arcangelo caduto. Quasi una minaccia.
Il
desiderio estinto da quella voce impassibile, da quelle frasi
pronunciate senza emozione, senza delicatezza, senza nulla di
ciò
che gliele aveva rese care quando era stata un’altra a
mormorarle.
No,
non un’altra. Lei. Ishild.
«Fa’
sapere a tua madre che ora ritengo ripagata ogni cosa.» mosse
di
nuovo la mano, come ad invitarlo ancora ad andarsene «Ma che
non si
avvicini più a Dumah, se non vuole che io mi avvicini a
te.»
«...non
ti ha mandata lei?»
«Che
mi abbia chiesto di incontrarti, caduto, non significa che io
l’abbia
fatto per accontentarla.» fremito delle palpebre chiuse
«E la
prossima volta potrei non avere intenzioni così pacifiche.
Un
patetico giuramento tra due cherubini non
è di mio
interesse.»
Una
spinta con le gambe, un battito rabbioso delle ali.
Allontanarsi
da lei prima di perdere il controllo. Prima che sporcasse del tutto
quel giuramento.
«Non
voglio condividerti con un’altra.»
«Non
credere di essere stata la prima.»
«Importa
l’ultima. Quella che scegli.»
La
donna sollevò le palpebre con un movimento improvviso, ma
non
brusco, quasi pacato. Sollevò il viso per guardarlo
allontanarsi –
o almeno così sembrava.
Gli
occhi, orbite bianche, si perdevano in un punto imprecisato del cielo
notturno.
«Mi
chiedo chi sia più cieco tra noi due, Michael.»
* * *
Il
polso faceva male.
Faceva
male tutto il braccio, in realtà, torto in modo un
po’ strano per
poggiare il dorso della mano sul pavimento senza piegare il busto.
Però
il polso di più.
E
anche la gola.
E
gli squarci.
Aveva
voglia di chiudere gli occhi e strofinarseli, perché le
ciocche
lasciavano gocciolare acqua sul viso, ma sapeva di non averne
bisogno: era una cosa da Umani, quella. Come sbattere le palpebre. O
passarsi le mani tra i capelli, a districare nodi inesistenti. O
singhiozzare. O respirare.
Non
lo avrebbe più fatto. Davvero, aveva capito, non lo avrebbe
più
fatto; perché non erano contenti? Perché dicevano
che non andava
bene? A lei nessuno aveva mai spiegato che gli Umani avevano la
chioma aggrovigliata, o che i loro occhi dovevano chiudersi spesso,
come poteva sapere di imitarli? No, no, certo che non avevano
sbagliato a non spiegarglielo! Solo che lei non poteva
saperlo,
lei non voleva contrariarli, altrimenti non si sarebbe comportata
così.
...a
volte gliel’avevano detto, di non farlo, solo che se
l’era
dimenticato. Le veniva naturale, istintivo, non era colpa sua,
davvero. Lei non voleva, però non riusciva a evitarlo.
Nelchael
l’aveva sempre rimproverata per questo, perché
allora diceva di
non essersene mai accorto? Perché diceva che nessuno le
aveva mai
vietato quei gesti? Ai Censori non si doveva mentire. No, no, non si
doveva; però lui lo stava facendo e lei... lei avrebbe
dovuto dirlo,
che non era vero? E poi cos’altro avrebbe dovuto smentire? Il
racconto di Anane? Le proprie stesse parole?
Voleva
quasi aprire bocca, però l’Autorità
l’aveva fermata con uno
sguardo gelido. Sì, aveva ragione, non poteva interrompere
un
insegnante mentre parlava. Solo che poi l’argomento era
cambiato e
lei si era... dimenticata di smentire Nelchael
– e non aveva
capito cosa ci facesse lui al posto di Ramiel, lì. Forse la
Guardiana era occupata e avevano chiamato il suo insegnante
precedente, dato che era passata alla quinta classe da pochissimo?
Per questo Nelchael era così arrabbiato? Non voleva perdere
tempo
per un cherubino che non era più neanche suo allievo?
Ma
allora potevano aspettare Ramiel, sì, potevano smettere e
farla
tornare dopo...
No.
Era già tutto finito. Era già tutto passato.
Solo
che era un po’ difficile mettere a fuoco la parete di fronte
a lei.
L’acqua creava riflessi strani senza produrre ombre, solo
chiarore
ancora più intenso, e un po’ la confondeva.
Sembrava quasi di
essere ancora seduta in quella stanza bianca –
così bianca che
aveva dovuto socchiudere gli occhi, entrando, anche se a loro la luce
non dava fastidio. Altro comportamento da evitare, se ne sarebbe
ricordata.
Forse
non era normale neanche sentirsi così male, lì.
Così piccola, così
insignificante, così sporca in mezzo a
tutto quel bianco.
Bianco. Bianco. Tutto bianco. Anche il sangue che bagnava gli
squarci, il collo, la divisa, e com’era possibile che si
fosse
danneggiata così? Ma non era tutto suo quel sangue, era
del... del
Custode, e no, non sapeva come avesse fatto a sporcarsi così
tanto,
non se lo ricordava, e neanche come si fosse ferita il collo. O come
avesse perso il nastro per capelli. Davvero, davvero, non se lo
ricordava, perché dovevano arrabbiarsi? Non potevano
lasciarla
andare, per favore?
No.
Finito. Tutto bene.
Non
c’erano più le loro voci, i loro volti, le loro
insinuazioni. Non
urlavano, no; e neppure accusavano. Erano delicati – la
devastavano
con un sorriso gentile sulle labbra. Distruggevano ogni cosa. Ogni
cosa.
Ed
era quasi arrivata a credere che davvero Anane l’avesse
tradita,
che non le importasse nulla di lei, che fosse un legame sbagliato.
Ed
era quasi arrivata a credere di essere un errore continuo, con quei
suoi comportamenti troppo umani e la sua poca devozione, la sua poca
sincerità – ma quando aveva dimostrato poca
devozione, poca
sincerità? Cosa volevano dire?
Ed
era quasi arrivata a credere di voler dire loro
tutto, tutto.
Che Nelchael non aveva detto la verità, che Ramiel aveva un
rapporto
speciale con Raphael, che Anane era una traditrice. Che lei... lei
non aveva fatto niente di male, davvero. Non avrebbe potuto
impedire niente di quello che era successo, era solo un cherubino.
...il
polso. Male. Perché Nelchael aveva stretto così
tanto?
Ed
era stanca, stanca come le sembrava di non essere mai stata: il corpo
faticava a muoversi, l’essenza si stendeva in un velo esausto
e
labile, il sangue scorreva rapido cercando di dare energia –
ma
anche il sangue era essenza, essenza fisica, liquida, fragile e
fondamentale e poca, terribilmente poca.
Non
le avevano lasciate riposare; e lì, lontano dallo Specchio,
nemmeno
avvertivano il Richiamo che scandiva i periodi. Quanto avevano
atteso? Quanto erano rimaste nella vasca? Quanto era durato quello?
Non lo sapeva. Poteva misurarlo unicamente dalla stanchezza e sapeva
solo che era troppo, troppo.
Dormire.
Chiudere gli occhi. Riposare. Glielo avrebbe permesso, la Custode?
Non le serviva nemmeno la Presenza, voleva solo potersi immergere nel
nulla.
Ma
forse, nel sonno, avrebbe rivisto tutto. Rivissuto tutto. Ancora e
ancora e ancora, come non era normale per gli
Angeli –
oblio. Solo oblio, niente sogni, niente incubi. Niente pensieri.
Niente ricordi.
Niente
ossa esposte, organi devastati – un grumo di carne e sangue e
orrore, bianco che si sommava al bianco dandole la nausea e non
importava che fosse una sensazione umana, c’era,
c’era e la
faceva star male.
Niente
arti scomposti, abrasioni, muscoli dilaniati – rosso, rosso
ovunque, che dava fastidio alla testa e al petto e alle ali, come se
la sola presenza di quel fluido fosse in grado d’intossicarla.
Niente
insinuazioni bisbigli accuse sorrisi.
Dormire.
Solo dormire.
...male
al polso.
Una
stretta tiepida, delicata, lo spostò dal pavimento al suo
grembo.
Di
fronte a lei – nemmeno l’aveva messa a fuoco sino a
quell’istante
– l’allieva dell’Autorità, il
viso ad un soffio dal suo, con
un’espressione preoccupata, ansiosa. Le sembrava di scorgerlo
oltre
un velo di nebbia, sfumava di continuo contro il bianco della parete
alle spalle; eppure non ricordava di avere gli occhi danneggiati, non
le facevano male, non percepiva alterazioni. Solo, non riusciva a
vedere quasi nulla.
Quasi
come essere cieca.
Solo
un dettaglio, nitido, in quella nebbia.
Occhi
azzurri.
«Vedi? O sei accecata da tutto questo bianco?»
***
Angolo autrice
Come al solito,
grazie a chi legge, inserisce tra preferiti/seguite/ricordate e un
ringraziamento speciale a chi commenta! (:
E dopo la terribile scoperta che... sì, Eisheth fa avance
sessuali al figlio *coff*... vi do il permesso di insultare la mia
fantasia malata xD
Non sono sicura di poter aggiornare, domenica prossima, causa possibili
impegni per tutta la settimana. Eventualmente, aggiornerò la
domenica successiva (:
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