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Autore: TuttaColpaDelCielo    10/06/2012    5 recensioni
«Ho sbagliato qualcosa?» chiedesti, tremando nel fuoco.
«No. Non hai sbagliato nulla.» ti risposero «Non è colpa tua.»
Ti condannarono ugualmente.

Nata dalle proprie ceneri come l'araba fenice, si chiede Chi sono? e impazzisce lentamente, senza memoria di ciò che fu prima.
Senza passato non c'è futuro; se non eri, non sarai. Allora che senso ha essere?
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo 19 – Cecità





«Sei riuscita a controllare le Percezioni?»
Tono basso, rassicurante. Solo il silenzio – no, il mormorio dell’acqua, smossa dalle ali tremanti – a rispondere a quella domanda.
«La presenza di un altro allievo era un po’ disturbante, ma pensa se fossimo stati in gruppo.»
Nessuna replica. Un tonfo attutito.
«Lascio tutto qui sulla panca.»
Passi. Esitazione. Altri passi nel senso contrario.
«Prima di andare ti tampono il sangue, va bene?»
Ancora silenzio. Fruscio. Passi.
«Cerco di fare piano, ma se gli squarci ti dolgono dillo.»
Gocciolio – capelli strizzati tra le mani e spostati oltre le spalle, sul seno.
«Sono lunghi. Vuoi che li tagliamo?»
Pausa.
«Va bene, li preferisci così.»
Fruscio.
«Sicura, però? Corti sono più comodi.»


Se nella stanza vi fosse stata solo Ramiel, probabilmente non sarebbe cambiato nulla.
Amitiel, all’ordine di immergersi – perché anche rilassarsi era un ordine –, si era seduta sui gradini che portavano alla vasca, bagnandosi appena le gambe e l’estremità delle ali tremanti. Con la schiena curva per poggiare gli avambracci sulle cosce, fissava il vuoto in silenzio, come se non capisse nemmeno ciò che Ramiel le stava dicendo.
Anche la Custode posta a vigilare su di loro taceva, senza allontanare quel cherubino a cui era stato ordinato solo di portare alle compagne degli abiti – i teli non potevano stringersi al busto senza infastidire le ali – e che si stava trattenendo oltre il tempo consentito.
Tacevano tutte, in realtà: Amitiel, la Custode, Sachiel, Cassiel. Un silenzio rotto solo dal mormorio dell’acqua e dalla voce rasserenante di Ramiel, che parlava solo perché lei non c’era stata, non aveva visto, non aveva udito; altrimenti non avrebbe trovato la forza per quel tentativo di conforto, troppo impegnata a mantenersi lucida. Forse sarebbe stata come Cassiel, gli occhi chiusi e il capo immerso sott’acqua, nel tentativo di cancellare tutto; forse come Sachiel, con la schiena spoglia appoggiata al bordo e le braccia strette al seno, le labbra morse a sangue, lo sguardo fisso sulla nuova arrivata. Non come Amitiel, completamente estraniata, ma chi poteva biasimarla? Per lei era stato peggio – ogni cosa. E per la sua compagna, anche, ma quella non aveva ancora finito. Non era ancora lì con loro.
Alle terme degli adulti, non allo Specchio, per essere vicine. Raggiungibili. Era un pensiero angosciante, rifletté Sachiel, mentre guardava Ramiel ripiegare il panno con cui aveva tamponato gli squarci della compagna. In ogni momento avrebbero potuto mandare a chiamarle e ricominciare tutto, ancora, di nuovo.
Rabbrividì e abbassò il viso, per non vedere e non invidiare quel cherubino di cui, almeno, qualcuno si preoccupava.
...invidiare.
Cosa c’era da invidiare?
Quella compagna che le aveva ripulito la schiena dal sangue? Quella compagna che le stava cospargendo i capelli con gli oli?
Un insegnante diverso da Kasbeel alla prima classe?
Non parli come lei, quindi non sei spontanea, immediata. Se davvero dicessi la verità lo saresti, diresti le cose come ti vengono in mente, e si sa che agli allievi di Kasbeel vengono in mente come parla lei. Il principio lascia i segni, su di noi – più che sugli Umani. Più che su ogni altro essere.
Assurdo. Incomprensibile.
Aveva passato tutto il ciclo superiore a perdere quello stile così confusionario nel parlare, e ora... ora non andava bene. Ora significava mentire.
E, se nonostante questo continuava a non invidiare Amitiel, era facile immaginare quanto non invidiasse nemmeno quell’altra, Anane – lei sì, l’aveva avuta Kasbeel alla prima classe. Si pretendeva che anche lei mentisse perché non parlava come quell’insegnante.
...e non le aveva ancora raggiunte, lì, in quella sala, in quell’edificio vicino ai Censori in modo angosciante.
Vicino, non da loro.
Era già un miglioramento.


«Ferma.»
Passi rapidi, lievi.
«Ma...»
Singulto sorpreso.
«Non puoi. E ora va’, sei qui da troppo.»
Fruscio.
«...vado.»
Passi lenti, pesanti.


Rialzò lo sguardo. Anche Cassiel, poco lontana da lei, sollevò il capo dall’acqua e fissò la Custode – non aveva bisogno di socchiudere gli occhi, perché l’acqua non dava loro fastidio, a differenza degli Umani.
Ma non era il momento di ripassare gli appunti di – fremito di rancore – Leliel.
Non riusciva a capire cosa fosse successo: il cherubino si era allontanato con espressione sorpresa e furiosa, l’angelo stava tornando al proprio posto contro la parete con un forzato distacco.
Amitiel fissava ancora il vuoto, ma aveva il busto lievemente voltato, un braccio disteso per poggiare il polso sul pavimento asciutto, come se fosse stata mossa da qualcuno e avesse poi dimenticato di tornare come in origine. Forse non si era nemmeno accorta di aver cambiato posizione.
C’era un alone candido, su quel polso – il Fuoco della Guarigione che ardeva nei Cherubini era flebile, quasi insignificante. Per riprendersi in tempi accettabili, il loro corpo non poteva rinunciare all’intervento dei Guaritori; e il dolore non scemava in breve tempo come negli adulti, ma persisteva più a lungo e più intensamente.
Che la compagna volesse bendarle il polso? Che, versata in quell’arte, volesse guarirlo?
Qualsiasi cosa avesse tentato, non era permesso. Non per loro, possibili traditrici.
...continuava a sfuggirle il senso di tutto quello.
Assurdità su assurdità che stavano scalfendo la sua fiducia nel Paradiso – una fiducia totale, cieca.
Cieca davvero, perché non era possibile che non si fosse mai accorta di quella ferocia, di quella violenza, o che le avesse giustificate. Viverle, però, era tutt’altra cosa e... e non era possibile che anche quello fosse il Paradiso.
Cieca. Cieca.
Ma aveva visto, ormai; e prima e dopo – perché entrava sempre una alla volta, sola, fragile, spaventata – aveva udito, udito tanto da star male.
Amitiel, ancora, non accennava a voler sollevare il polso dal pavimento. Totale disinteresse, totale alienazione. Spenta. Vuota.
Rabbrividì e, meschinamente, ringraziò di aver ricevuto un trattamento di favore.
Per altre era stato peggio, mille volte peggio.

* * *

Calore.
Un calore intenso, ustionante. Totalizzante. Tutto il suo essere concentrato su quella fiamma che ardeva dentro e fuori, avvolgendolo in una spirale di dolore febbrile.
Era troppo e ne voleva ancora.
Cos’altro aspettarsi da chi non assaporava quel calore da secoli?
Un cherubino che non cede al sonno da interi cicli non si accontenterà di un istante di riposo.
Un umano che non si disseta da giorni non sarà appagato da una goccia d’acqua.
Ma aveva giurato. Secoli che erano sembrati millenni, ere intere: un’attesa più lunga di quanto credesse inizialmente. Era stata una promessa avventata, strappata dalla rabbia e dalla disperazione, e quel calore era così invitante, così seducente. Nessuno l’avrebbe mai saputo.
...o forse gli sarebbe rimasta addosso l’impronta di quel tradimento, la pelle bruciata, il corpo tiepido. Forse i suoi occhi non avrebbero più potuto posarsi su quel corpo – atteso per secoli, desiderato ancor più a lungo – senza ricordarne un altro, bollente, estraneo.
Un corpo che in quel momento era su di lui, le mani a percorrergli il torace lacerando il tessuto con le unghie, la pelle ambrata celata appena dalle vesti. Un corpo seducente. Caldo. Demoniaco. Il viso della donna era impassibile, le palpebre rilassate calate sugli occhi, le labbra distese in un vago sorriso senza significato. O lo stava schernendo?
Sì, stava schernendo quella promessa. Quella debolezza. Quella rinuncia. Stava schernendo – perché Eisheth di certo gliel’aveva raccontato, ghignando – quel rifiuto per il timore di rovinare tutto, di perderla ancora senza averla mai ritrovata davvero.
No. Sei troppo immatura. Non posso.
Chi si sarebbe fatto tanti scrupoli?
Doveva apparire ridicolo agli occhi dei Demoni, probabilmente anche a quelli dei Caduti: un uomo che rinuncia ad essere tale per tener fede ad un giuramento, un uomo che attende per secoli una femmina priva di particolari attrattive. Non si era mai udito di nulla di simile – se mai era accaduto, gli interessati avevano avuto cura di mantenerlo riservato.
Interessati che non avevano una madre vagamente sadica e disturbata come Eisheth; una madre che, per fare un esempio del tutto casuale, diffondeva dettagli sulla vita privata dei figli per il solo gusto di provocarli, o suggeriva a conoscenti fidate di fargli visita. O gliela faceva lei stessa con gli identici intenti.
E stava diventando sempre più difficile rifiutarle, quelle visite.
Premuto sul terreno dal lieve peso della donna, assaporava le sue dita roventi che gli scorrevano sul torace gelido, saggiandone i muscoli, ignorando il ringhio di minaccia – solo minaccia? – che lo faceva vibrare. Scie roventi che gli causavano fremiti, i muscoli tesi come durante uno scontro, le unghie che artigliavano i fianchi del demone senza avere la forza di allontanarlo.
Avrebbe piuttosto voluto rovesciare le posizioni, gravare sul bacino della donna, stracciarle le vesti e stringere quella carne invitante.
Il fuoco cresceva. Cresceva. Cresceva. Ardeva con l’intensità di un desiderio represso troppo a lungo per un ridicolo giuramento; nessuno dei due aveva idea di cosa sarebbe successo in futuro, quando lei gliel’aveva strappato – erano stati ottimisti. E invece non c’era, non c’era il suo corpo tiepido, non c’era la sua voce, non c’era più nulla da troppo tempo. Troppo condizionata, troppo influenzata lei. Troppo impaziente lui.
Più nulla.
Solo quel giuramento e quella donna che gravava sul suo bacino, che percorreva il suo torace con dita roventi e sorrideva ad occhi chiusi, come se gli stesse concedendo un grande privilegio – abituata ad amanti più influenti, più antichi, più degni della sua compagnia. Temuta quasi quanto Eisheth, splendida come lei, potente persino di più.
Desiderabile.
Desiderata.
Da Naamah puoi ottenere tre cose: il piacere, il futuro e la morte.
E quel giuramento, quel giuramento che non smetteva di tormentarlo mentre il demone affondava le unghie nelle sue spalle; pelle d’arcangelo che non ne rimaneva segnata, che neppure avvertiva il dolore, ma fremeva comunque sotto quel tocco.
Voglia. Lascivia. Desiderio.
Soffocare nel suo corpo rovente ogni ricordo, ogni rimpianto, ogni promessa avventata, ogni nome che affiorava alle labbra. Non è lei. Non è lei. Stringerla e rubarle quel calore, estinguere il gelo che avvolgeva i Caduti, sfogare la brama ignorata troppo a lungo. Trovare il piacere e affogarvi lucidità e pensieri.
Ishild.
Le labbra della donna sul collo. L’eccitazione come una scossa lungo la schiena, le unghie affondate nei suoi fianchi fino a lacerare il tessuto e incidere la pelle, sangue di demone che colava sulle dita come fuoco liquido. Un ringhio, le mani a risalire la schiena liscia – ali da serafino ritirate, cicatrici inesistenti –, a stracciare la veste, a stringerla contro di sé.
Ishild.
Quel nome sussurrato con rabbia, con rimpianto. Con il dolore devastante che lo accompagnava da secoli, perché non c’era più nulla, più nulla, non il suo corpo, non la sua voce, non le notti trascorse ad attendere l’alba.
La risata del demone gli giunse alle orecchie, bassa, gentile, del tutto diversa da quella acuta di Eisheth. Il viso di nuovo sollevato, come a volerlo guardare dall’alto, ma gli occhi ancora chiusi – eppure si sentiva più scrutato che se l’avesse fissato con le palpebre sollevate.
«Dunque tua madre non mentiva.» mormorò, sorridendo leggermente «Davvero vuoi mantenere quel giuramento.»
La rabbia prese il sopravvento. La scostò da sé con un movimento furioso, gettandola sul terreno; su di lei, le mani spostate ai lati del suo viso, resistendo all’impulso di stringerle la gola – poteva prevalere fisicamente con il proprio corpo d’arcangelo, ma lei gli era immensamente superiore. Poteva vantare un’Influenza più potente persino di quella di Eisheth: avrebbe potuto renderlo folle in pochi istanti. Distruggere ogni pensiero razionale, ogni briciola di lucidità. Annientare la sua mente con il dolore o farla divorare dall’ira.
Non era sua madre, non poteva sfidarla sapendo di rimanere vivo – devastato, sì, ma vivo –, ed era anzi una dei pochi che avrebbero potuto ucciderlo senza temere la vendetta di Eisheth.
E la sentiva, sotto di sé. Carne calda, immobile, senza neppure un fremito di inquietudine; carne che lo invitava. Lo seduceva.
Non è lei. Non è lei.
«Molto poetico, ma poco concreto. Non voglio condividerti con un’altra.» mormorò Naamah, sfiorandogli il viso con le dita, come a voler ricreare nella propria mente i suoi lineamenti. Non aveva ancora aperto gli occhi, eppure sembrava sapere esattamente come muoversi.
L’arcangelo s’irrigidì, i muscoli tesi che trattenevano a fatica l’impulso di ferirla, spezzare quel corpo fragile di donna, o... o...
Non è lei.
Un ringhio basso, gutturale, animalesco – perché Naamah non poteva dissacrare così ogni cosa, non ne aveva il diritto, non ne aveva interesse.
«Come lo sa-»
«Dovresti stare più attento agli alleati cui ti affidi, arcangelo. La fiducia va tenuta ben riposta, perché non si sciupi.»
Un sorriso a tenderle le labbra. Le mani sollevate a sfiorargli il volto in una carezza materna.
Scostò il capo con un gesto brusco.
«Non mi affido a nessuno.»
«In tal caso, la mia Influenza arriva persino a frugare nella tua memoria senza che tu te ne accorga. Non ne avevo idea neppure io, ti assicuro.»
Non sembrava ironica: stava semplicemente attestando. Incolore, neutra. Indifferente.
La voce un bisbiglio che avrebbe potuto confondersi con il vento, con il fruscio delle foglie, con il mormorio di un torrente. Come se non appartenesse a quella dimensione, a quel tempo.
Naamah non era diafana, non era scarna, ma rimaneva sfuggente.
Come...
«Dumah
«Precisamente.» premé con le mani sul suo torace, per spingerlo a sollevarsi «Ma nessuna rivalsa su di lui, se non ti dispiace. Sarebbe tedioso dover spiegare a tua madre il motivo della tua morte.»
Non osò tenerla ancora imprigionata a terra e si rialzò in piedi, sovrastandola – illusione di supremazia su quel corpo seducente disteso a terra, pelle ambrata e graffi intravisti sotto il tessuto. Illusione di supremazia su un’essenza che avrebbe potuto annientarlo in pochi istanti.
«Hai visto la mia reazione?»
«Percepisco le tue intenzioni.» si rialzò con un movimento calmo, indolente «Ma evita, tua madre ti consiglierebbe la stessa cosa – lei sa quanto io trovi fastidiosi gli amanti feriti. Non mi piace il sangue, Michael.»
Amante? Ma Dumah era...
Persino il disgusto, però, fu sopraffatto dall’ira.
Voglia di attaccarla. Farla a pezzi. Affondare le unghie taglienti nella pelle, ferendo, lacerando. Mostrare le sue ossa, spezzarle, frantumarle. Sarebbe bastato sollevare una mano, afferrarle il gomito e stringere – una pressione minima per il corpo da guerriero dell’arcangelo, ma in grado di devastare il fragile involucro del serafino.
Dilaniarle la gola, soffocare la sua voce con il suo stesso sangue. Impedirle di tormentarlo con quel tono neutro – eppure poteva percepire lo scherno, dietro quell’apparente impassibilità. Poteva sentirsi attaccato dal suo sorriso, schernito dalla sua indifferenza.
Stava sporcando ricordi. Frasi antiche, promesse, sussurri – nemmeno sapeva che Dumah li avesse raccolti, quando la sua mente era esposta e la sua essenza più fragile, sotto la sua Influenza. Parole custodite gelosamente e strappate, ormai; rovinate. Distrutte da quella voce impassibile.
Brama di violenza.
«Non imporrò la mia compagnia a chi non sa apprezzarla.» un gesto della mano sottile «Puoi andare.»
Come se l’avesse raggiunta Michael e non il contrario. Come se si fosse recato da lei.
Rabbia. Un ringhio in gola, le mani serrate a pugno. Le ali esposte all’improvviso, tanto bruscamente da provocargli una fastidiosa fitta alle scapole – ali nere, ali enormi, ali taglienti, da arcangelo caduto. Quasi una minaccia.
Il desiderio estinto da quella voce impassibile, da quelle frasi pronunciate senza emozione, senza delicatezza, senza nulla di ciò che gliele aveva rese care quando era stata un’altra a mormorarle.
No, non un’altra. Lei. Ishild.
«Fa’ sapere a tua madre che ora ritengo ripagata ogni cosa.» mosse di nuovo la mano, come ad invitarlo ancora ad andarsene «Ma che non si avvicini più a Dumah, se non vuole che io mi avvicini a te.»
«...non ti ha mandata lei?»
«Che mi abbia chiesto di incontrarti, caduto, non significa che io l’abbia fatto per accontentarla.» fremito delle palpebre chiuse «E la prossima volta potrei non avere intenzioni così pacifiche. Un patetico giuramento tra due cherubini non è di mio interesse.»
Una spinta con le gambe, un battito rabbioso delle ali.
Allontanarsi da lei prima di perdere il controllo. Prima che sporcasse del tutto quel giuramento.


«Non voglio condividerti con un’altra.»
«Non credere di essere stata la prima.»
«Importa l’ultima. Quella che scegli.»


La donna sollevò le palpebre con un movimento improvviso, ma non brusco, quasi pacato. Sollevò il viso per guardarlo allontanarsi – o almeno così sembrava.
Gli occhi, orbite bianche, si perdevano in un punto imprecisato del cielo notturno.
«Mi chiedo chi sia più cieco tra noi due, Michael.»

* * *

Il polso faceva male.
Faceva male tutto il braccio, in realtà, torto in modo un po’ strano per poggiare il dorso della mano sul pavimento senza piegare il busto.
Però il polso di più.
E anche la gola.
E gli squarci.
Aveva voglia di chiudere gli occhi e strofinarseli, perché le ciocche lasciavano gocciolare acqua sul viso, ma sapeva di non averne bisogno: era una cosa da Umani, quella. Come sbattere le palpebre. O passarsi le mani tra i capelli, a districare nodi inesistenti. O singhiozzare. O respirare.
Non lo avrebbe più fatto. Davvero, aveva capito, non lo avrebbe più fatto; perché non erano contenti? Perché dicevano che non andava bene? A lei nessuno aveva mai spiegato che gli Umani avevano la chioma aggrovigliata, o che i loro occhi dovevano chiudersi spesso, come poteva sapere di imitarli? No, no, certo che non avevano sbagliato a non spiegarglielo! Solo che lei non poteva saperlo, lei non voleva contrariarli, altrimenti non si sarebbe comportata così.
...a volte gliel’avevano detto, di non farlo, solo che se l’era dimenticato. Le veniva naturale, istintivo, non era colpa sua, davvero. Lei non voleva, però non riusciva a evitarlo.
Nelchael l’aveva sempre rimproverata per questo, perché allora diceva di non essersene mai accorto? Perché diceva che nessuno le aveva mai vietato quei gesti? Ai Censori non si doveva mentire. No, no, non si doveva; però lui lo stava facendo e lei... lei avrebbe dovuto dirlo, che non era vero? E poi cos’altro avrebbe dovuto smentire? Il racconto di Anane? Le proprie stesse parole?
Voleva quasi aprire bocca, però l’Autorità l’aveva fermata con uno sguardo gelido. Sì, aveva ragione, non poteva interrompere un insegnante mentre parlava. Solo che poi l’argomento era cambiato e lei si era... dimenticata di smentire Nelchael – e non aveva capito cosa ci facesse lui al posto di Ramiel, lì. Forse la Guardiana era occupata e avevano chiamato il suo insegnante precedente, dato che era passata alla quinta classe da pochissimo? Per questo Nelchael era così arrabbiato? Non voleva perdere tempo per un cherubino che non era più neanche suo allievo?
Ma allora potevano aspettare Ramiel, sì, potevano smettere e farla tornare dopo...
No. Era già tutto finito. Era già tutto passato.
Solo che era un po’ difficile mettere a fuoco la parete di fronte a lei. L’acqua creava riflessi strani senza produrre ombre, solo chiarore ancora più intenso, e un po’ la confondeva. Sembrava quasi di essere ancora seduta in quella stanza bianca – così bianca che aveva dovuto socchiudere gli occhi, entrando, anche se a loro la luce non dava fastidio. Altro comportamento da evitare, se ne sarebbe ricordata.
Forse non era normale neanche sentirsi così male, lì. Così piccola, così insignificante, così sporca in mezzo a tutto quel bianco. Bianco. Bianco. Tutto bianco. Anche il sangue che bagnava gli squarci, il collo, la divisa, e com’era possibile che si fosse danneggiata così? Ma non era tutto suo quel sangue, era del... del Custode, e no, non sapeva come avesse fatto a sporcarsi così tanto, non se lo ricordava, e neanche come si fosse ferita il collo. O come avesse perso il nastro per capelli. Davvero, davvero, non se lo ricordava, perché dovevano arrabbiarsi? Non potevano lasciarla andare, per favore?
No. Finito. Tutto bene.
Non c’erano più le loro voci, i loro volti, le loro insinuazioni. Non urlavano, no; e neppure accusavano. Erano delicati – la devastavano con un sorriso gentile sulle labbra. Distruggevano ogni cosa. Ogni cosa.
Ed era quasi arrivata a credere che davvero Anane l’avesse tradita, che non le importasse nulla di lei, che fosse un legame sbagliato.
Ed era quasi arrivata a credere di essere un errore continuo, con quei suoi comportamenti troppo umani e la sua poca devozione, la sua poca sincerità – ma quando aveva dimostrato poca devozione, poca sincerità? Cosa volevano dire?
Ed era quasi arrivata a credere di voler dire loro tutto, tutto. Che Nelchael non aveva detto la verità, che Ramiel aveva un rapporto speciale con Raphael, che Anane era una traditrice. Che lei... lei non aveva fatto niente di male, davvero. Non avrebbe potuto impedire niente di quello che era successo, era solo un cherubino.
...il polso. Male. Perché Nelchael aveva stretto così tanto?
Ed era stanca, stanca come le sembrava di non essere mai stata: il corpo faticava a muoversi, l’essenza si stendeva in un velo esausto e labile, il sangue scorreva rapido cercando di dare energia – ma anche il sangue era essenza, essenza fisica, liquida, fragile e fondamentale e poca, terribilmente poca.
Non le avevano lasciate riposare; e lì, lontano dallo Specchio, nemmeno avvertivano il Richiamo che scandiva i periodi. Quanto avevano atteso? Quanto erano rimaste nella vasca? Quanto era durato quello? Non lo sapeva. Poteva misurarlo unicamente dalla stanchezza e sapeva solo che era troppo, troppo.
Dormire. Chiudere gli occhi. Riposare. Glielo avrebbe permesso, la Custode? Non le serviva nemmeno la Presenza, voleva solo potersi immergere nel nulla.
Ma forse, nel sonno, avrebbe rivisto tutto. Rivissuto tutto. Ancora e ancora e ancora, come non era normale per gli Angeli – oblio. Solo oblio, niente sogni, niente incubi. Niente pensieri. Niente ricordi.
Niente ossa esposte, organi devastati – un grumo di carne e sangue e orrore, bianco che si sommava al bianco dandole la nausea e non importava che fosse una sensazione umana, c’era, c’era e la faceva star male.
Niente arti scomposti, abrasioni, muscoli dilaniati – rosso, rosso ovunque, che dava fastidio alla testa e al petto e alle ali, come se la sola presenza di quel fluido fosse in grado d’intossicarla.
Niente insinuazioni bisbigli accuse sorrisi.
Dormire. Solo dormire.
...male al polso.
Una stretta tiepida, delicata, lo spostò dal pavimento al suo grembo.
Di fronte a lei – nemmeno l’aveva messa a fuoco sino a quell’istante – l’allieva dell’Autorità, il viso ad un soffio dal suo, con un’espressione preoccupata, ansiosa. Le sembrava di scorgerlo oltre un velo di nebbia, sfumava di continuo contro il bianco della parete alle spalle; eppure non ricordava di avere gli occhi danneggiati, non le facevano male, non percepiva alterazioni. Solo, non riusciva a vedere quasi nulla.
Quasi come essere cieca.
Solo un dettaglio, nitido, in quella nebbia.
Occhi azzurri.


«Vedi? O sei accecata da tutto questo bianco?»





***
Angolo autrice
Come al solito, grazie a chi legge, inserisce tra preferiti/seguite/ricordate e un ringraziamento speciale a chi commenta! (:
E dopo la terribile scoperta che... sì, Eisheth fa avance sessuali al figlio *coff*... vi do il permesso di insultare la mia fantasia malata xD
Non sono sicura di poter aggiornare, domenica prossima, causa possibili impegni per tutta la settimana. Eventualmente, aggiornerò la domenica successiva (:
   
 
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