NOTA DELL’AUTORE: http://www.youtube.com/watch?v=jRXQsQKGqIU questo è il link
della canzone che avete
come indicazione quando verrà citata nella storia, vi assicuro che
metterla
aiuta molto alla creazione dell’atmosfera. Vi auguro buona lettura e
soprattutto che il capitolo sia di vostro gradimento. See ya soon,
dudes!
Come uno stupido topo in trappola,
che cerca di non perdersi
dietro il telefono e la borsa mentre corre alla disperata ricerca della
libertà
nella sua ruota, all’interno di una gabbia ingannevole. È orribile
quando ti
fanno vedere quello che c’è al di là di quelle sbarre ma, sadici loro,
ti impediscono
di arrivarci, anche se tu dovessi metterci tutta la buona volontà di
questo
mondo. Tanto non arriverà mai l’uscita, ma continui a non arrenderti
sin quando
anche la speranza muore. Sin quando non comprendi che quella è la via
sbagliata
per avanzare in quel mondo. Sin quando non ti rendi conto che quella
ruota è
troppo piccola per darti anche solo la parvenza di libertà, puoi
arrivare solo
qualche passo più in là, ma presto girerà e ti lascerà sempre nello
stesso punto.
Non importa quanto ti sforzi, non importa quanto ti impegni o quanta
fatica
fai, non importa se ti sei sbucciato le ginocchia ed i palmi delle mani
per issarti
su quella maledetta banchina, non importa se hai il fiatone per quante
volte
sei scesa e risalita, non importa nemmeno il coraggio avuto, non
importa nulla,
nessuno ti aprirà la porta della gabbia, nessuno ti libererà la coda da
quel
pezzo di ferro che la tiene ancorata al terreno. Corri, topo…corri,
salta,
urla, piangi, topo. Chi ti ascolterà, topo? Nessuno.
Guardo a terra, sotto le suole delle
ballerine rosse c’è
sempre quel nastro bianco sporco e rovinato che dondola i suoi lembi
sfilacciati al vento. Quel quattro maledetto, che vedo sempre sotto i
miei piedi,
perché non si sposta di lì? Giuro che lo sto sperando con tutte le mie
forze,
ma non se ne va, ed oramai il panico del momento inizia a scemare, al
suo posto
si fa largo nell’animo qualcosa di più compassionevole, di più
patetico, è
quella paura di morire lì, inascoltati ad ogni richiesta d’aiuto. La
disperazione nella consapevolezza di poter fare poco altro che farsi
coraggio e…
Volto il capo verso la scala che
scende per i sottopassaggi,
non la guardo per troppo, dopo poco torno con lo sguardo dritto di
fronte a me,
a quella stanzione che, per quanto io possa correre, non raggiungerò
mai. Per
un momento gli occhi scuri mi si caricano di lacrime salate, che
scendono lungo
le guance, solcandole ed attraversandole, silenziose, non un solo
singhiozzo
scaccia quel silezio dal suo trono da sovrano in quel posto. Stringo la
borsa
per un attimo, con fare quasi protettivo, nemmeno fosse un bambino, mi
rendo
conto di avere solo bisogno di qualcuno che mi impedisca di rimanere da
sola,
ma allo stesso tempo di avere la radicata e giustificata paura di
trovare
davvero qualcuno; per questo mi accontento della borsa, è l’appiglio
più sicuro
che ho al momento.
Sento le ginocchia bruciare
prepotentemente e qualche stilla
calda scivolare dal ginocchio, lungo la gamba, sino alla caviglia.
Abbasso lo
sguardo e noto quelle chiazze vermiglie, contornate dal nero dello
sporco
attaccato al cemento della banchina. Piego le ginocchia, poggiando la
borsa a
terra ed aprendola, recupero il pacchetto di fazzoletti di prima e
dell’acqua
da una bottiglietta quasi vuota. Ne bagno uno, con le mani che tremano,
così
come le lacrime non smettono di scendere sulla pelle, macchiandola di
limpido
spavento. Poggio il fazzoletto bagnato sulla ferita aperta sul
ginocchio, il
sinistro, l’altro non sembra grave quanto quest’altro, giusto qualche
abrasione, mentre qui la pelle è venuta via, evidentemente in uno
scatto un po’
troppo brusco, le tipiche sbucciature che fanno piangere i bambini.
Mi rialzo solo dopo aver tamponato la
ferita, recuperando la
borsa e lasciando cadere il fazzoletto insanguinato e bagnato lì
dentro. Volto
di nuovo il capo in direzione di quelle scalette che scendono verso il
basso,
verso quei maledettissimi sottopassaggi, la voglia di scendere là sotto
inizia
a tornarmi, perché è più forte in me l’istinto di sopravvivenza
rispetto al fetore
o anche solo la fobia di quei vermi. Un ultimo tentativo prima di
buttarsi su
quell’ultima spiaggia, un ultima speranza. Infilo la mano nella borsa,
ne tiro
fuori il telefono e con mia grande gioia posso almeno constatare che il
segnale
c’è, al contrario di come oramai iniziavo a sospettare, visto quanto il
posto
somigli in maniera impressionante ad uno di quei cliché in cui il
telefono non prende.
Un sospiro, per quanto a malapena accennato, di solievo. Il
polpastrello
pallido scorre sullo schermo, selezionando sulla rubrica la cara e
vecchia voce
“Mommy”; porto il telefono all’orecchio e per la prima volta prego Dio
che
qualcuno risponda. Squilla…squilla…continua a squillare per secondi che
paiono
infiniti sin quando qualcuno finalmente risponde.
-Mamma?! – la voce trema come trema
anche tutto il resto. Probabilmente
si avverte la paura
che ho addosso, che
sento sgorgare direttamente da dentro, investendomi del tutto.
-Dimmi, Jay – non ho mai amato così
tanto la voce di mia
madre, al momento mi sembra un porto sicuro al quale aggrapparmi – non
dirmi
che devo venirti a prendere alla stazione, te l’avevo detto di chiamare
tuo
padre, io non posso adess…
-No! Aspetta! – la interrompo, prima
che possa andare oltre,
anche perché la prospettiva che non possa venirmi a prendere mi ha
fatto
scendere un brivido lungo la schiena simile a quello provato
all’inizio, quando
sono scesa alla fermata sbagliata – ho sbagliato fermata, e no, non ho
chiamato
papà, ma per favore..non riesco ad arrivare alla stazione ho bisogno
d’aiu… -
sgrano gli occhi e l’espressione si carica di nuovo di terrore.
“Twinkle, twinkle little star, how I
wonder what you are”
-Mamma!? – lo urlo praticamente,
mentre quella voce di
bambina viene accompagnata da una musica bassa, inquietantemente lenta
e
straziante, sì, mi stava distruggendo dentro, perché più la sentivo e
più
chiamavo “mamma” come una bambina spaesata che non sa più dove andare o
cosa
fare. Mamma, mamma, mamma, mamma…rimbombava la mia voce in mezzo a quel
silenzio,
tanto che alla fine la stessa mi si strozzò in gola in un colpo di
tosse, come
se quel medesimo silenzio mi imponesse di tacere e lasciar spandere il
suo dolce
suono.
“Up above the world so high, like a
Diamond in the sky. When
the blazing sun is gone, when there nothing shins upon, then you show
your little
light, Twinkle, Twinkle all the night. Then the travler in the dark,
thanks you
for your little spark. He could not see which way to go, if you did not
twinkle
so. Though I know not what you are, Twinkle, Twinkle little star.”
È famosa, la conoscono tutti, ma
adesso non la conoscono
come la conosco io, sentirmi come un navigatore senza la sua stella a
guidarlo,
perso nel bel mezzo dei sette mari senza sapere dove andare, dove
attaccarsi.
Quella musica dall’altra parte del telefono sembrava totalmente
surreale. Ho
lasciato cadere il telefono e sono indietreggiata sino a sbattere con
la
schiena contro la colonna nel mezzo della banchina. Ho fissato
l’oggetto per
tutta la durata della melodia, con il terrore negli occhi. Con le
lacrime che
sembrava volessero ferire la pelle, scavare ed arrivare alla carne. Con
il
riflesso del falso bisogno di dover deglutire, per mandare giù un rospo
orrendo.
Con le dita che premevano quasi dolorosamente contro il cemento di
quella
colonna. Con le gambe che tremavano, come se fossi appesa a dei fili di
un
palloncino pronti a cedere da un momento all’altro. Con il respiro che,
irregolare, si faceva largo tra le labbra morbide.
Adesso sono seduta a terra, la gonna
in parte sollevata da
quello scivolare contro la colonna che mi ha portato in quella posa; la
schiena
poggiata contro il cemento, le gambe piegate e lo sguardo nero che
continua a
fissare lo schermo acceso del telefono, ove rischiara l’atmosfera la
foto mia e
di Thomas, il mio ragazzo, con i visi vicini e sorridenti, mi ricordo
che
facemmo quella foto qualche mese fa, al parco, sdraiati per terra, con
i
capelli sparsi a raggera sull’erba e la sola voglia di star tranquilli.
Lo fisso,
osservo la luce che a mano a mano si affievolisce ed il telefono fa per
bloccarsi, solo che qualcosa rischiara quello schermo e quella foto.
Sento la
vibrazione del telefono ed osservo come qualcuno stia chiamando. Scatto
sulle
ginocchia in avanti, recuperando frettolosamente il piccolo
apparecchio. Mi
mordo nervosamente un labbro nel leggere il nome “Mommy”, faccio
scorrere il
polpastrello dell’indice sul display e porto il telefono all’orecchio.
-Mamma? – un chiamare timoroso e
spezzato da quel pianto
silenzioso stavolta. Dall’altra parte del telefono niente più di un
semplice
respiro ed uno sbuffo appena accennato che mi fa immaginare solo una
smorfia
soddisfatta sul volto di qualcuno, non saprei dire chi, se mia madre o
chissà
chi altri. Sta di fatto che la richiamo – mamma… - sempre più mormorato
il
tono, sempre più basso ed appena udibile. E dopo quello solo il suono
triste di
una chiamata interrotta. Tiro via il telefono dall’orecchio e fisso lo
schermo,
niente di più di quella foto dai colori brillanti. Lo blocco e lo
reinfilo
nella borsa.
Mi decido a rialzarmi alla fine di
quella chiamata nonsense,
mi rialzo e prendo una profondissima boccata d’aria, posando per
l’ennesima
volta lo sguardo su quelle scale, loro, sono la mia unica via di fuga
da questa
ruota troppo stretta. Mi avvicino alla fine, con quel terrore di quella
voce
fanciullesca e quella melodia, quella stupida canzoncina dell’asilo
riadattata
a quel modo..mi rende più inquieta di quanto già io non sia. E quando
il
baratro è l’unico modo per sfuggire alla morte lenta, anche una
pallottola in
testa va bene, per questo lasciavano sempre una pistola a qualcuno
quando
veniva rinchiuso da qualche parte o lasciato su isole deserte o chissà
cos’altro.
Scendere queste scale è la mia personale pallottola, e per una volta
spero che
l’arma sia caricata a salve. Lo spero mentre il tanfo di fogna torna ad
investirmi e le narici prudono e pungono a quel fetido odore. Eppure
scendo,
rendendomi conto che senza telefono non vado da nessuna parte e
sperando che la
batteria tenga abbastanza a lungo da farmi passare tutto il
sottopassaggio.
Torno ad infilare la mano nella
borsa, ferma sul quinto
scalino, riprendo il telefono in mano e non per la prima volta punto la
luce
chiara e fioca su quel buio immenso. Non per la prima volta mi muovo
incerta su
quegli scalini, con la paura di girarmi e trovare qualcosa di alquanto
sgradevole, ma l’obbligo mi impone d’andare avanti o morire.
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