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Autore: EvilGrin    12/06/2012    3 recensioni
"Il treno prende a rallentare, le rotaie sibilano e cigolano nel fermarsi in un fischio ferroso che fa quasi male alle orecchie da sentire. Sono le 23 e 17, sì, è la mia questa. Mi alzo, non rispondo al tizio, non so nemmeno come si chiama, semplicemente recupero la borsa, riallaccio sfacciatamente la camicetta a scacchetti bianchi e rossi ed altrettanto semplicemente mi avvio verso la porta."
Genere: Horror, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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NOTA DELL’AUTORE:   http://www.youtube.com/watch?v=jRXQsQKGqIU   questo è il link della canzone che avete come indicazione quando verrà citata nella storia, vi assicuro che metterla aiuta molto alla creazione dell’atmosfera. Vi auguro buona lettura e soprattutto che il capitolo sia di vostro gradimento. See ya soon, dudes!

 

 

Come uno stupido topo in trappola, che cerca di non perdersi dietro il telefono e la borsa mentre corre alla disperata ricerca della libertà nella sua ruota, all’interno di una gabbia ingannevole. È orribile quando ti fanno vedere quello che c’è al di là di quelle sbarre ma, sadici loro, ti impediscono di arrivarci, anche se tu dovessi metterci tutta la buona volontà di questo mondo. Tanto non arriverà mai l’uscita, ma continui a non arrenderti sin quando anche la speranza muore. Sin quando non comprendi che quella è la via sbagliata per avanzare in quel mondo. Sin quando non ti rendi conto che quella ruota è troppo piccola per darti anche solo la parvenza di libertà, puoi arrivare solo qualche passo più in là, ma presto girerà e ti lascerà sempre nello stesso punto. Non importa quanto ti sforzi, non importa quanto ti impegni o quanta fatica fai, non importa se ti sei sbucciato le ginocchia ed i palmi delle mani per issarti su quella maledetta banchina, non importa se hai il fiatone per quante volte sei scesa e risalita, non importa nemmeno il coraggio avuto, non importa nulla, nessuno ti aprirà la porta della gabbia, nessuno ti libererà la coda da quel pezzo di ferro che la tiene ancorata al terreno. Corri, topo…corri, salta, urla, piangi, topo. Chi ti ascolterà, topo? Nessuno.

 

Guardo a terra, sotto le suole delle ballerine rosse c’è sempre quel nastro bianco sporco e rovinato che dondola i suoi lembi sfilacciati al vento. Quel quattro maledetto, che vedo sempre sotto i miei piedi, perché non si sposta di lì? Giuro che lo sto sperando con tutte le mie forze, ma non se ne va, ed oramai il panico del momento inizia a scemare, al suo posto si fa largo nell’animo qualcosa di più compassionevole, di più patetico, è quella paura di morire lì, inascoltati ad ogni richiesta d’aiuto. La disperazione nella consapevolezza di poter fare poco altro che farsi coraggio e…

 

Volto il capo verso la scala che scende per i sottopassaggi, non la guardo per troppo, dopo poco torno con lo sguardo dritto di fronte a me, a quella stanzione che, per quanto io possa correre, non raggiungerò mai. Per un momento gli occhi scuri mi si caricano di lacrime salate, che scendono lungo le guance, solcandole ed attraversandole, silenziose, non un solo singhiozzo scaccia quel silezio dal suo trono da sovrano in quel posto. Stringo la borsa per un attimo, con fare quasi protettivo, nemmeno fosse un bambino, mi rendo conto di avere solo bisogno di qualcuno che mi impedisca di rimanere da sola, ma allo stesso tempo di avere la radicata e giustificata paura di trovare davvero qualcuno; per questo mi accontento della borsa, è l’appiglio più sicuro che ho al momento.

 

Sento le ginocchia bruciare prepotentemente e qualche stilla calda scivolare dal ginocchio, lungo la gamba, sino alla caviglia. Abbasso lo sguardo e noto quelle chiazze vermiglie, contornate dal nero dello sporco attaccato al cemento della banchina. Piego le ginocchia, poggiando la borsa a terra ed aprendola, recupero il pacchetto di fazzoletti di prima e dell’acqua da una bottiglietta quasi vuota. Ne bagno uno, con le mani che tremano, così come le lacrime non smettono di scendere sulla pelle, macchiandola di limpido spavento. Poggio il fazzoletto bagnato sulla ferita aperta sul ginocchio, il sinistro, l’altro non sembra grave quanto quest’altro, giusto qualche abrasione, mentre qui la pelle è venuta via, evidentemente in uno scatto un po’ troppo brusco, le tipiche sbucciature che fanno piangere i bambini.

 

Mi rialzo solo dopo aver tamponato la ferita, recuperando la borsa e lasciando cadere il fazzoletto insanguinato e bagnato lì dentro. Volto di nuovo il capo in direzione di quelle scalette che scendono verso il basso, verso quei maledettissimi sottopassaggi, la voglia di scendere là sotto inizia a tornarmi, perché è più forte in me l’istinto di sopravvivenza rispetto al fetore o anche solo la fobia di quei vermi. Un ultimo tentativo prima di buttarsi su quell’ultima spiaggia, un ultima speranza. Infilo la mano nella borsa, ne tiro fuori il telefono e con mia grande gioia posso almeno constatare che il segnale c’è, al contrario di come oramai iniziavo a sospettare, visto quanto il posto somigli in maniera impressionante ad uno di quei cliché in cui il telefono non prende. Un sospiro, per quanto a malapena accennato, di solievo. Il polpastrello pallido scorre sullo schermo, selezionando sulla rubrica la cara e vecchia voce “Mommy”; porto il telefono all’orecchio e per la prima volta prego Dio che qualcuno risponda. Squilla…squilla…continua a squillare per secondi che paiono infiniti sin quando qualcuno finalmente risponde.

 

-Mamma?! – la voce trema come trema anche tutto il resto. Probabilmente si  avverte la paura che ho addosso, che sento sgorgare direttamente da dentro, investendomi del tutto.

 

-Dimmi, Jay – non ho mai amato così tanto la voce di mia madre, al momento mi sembra un porto sicuro al quale aggrapparmi – non dirmi che devo venirti a prendere alla stazione, te l’avevo detto di chiamare tuo padre, io non posso adess…

 

-No! Aspetta! – la interrompo, prima che possa andare oltre, anche perché la prospettiva che non possa venirmi a prendere mi ha fatto scendere un brivido lungo la schiena simile a quello provato all’inizio, quando sono scesa alla fermata sbagliata – ho sbagliato fermata, e no, non ho chiamato papà, ma per favore..non riesco ad arrivare alla stazione ho bisogno d’aiu… - sgrano gli occhi e l’espressione si carica di nuovo di terrore.

 

“Twinkle, twinkle little star, how I wonder what you are”

 

-Mamma!? – lo urlo praticamente, mentre quella voce di bambina viene accompagnata da una musica bassa, inquietantemente lenta e straziante, sì, mi stava distruggendo dentro, perché più la sentivo e più chiamavo “mamma” come una bambina spaesata che non sa più dove andare o cosa fare. Mamma, mamma, mamma, mamma…rimbombava la mia voce in mezzo a quel silenzio, tanto che alla fine la stessa mi si strozzò in gola in un colpo di tosse, come se quel medesimo silenzio mi imponesse di tacere e lasciar spandere il suo dolce suono.

 

“Up above the world so high, like a Diamond in the sky. When the blazing sun is gone, when there nothing shins upon, then you show your little light, Twinkle, Twinkle all the night. Then the travler in the dark, thanks you for your little spark. He could not see which way to go, if you did not twinkle so. Though I know not what you are, Twinkle, Twinkle little star.”

 

È famosa, la conoscono tutti, ma adesso non la conoscono come la conosco io, sentirmi come un navigatore senza la sua stella a guidarlo, perso nel bel mezzo dei sette mari senza sapere dove andare, dove attaccarsi. Quella musica dall’altra parte del telefono sembrava totalmente surreale. Ho lasciato cadere il telefono e sono indietreggiata sino a sbattere con la schiena contro la colonna nel mezzo della banchina. Ho fissato l’oggetto per tutta la durata della melodia, con il terrore negli occhi. Con le lacrime che sembrava volessero ferire la pelle, scavare ed arrivare alla carne. Con il riflesso del falso bisogno di dover deglutire, per mandare giù un rospo orrendo. Con le dita che premevano quasi dolorosamente contro il cemento di quella colonna. Con le gambe che tremavano, come se fossi appesa a dei fili di un palloncino pronti a cedere da un momento all’altro. Con il respiro che, irregolare, si faceva largo tra le labbra morbide.

 

Adesso sono seduta a terra, la gonna in parte sollevata da quello scivolare contro la colonna che mi ha portato in quella posa; la schiena poggiata contro il cemento, le gambe piegate e lo sguardo nero che continua a fissare lo schermo acceso del telefono, ove rischiara l’atmosfera la foto mia e di Thomas, il mio ragazzo, con i visi vicini e sorridenti, mi ricordo che facemmo quella foto qualche mese fa, al parco, sdraiati per terra, con i capelli sparsi a raggera sull’erba e la sola voglia di star tranquilli. Lo fisso, osservo la luce che a mano a mano si affievolisce ed il telefono fa per bloccarsi, solo che qualcosa rischiara quello schermo e quella foto. Sento la vibrazione del telefono ed osservo come qualcuno stia chiamando. Scatto sulle ginocchia in avanti, recuperando frettolosamente il piccolo apparecchio. Mi mordo nervosamente un labbro nel leggere il nome “Mommy”, faccio scorrere il polpastrello dell’indice sul display e porto il telefono all’orecchio.

 

-Mamma? – un chiamare timoroso e spezzato da quel pianto silenzioso stavolta. Dall’altra parte del telefono niente più di un semplice respiro ed uno sbuffo appena accennato che mi fa immaginare solo una smorfia soddisfatta sul volto di qualcuno, non saprei dire chi, se mia madre o chissà chi altri. Sta di fatto che la richiamo – mamma… - sempre più mormorato il tono, sempre più basso ed appena udibile. E dopo quello solo il suono triste di una chiamata interrotta. Tiro via il telefono dall’orecchio e fisso lo schermo, niente di più di quella foto dai colori brillanti. Lo blocco e lo reinfilo nella borsa.

 

Mi decido a rialzarmi alla fine di quella chiamata nonsense, mi rialzo e prendo una profondissima boccata d’aria, posando per l’ennesima volta lo sguardo su quelle scale, loro, sono la mia unica via di fuga da questa ruota troppo stretta. Mi avvicino alla fine, con quel terrore di quella voce fanciullesca e quella melodia, quella stupida canzoncina dell’asilo riadattata a quel modo..mi rende più inquieta di quanto già io non sia. E quando il baratro è l’unico modo per sfuggire alla morte lenta, anche una pallottola in testa va bene, per questo lasciavano sempre una pistola a qualcuno quando veniva rinchiuso da qualche parte o lasciato su isole deserte o chissà cos’altro. Scendere queste scale è la mia personale pallottola, e per una volta spero che l’arma sia caricata a salve. Lo spero mentre il tanfo di fogna torna ad investirmi e le narici prudono e pungono a quel fetido odore. Eppure scendo, rendendomi conto che senza telefono non vado da nessuna parte e sperando che la batteria tenga abbastanza a lungo da farmi passare tutto il sottopassaggio.

 

Torno ad infilare la mano nella borsa, ferma sul quinto scalino, riprendo il telefono in mano e non per la prima volta punto la luce chiara e fioca su quel buio immenso. Non per la prima volta mi muovo incerta su quegli scalini, con la paura di girarmi e trovare qualcosa di alquanto sgradevole, ma l’obbligo mi impone d’andare avanti o morire.

  
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