NOTE DELL’AUTORE: questo è un
capitolo di passaggio, come si
suol dire “una cerniera”, quindi non c’è da preoccuparsi se il sentore
d’ansia cala
un poco o non ci sono evoluzioni chissà quanto significative, anche
perché,
come avrete potuto immaginare, la storia procede esattamente come in un
libro e
non può esaurirsi in pochi capitoli, così come ha bisogno dei suoi
tempi per
svilupparsi. Allo stesso tempo io evito di fare capitoli eccessivamente
lunghi,
quindi è possibile che alcuni non siano esattamente “d’impatto”. Spero
vi
piaccia uguale, se qualcosa non va, fatemelo pure sapere, accetto ogni
singolo
tipo di critica, servono a migliorare dopotutto. Buona lettura!
Il tanfo di fogna torna ad investirmi
totalmente, maledetta
me e quando sono uscita, l’unica cosa positiva di quando sono entrata
la prima
volta è che, bene o male, è che alla fine mi ero abituata a quella
puzza a dir
poco asfisiante. Mi penetra nelle narici e le attanaglia, tanto che
porto la
mano a chiuderle ed il palmo di essa a tenere coperte le labbra, in
modo da
filtrare il più possibile l’aria. Mi fermo di nuovo, infilo la mano
libera
nella borsa e tiro fuori l’ormai celebre pacchetto di fazzoletti, che
per altro
stanno per finire. Ne afferro uno con gli incisivi e quindi tiro, in
modo da tirarlo
fuori, per poi tornare ad infilare il pacchetto floscio e mezzo vuoto
nella
borsa, non la chiudo, oramai ho imparato che mi servono di continuo le
poche
cose che sono lì dentro, e la cosa mi fa anche sentire come una piccola
e
sfortunata Mary Poppins, solo che non volo con gli ombrelli, ed inizio
a
pensare che se anche fosse volerei sempre sopra lo stesso, limitato
pezzo di
cielo.
Quando mi accingo a ripartire,
tornare a scendere per quegli
scalini putridi, lo sguardo nero mi cade sulla rosa che mi era caduta
prima in
quel punto, mentre risalivo di corsa. Assottiglio lo sguardo, non
riesco a
vederla bene, è un paio di scalini più giù, quindi mi avvicino e mi
piego anche
sulle ginocchia sanguinanti, attenta a non ruzzolare di sotto per un
piede
messo male, non vi ho parlato anche del mio pessimo equilibrio, vero?
Ma perché
porterei le ballerine altrimenti? Il solo pensiero del tacchi mi fa
venire le
vertigini. Rimango vivamente perplessa quando, osservando la rosa, mi
rendo
conto che è in avanzato stato di decomposizione, i petali sono marciti
ed altro
non sono che una poltiglia scura, così come anche il gambo, pare
tremendamente
fragile. Anche la carta che la circondava non è nel migliore degli
stati,
sembra quasi che sia lì da decenni. Un misero ammasso di nera poltiglia
e
niente più. Era una bellissima rosa, ed adesso niente, solo quello
schifo. Ma
la cosa non è solo brutta a vedersi, a sapere che lì dentro si marcisce
così in
fretta la voglia di passare di lì torna a scomparire, ed anche alla
svelta.
Ma non posso stavolta, stavolta non
posso girare i tacchi e
correre indietro, sarei allo stesso dannato punto di sempre. Mi drizzo
quindi e
punto la luce di fronte a me, intravedo quello che è il pavimento, ma
comprendo
anche quanto la scala vada verso il basso, molto più del normale a
conti fatti.
Continuo a scendere, lentamente ed anche piuttosto scettica, con le
pupille che
si dilatano, che vorrebbero raccogliere tanta più luce di quella poca
che c’è,
che vorrebbero tenere d’occhio ogni singola cosa. Con il cuore in gola
e la
tensione tipica di chi da solo si addentra in un posto che mette tanta
soggezione, così volto continuamente il capo, nervosa, scrutando le
pareti,
normali..a parte il degrado che vige qua sotto e che pare aumentare di
metro in
metro. Più scendo e più la cosa si fa decisamente decadente, non mi
piace, no,
per niente. Gli stessi scalini a poco a poco si fanno sempre più
rovinati.
Tanto che, quando sto per arrivare agli ultimi, sento lo scricchiolare
sotto il
piede di quella che sembra un asse di legno e non uno scalino in marmo,
come lo
erano stati tutti gli altri sino a quel punto.
Abbasso lo sguardo e sì, c’è
quell’asse di legno, ma è
breve, copre un punto in cui lo scalino s’è sbeccato e, per evitare di
far
cadere delle persone sbadate come la sottoscritta, devono averla messa
lì,
tuttavia..tuttavia non mi fido nemmeno a mettere un piede lì, inizio a
credere
che qualsiasi cosa tocco possa crollare da un momento all’altro ed
uccidermi. È
come quando, in casa, di notte, qualsiasi rumore che non dovrebbe
esserci,
nella mente di tutti si materializza in un ladro, aspirante assassino,
pronto a
rubare tutto ed ucciderti nel sonno. Ma in quel caso la coperta ti
protegge ed
alla fine il sonno prende il sopravvento. Qui no, qui non c’è nessun
rumore, è
questa la cosa peggiore, quello che mette ansia del posto è la sua
tranquillità. Paradossale, non trovate? Perché un posto tranquillo
dovrebbe
mettere in qualche modo ansia? Perché? Perché sono così abituata alle
persone
ed al non rimanere sola che questo mi spaventa.
Mai avuta paura del buio? Non
rispondetemi di no, nemmeno io
pensavo di averne paura, ma il buio ingloba, nasconde, ti ruba ogni
respiro e
nel suo silenzio affogano anche le più coraggiose delle persone. Quando
non sai
dove stai andando a parare, se di fronte a te c’è un burrone dal quale
potresti
cadere o meno, allora inizi a tastare con ansia il terreno. Il buio è
subdolo.
Il buio è il miglior giocatore di poker esistente al mondo, i suoi
bluff ti
uccidono.
Though I know not what you are,
Twinkle, Twinkle little star…
Mi blocco sul posto, mi ero giusto
spostata un poco di lato
per poter scendere dove non c’era l’asse di legno scricchiolante, ma
quel
sussurro, sembrava un misero alito di vento, che mi ha fatto gelare il
sangue
in corpo. È stato come sentirlo scivolare lungo la spina dorsale. È
stato come
vivere in un sogno per un attimo. È stato come la morte, per un attimo
tutti i
sensi sono venuti meno in favore di quell’unico brivido e quel sussurro
alitato
in un orecchio, che adesso mi tamburella il cervello, lo avviluppa in
una
soffice e letale nuvola gelida. Tenendo il fazzoletto recuperato prima
sulle
labbra socchiudo gli occhi e prendo un profondo, quanto riluttante,
respiro e
quindi avanzo, scendendo anche gli ultimi quattro scalini.
Arrivo alla fine di quella scalinata
e con piacevole
sorpresa noto che..che non c’è nulla, non c’è quel fango che immaginavo
avrei
incontrato, non ci sono assassini, non ci sono vermi e non ci sono
ragazzine
canterine, la cosa per lo meno mi rincuora. Avanzo di qualche passo, la
puzza
di fogna non se n’è andata, in compenso le brutte sensazioni iniziano a
scemare. Volgo lo sguardo prima a destra, direziono lì anche la debole
luce del
telefono e l’unica cosa che colgo è un muro a mezzo metro da me, con
una porta
di medie dimensioni in quello che un tempo doveva essere stato ferro,
ma che
adesso è solo una patina arrugginita e consumata dall’ossigeno, se
l’aria lì
sotto si può in qualche modo dire carica di ossigeno, sembra piuttosto
carica
di puzza, questo sì.
Sposto di seguito lo sguardo a
sinistra, devo sicuramente
andare di là. La luce non rivela nulla che non sia un lungo corridoio
in
effetti. Niente di più di un corridoio del quale non si vede nemmeno la
fine.
Beh, giustamente, per essere quarto binario un po’ ci sarà da
camminare. Quello
che lascia al massimo perplessi è che non sembra esserci una scala per
risalire
al terzo binario, solo una porta arrugginita al posto di quella che
dovrebbe
essere un’uscita, ma quella non sembra avere l’aria di esserlo. La coda
dell’occhio
mi cade di lato e la cosa mi fa anche aggrottare la fronte.
Indietreggio di un
passo e poi di un altro ancora, mentre sentito il palpitare non più
ritmico del
cuore, quell’andazzo veloce molto simile agli zoccoli dei cavalli sulla
rossa
terra battuta dell’ippodromo. Gli occhi scuri non si scollano da quel
punto ove
prima c’era la scala per risalire, non si spostano, non si spostano
perché
quella scala non c’è più, che solo un muro alquanto malridotto e
nient’altro.
Ora sì, che sono in trappola. Se prima almeno avevo quella come ucita,
adesso
non c’è più nemmeno quella lì.
Chiudo forte gli occhi al punto che
mi fanno male, se questa
è tutta un’illusione riaprendo gli occhi di certo sparirà, dovrebbe
sparire…forse.
Le mie certezze in merito oramai sono pari a uno strato di carta
velina:
provano ad attaccarsi a tutto, ma possono essere brutalmente spazzate
via anche
dalla più piccola ed insignificante delle cose. Solo dopo significativi
secondi
riapro le palpebre e torno a fissare dritto avanti a me. Le scale? No,
il muro,
quello di poco prima, con quella macchia di muschio in mezzo e qualche
schizzo
marroncino qua e là, la crepa che sale dal pavimento, sulla sinistra
e…e quello
che adesso sembra quasi essere il calco di un volto, un volto deformato
a dire
il vero, ed è così poco accennato che sicuramente me lo avrà fatto
vedere la
mia immaginazione.
Faccio finta di nulla per quanto m’è
concesso, visto che mi
rimane il groppo in gola e non riesco a non sentirmi sempre più
ingabbiata,
come una volpe in mezzo ad un branco di lupi, quando i lupi se ne
stanno in
agguato e nascosti, ma ti braccano lo stesso e te lo fanno comprendere
sbarrandoti a poco a poco la strada, distruggendoti ogni singola via di
fuga.
Porto la luce del telefono verso quella parte di corridoio che non
riesco a
vedere. È l’unica via che m’è rimasta da percorrere, e, francamente,
inizio ad
essere contenta che almeno una ce ne sia.
Prendo in mano quel poco del mio
coraggio che m’è rimasto e
semplicemente avanzo. Porto anche una mano sullo stomaco, nemmeno
avessi una
tremenda paura di rimettere di nuovo da un momento all’altro, dopotutto
qui ne
ho viste già abbastanza di cose per potermi permettere di sospettare
che il mio
stomaco non sia capace di reggerne delle altre. Sta di fatto che
avanzo,
addentrandomi a poco a poco in quel buio che rischiaro appena, di una
luce
fioca e tremolante, semplicemente perché mi trema la mano con la quale
tengo il
telefono.
Ce l’ho in testa quella meldetta
canzone, non riesco a
togliermela dai pensieri, mi ha rigirato ogni singolo neurone e me la
canticchio persino, come uno di quei famosissimi tormentoni estivi che
alla
fine ti fanno venire il voltastomaco per quante volte li senti, ma,
giustamente,
se così non fosse, non sarebbero “tormentoni”. Sento le ginocchia
bruciare
ancora un poco, ma niente di eccessivo, a mano a mano quel dolore sta
passando
sempre di più. Si fa sentire giusto perché sto cercando di camminare
quanto più
rapida possibile, ma senza iniziare a correre, inciamperei, goffa come
so
essere io, quindi mi limito a quella camminata spedita della quale non
riesco a
fare a meno. Qualsiasi cosa qui sotto sembra esistere da millenni per
quanto è
andata a male. Alla fine arrivo sì, ma la tachicardia non fa che
aumentare. Mi
rendo conto di essere Davvero in trappola.
Qui non c’è nulla, sono arrivata alla
fine di quel corridoio
e l’unica cosa che vedo di fronte a me è uno stupidissimo, quanto
sudicio muro
che
{Though I know not what you are,
Twinkle, Twinkle little star…}
non mi fa andare oltre quel misero
punto. Bloccata, bloccata
del tutto.
Mi volto di scatto, ed alle mie
spalle per lo meno non vedo
un mondo tutto nuovo, stavolta non è cambiato nulla. Ho ancora due vie
d’uscita
da quel posto, due porte vecchie e dai cardini arrugginiti, due porte
da
provare, due porte per cercare di fuggire definitivamente di qui. Torno
indietro quindi, con il passo spedito di poco prima, sino a fermarmi
alla prima
delle due porte che incontro, tanta è la voglia ti uscire di nuovo da
lì. Provo
ad aprirla, sì, ma non si sposta, e mi trovo anche a strattonare,
feroce, con
aria spaventata di chi si sente sempre più in trappola e la brutta
sensazione che
sia chiusa anche l’altra. Lo sguardo si posa indagatore poco più in là.
Punto
anche la luce sull’altra porta ancora più arrugginita e verso di quella
ci corro,
anche solo per levarmi di dosso il brutto presentimento riguardante il
suo
poter essere aperta o chiusa. Abbasso la manigia, strattono con foga e
quella
si apre anche.
Rimango immobile per significativi
secondi. In quei
movimenti veloci ho lasciato cadere a terra il fazzoletto, ed inizio ad
immaginare che quello sia divenuto solo una poltiglia orrenda.
Socchiudo le
palpebre e finisco di aprire la porta. E’ buio, anche qui. Torno a
tirare su il
telefono ed illumino quei pochi metri avanti a me. Pare essere un
laboratorio o
qualcosa di molto simile. In un laboratorio ci sarà pure una luce, no?
Volto il
capo prima a sinistra e faccio scorrere lo sguardo sul muro, questo non
è
rovinato, affatto, è di un bianco immacolato e perfetto, in quelle
mattonelle
pallide. Allungo una mano e non fatico a trovare l’interruttore…
|