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Autore: EvilGrin    14/06/2012    1 recensioni
"Il treno prende a rallentare, le rotaie sibilano e cigolano nel fermarsi in un fischio ferroso che fa quasi male alle orecchie da sentire. Sono le 23 e 17, sì, è la mia questa. Mi alzo, non rispondo al tizio, non so nemmeno come si chiama, semplicemente recupero la borsa, riallaccio sfacciatamente la camicetta a scacchetti bianchi e rossi ed altrettanto semplicemente mi avvio verso la porta."
Genere: Horror, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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NOTE DELL’AUTORE: questo è un capitolo di passaggio, come si suol dire “una cerniera”, quindi non c’è da preoccuparsi se il sentore d’ansia cala un poco o non ci sono evoluzioni chissà quanto significative, anche perché, come avrete potuto immaginare, la storia procede esattamente come in un libro e non può esaurirsi in pochi capitoli, così come ha bisogno dei suoi tempi per svilupparsi. Allo stesso tempo io evito di fare capitoli eccessivamente lunghi, quindi è possibile che alcuni non siano esattamente “d’impatto”. Spero vi piaccia uguale, se qualcosa non va, fatemelo pure sapere, accetto ogni singolo tipo di critica, servono a migliorare dopotutto. Buona lettura!

 

*§*EvilGrin*§*

 

Il tanfo di fogna torna ad investirmi totalmente, maledetta me e quando sono uscita, l’unica cosa positiva di quando sono entrata la prima volta è che, bene o male, è che alla fine mi ero abituata a quella puzza a dir poco asfisiante. Mi penetra nelle narici e le attanaglia, tanto che porto la mano a chiuderle ed il palmo di essa a tenere coperte le labbra, in modo da filtrare il più possibile l’aria. Mi fermo di nuovo, infilo la mano libera nella borsa e tiro fuori l’ormai celebre pacchetto di fazzoletti, che per altro stanno per finire. Ne afferro uno con gli incisivi e quindi tiro, in modo da tirarlo fuori, per poi tornare ad infilare il pacchetto floscio e mezzo vuoto nella borsa, non la chiudo, oramai ho imparato che mi servono di continuo le poche cose che sono lì dentro, e la cosa mi fa anche sentire come una piccola e sfortunata Mary Poppins, solo che non volo con gli ombrelli, ed inizio a pensare che se anche fosse volerei sempre sopra lo stesso, limitato pezzo di cielo.

 

Quando mi accingo a ripartire, tornare a scendere per quegli scalini putridi, lo sguardo nero mi cade sulla rosa che mi era caduta prima in quel punto, mentre risalivo di corsa. Assottiglio lo sguardo, non riesco a vederla bene, è un paio di scalini più giù, quindi mi avvicino e mi piego anche sulle ginocchia sanguinanti, attenta a non ruzzolare di sotto per un piede messo male, non vi ho parlato anche del mio pessimo equilibrio, vero? Ma perché porterei le ballerine altrimenti? Il solo pensiero del tacchi mi fa venire le vertigini. Rimango vivamente perplessa quando, osservando la rosa, mi rendo conto che è in avanzato stato di decomposizione, i petali sono marciti ed altro non sono che una poltiglia scura, così come anche il gambo, pare tremendamente fragile. Anche la carta che la circondava non è nel migliore degli stati, sembra quasi che sia lì da decenni. Un misero ammasso di nera poltiglia e niente più. Era una bellissima rosa, ed adesso niente, solo quello schifo. Ma la cosa non è solo brutta a vedersi, a sapere che lì dentro si marcisce così in fretta la voglia di passare di lì torna a scomparire, ed anche alla svelta.

 

Ma non posso stavolta, stavolta non posso girare i tacchi e correre indietro, sarei allo stesso dannato punto di sempre. Mi drizzo quindi e punto la luce di fronte a me, intravedo quello che è il pavimento, ma comprendo anche quanto la scala vada verso il basso, molto più del normale a conti fatti. Continuo a scendere, lentamente ed anche piuttosto scettica, con le pupille che si dilatano, che vorrebbero raccogliere tanta più luce di quella poca che c’è, che vorrebbero tenere d’occhio ogni singola cosa. Con il cuore in gola e la tensione tipica di chi da solo si addentra in un posto che mette tanta soggezione, così volto continuamente il capo, nervosa, scrutando le pareti, normali..a parte il degrado che vige qua sotto e che pare aumentare di metro in metro. Più scendo e più la cosa si fa decisamente decadente, non mi piace, no, per niente. Gli stessi scalini a poco a poco si fanno sempre più rovinati. Tanto che, quando sto per arrivare agli ultimi, sento lo scricchiolare sotto il piede di quella che sembra un asse di legno e non uno scalino in marmo, come lo erano stati tutti gli altri sino a quel punto.

 

Abbasso lo sguardo e sì, c’è quell’asse di legno, ma è breve, copre un punto in cui lo scalino s’è sbeccato e, per evitare di far cadere delle persone sbadate come la sottoscritta, devono averla messa lì, tuttavia..tuttavia non mi fido nemmeno a mettere un piede lì, inizio a credere che qualsiasi cosa tocco possa crollare da un momento all’altro ed uccidermi. È come quando, in casa, di notte, qualsiasi rumore che non dovrebbe esserci, nella mente di tutti si materializza in un ladro, aspirante assassino, pronto a rubare tutto ed ucciderti nel sonno. Ma in quel caso la coperta ti protegge ed alla fine il sonno prende il sopravvento. Qui no, qui non c’è nessun rumore, è questa la cosa peggiore, quello che mette ansia del posto è la sua tranquillità. Paradossale, non trovate? Perché un posto tranquillo dovrebbe mettere in qualche modo ansia? Perché? Perché sono così abituata alle persone ed al non rimanere sola che questo mi spaventa.

 

Mai avuta paura del buio? Non rispondetemi di no, nemmeno io pensavo di averne paura, ma il buio ingloba, nasconde, ti ruba ogni respiro e nel suo silenzio affogano anche le più coraggiose delle persone. Quando non sai dove stai andando a parare, se di fronte a te c’è un burrone dal quale potresti cadere o meno, allora inizi a tastare con ansia il terreno. Il buio è subdolo. Il buio è il miglior giocatore di poker esistente al mondo, i suoi bluff ti uccidono.

 

Though I know not what you are, Twinkle, Twinkle little star…

 

Mi blocco sul posto, mi ero giusto spostata un poco di lato per poter scendere dove non c’era l’asse di legno scricchiolante, ma quel sussurro, sembrava un misero alito di vento, che mi ha fatto gelare il sangue in corpo. È stato come sentirlo scivolare lungo la spina dorsale. È stato come vivere in un sogno per un attimo. È stato come la morte, per un attimo tutti i sensi sono venuti meno in favore di quell’unico brivido e quel sussurro alitato in un orecchio, che adesso mi tamburella il cervello, lo avviluppa in una soffice e letale nuvola gelida. Tenendo il fazzoletto recuperato prima sulle labbra socchiudo gli occhi e prendo un profondo, quanto riluttante, respiro e quindi avanzo, scendendo anche gli ultimi quattro scalini.

 

Arrivo alla fine di quella scalinata e con piacevole sorpresa noto che..che non c’è nulla, non c’è quel fango che immaginavo avrei incontrato, non ci sono assassini, non ci sono vermi e non ci sono ragazzine canterine, la cosa per lo meno mi rincuora. Avanzo di qualche passo, la puzza di fogna non se n’è andata, in compenso le brutte sensazioni iniziano a scemare. Volgo lo sguardo prima a destra, direziono lì anche la debole luce del telefono e l’unica cosa che colgo è un muro a mezzo metro da me, con una porta di medie dimensioni in quello che un tempo doveva essere stato ferro, ma che adesso è solo una patina arrugginita e consumata dall’ossigeno, se l’aria lì sotto si può in qualche modo dire carica di ossigeno, sembra piuttosto carica di puzza, questo sì.

 

Sposto di seguito lo sguardo a sinistra, devo sicuramente andare di là. La luce non rivela nulla che non sia un lungo corridoio in effetti. Niente di più di un corridoio del quale non si vede nemmeno la fine. Beh, giustamente, per essere quarto binario un po’ ci sarà da camminare. Quello che lascia al massimo perplessi è che non sembra esserci una scala per risalire al terzo binario, solo una porta arrugginita al posto di quella che dovrebbe essere un’uscita, ma quella non sembra avere l’aria di esserlo. La coda dell’occhio mi cade di lato e la cosa mi fa anche aggrottare la fronte. Indietreggio di un passo e poi di un altro ancora, mentre sentito il palpitare non più ritmico del cuore, quell’andazzo veloce molto simile agli zoccoli dei cavalli sulla rossa terra battuta dell’ippodromo. Gli occhi scuri non si scollano da quel punto ove prima c’era la scala per risalire, non si spostano, non si spostano perché quella scala non c’è più, che solo un muro alquanto malridotto e nient’altro. Ora sì, che sono in trappola. Se prima almeno avevo quella come ucita, adesso non c’è più nemmeno quella lì.

 

Chiudo forte gli occhi al punto che mi fanno male, se questa è tutta un’illusione riaprendo gli occhi di certo sparirà, dovrebbe sparire…forse. Le mie certezze in merito oramai sono pari a uno strato di carta velina: provano ad attaccarsi a tutto, ma possono essere brutalmente spazzate via anche dalla più piccola ed insignificante delle cose. Solo dopo significativi secondi riapro le palpebre e torno a fissare dritto avanti a me. Le scale? No, il muro, quello di poco prima, con quella macchia di muschio in mezzo e qualche schizzo marroncino qua e là, la crepa che sale dal pavimento, sulla sinistra e…e quello che adesso sembra quasi essere il calco di un volto, un volto deformato a dire il vero, ed è così poco accennato che sicuramente me lo avrà fatto vedere la mia immaginazione.

 

Faccio finta di nulla per quanto m’è concesso, visto che mi rimane il groppo in gola e non riesco a non sentirmi sempre più ingabbiata, come una volpe in mezzo ad un branco di lupi, quando i lupi se ne stanno in agguato e nascosti, ma ti braccano lo stesso e te lo fanno comprendere sbarrandoti a poco a poco la strada, distruggendoti ogni singola via di fuga. Porto la luce del telefono verso quella parte di corridoio che non riesco a vedere. È l’unica via che m’è rimasta da percorrere, e, francamente, inizio ad essere contenta che almeno una ce ne sia.

 

Prendo in mano quel poco del mio coraggio che m’è rimasto e semplicemente avanzo. Porto anche una mano sullo stomaco, nemmeno avessi una tremenda paura di rimettere di nuovo da un momento all’altro, dopotutto qui ne ho viste già abbastanza di cose per potermi permettere di sospettare che il mio stomaco non sia capace di reggerne delle altre. Sta di fatto che avanzo, addentrandomi a poco a poco in quel buio che rischiaro appena, di una luce fioca e tremolante, semplicemente perché mi trema la mano con la quale tengo il telefono.

 

Ce l’ho in testa quella meldetta canzone, non riesco a togliermela dai pensieri, mi ha rigirato ogni singolo neurone e me la canticchio persino, come uno di quei famosissimi tormentoni estivi che alla fine ti fanno venire il voltastomaco per quante volte li senti, ma, giustamente, se così non fosse, non sarebbero “tormentoni”. Sento le ginocchia bruciare ancora un poco, ma niente di eccessivo, a mano a mano quel dolore sta passando sempre di più. Si fa sentire giusto perché sto cercando di camminare quanto più rapida possibile, ma senza iniziare a correre, inciamperei, goffa come so essere io, quindi mi limito a quella camminata spedita della quale non riesco a fare a meno. Qualsiasi cosa qui sotto sembra esistere da millenni per quanto è andata a male. Alla fine arrivo sì, ma la tachicardia non fa che aumentare. Mi rendo conto di essere Davvero in trappola.

 

Qui non c’è nulla, sono arrivata alla fine di quel corridoio e l’unica cosa che vedo di fronte a me è uno stupidissimo, quanto sudicio muro che

 

{Though I know not what you are, Twinkle, Twinkle little star…}

 

non mi fa andare oltre quel misero punto. Bloccata, bloccata del tutto.

 

Mi volto di scatto, ed alle mie spalle per lo meno non vedo un mondo tutto nuovo, stavolta non è cambiato nulla. Ho ancora due vie d’uscita da quel posto, due porte vecchie e dai cardini arrugginiti, due porte da provare, due porte per cercare di fuggire definitivamente di qui. Torno indietro quindi, con il passo spedito di poco prima, sino a fermarmi alla prima delle due porte che incontro, tanta è la voglia ti uscire di nuovo da lì. Provo ad aprirla, sì, ma non si sposta, e mi trovo anche a strattonare, feroce, con aria spaventata di chi si sente sempre più in trappola e la brutta sensazione che sia chiusa anche l’altra. Lo sguardo si posa indagatore poco più in là. Punto anche la luce sull’altra porta ancora più arrugginita e verso di quella ci corro, anche solo per levarmi di dosso il brutto presentimento riguardante il suo poter essere aperta o chiusa. Abbasso la manigia, strattono con foga e quella si apre anche.

 

Rimango immobile per significativi secondi. In quei movimenti veloci ho lasciato cadere a terra il fazzoletto, ed inizio ad immaginare che quello sia divenuto solo una poltiglia orrenda. Socchiudo le palpebre e finisco di aprire la porta. E’ buio, anche qui. Torno a tirare su il telefono ed illumino quei pochi metri avanti a me. Pare essere un laboratorio o qualcosa di molto simile. In un laboratorio ci sarà pure una luce, no? Volto il capo prima a sinistra e faccio scorrere lo sguardo sul muro, questo non è rovinato, affatto, è di un bianco immacolato e perfetto, in quelle mattonelle pallide. Allungo una mano e non fatico a trovare l’interruttore…

  
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