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Disclaimer: Questa storia è
stata scritta per puro diletto
personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui
descritto e i personaggi rappresentati sono copyright
dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la
citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite
permesso scritto.
"Nessun uomo sceglie il male perchè è il male.
Lo confonde solo con la felicità, con il bene che cerca."
- Mary Wollstonecraft Shelley -
Cruore manat
Ci
sono storie che affondano le loro radici nelle viscere dell'umanità.
Ci
sono alcune storie - quelle brutte, quelle dal sapore tragico della
profezia - che dipingono il proprio svolgimento con i colori della
guerra e del sangue.
Sono
quelle storie in cui è una puttana a darti i natali e uno spietato
assassino a versare lacrime, le etichette la più bieca forma di
controllo.
Lo
so io, che di quella storia ho fatto la mia seconda pelle.
La
conosco e ne ho esplorato gli amari confini, giacendo poi scomposta e
rotta, al mio fianco i fantasmi di un evo ormai estinto.
L'ho
vissuta e infine compresa, abbracciandola.
E
nel suo abbraccio ho trovato una risposta.
Una
fine e un inizio.
"Erano così
belli insieme, così blasfemi nella loro perfezione, piccola Dyen."
"E perché
si sono lasciati?"
Un sorriso
indulgente curvava sempre le labbra di mia madre a quella domanda
puerile, intrisa di un'innocenza a cui solo i bambini sapevano fare
appello.
"Perché a
volte, tesoro, l'amore è il più amaro dei veleni."
E io aggrottavo le
sopracciglia nella spietata incoscienza dell'infanzia, l'amore una
pallida nebbiolina rosa e bianca in cui pene e sofferenze venivano
lenite dal bacio di un principe.
"L'amore non
è cattivo." ribadivo testarda "l'amore non fa male."
borbottavo nascondendomi dietro le spesse coperte in lana, le fusa di
quel gatto spelacchiato che chiamavamo Pung il sottofondo ideale per
quel momento intimo, privato.
Tasasi di Albir
rideva morbidamente di fronte a quelle giovani e inesperte
convinzioni, regalandomi una tazza di latte fumante e il continuo di
una storia che, per anni, aveva fatto da epifania al mio sonno.
"In
principio furono Varok e Matharet, piccola mia..."
"Il nostro
mondo non è sempre stato come lo vedi ora, Dyen.
In origine vi era
solo Hoenir, luce e speranza, il nulla colmo del tutto. Ossessionato
dall'idea della perfezione, Hoenir, l'aquila, si strappò il cuore,
ritenendolo impuro e macchiato dalla scintilla del dubbio.
Non vacillò più
l'aquila, ma dal quel piccolo pezzettino di carne nacque Rajas,
chimera e fratello abortito mille e mille volte."
"Fa male
strapparsi il cuore?"
"Ci sono
diversi modi per farlo Dyen, ma non sempre il dolore è lo stesso."
replicava Tasasi laconica, tra le sillabe di una madre i silenzi di
una donna che non poteva - non voleva - raccontare tutta la verità.
"E poi?"
"Si
massacrarono a vicenda per eoni l'aquila e la chimera,
distruggendosi.
E quando la morte
fu loro così vicino da specchiarsi nei loro occhi, videro la cieca
debolezza che li avevi portati a combattersi.
Invidiava un Cielo
tanto agognato Rajas, mentre si dibatteva tra le maglie della paura
Hoenir per le domande che quel fratello maledetto portava con sé."
"È stato dai
loro pezzi che sono nati i demoni e gli angeli?"
"Sì Dyen. Da
ciò che erano nacquero quelli che noi chiamiamo angeli e demoni.
Destinati a incrociare le lame per l'eternità, era nel loro
conflitto che l'universo trovava il suo equilibrio. Nessuna forza
poteva prevalere davvero, poiché nulla è perfetto. Tutto ha già in
sé i germi dell'imperfezione."
Fissava la parete
alle mie spalle Tasasi a quel punto della storia, nell'orbita del suo
sguardo una malinconia che avrei compreso solo anni dopo.
"E...?"
la incitavo sempre, lasciandomi affascinare da un'aquila di
cristallo e una chimera di fumo, figli della stessa pelle.
"E
poi successe quello che portò alla creazione di Matarisvan.
Successe che dubbio e certezza si ricongiunsero nella figura
di Varok e Matharet.
Combattevano su
fronti opposti, il demonio e l'angelo, Dyen. Per millenni versarono
il sangue dell'uno e dell'altro, l'indifferenza e la rabbia l'unica
cosa che i loro cuori erano in grado di provare."
"E poi?'"
"E poi i loro
cuori si stancarono di tutta quella furia di tutto quel dolore, della
guerra. Varok, il pentito del paradiso, trasgredì alle leggi del suo
ordine e gettò le proprie piume su questo mondo, creando il cielo e
la terra, il mare e il fuoco. Schiere e schiere di fedeli li
seguirono nel loro sogno di pace ed equilibrio, la bestia diventare
infine un docile cagnolino."
"Papà dice
che i lupi mordono comunque, anche se sono stati addomesticati."
ribattevo piccata e anche un po' saccente.
Scopriva l'eburneo
dei denti nell'ennesimo sorriso mia madre, lisciandosi metodicamente
i capelli biondi, quasi quel gesto l'aiutasse a trovare le parole
adatte per una bambina di soli dieci inverni.
"E infatti
il lupo non divenne mai veramente cane e furono le sue zanne a dare
dimensione e forma a tutto ciò che Varok aveva creato. Furono le sue
unghie a scavare la dura terra, permettendo che le sue piume
fecondassero il suolo.
Furono i suoi
occhi di predatore ad annientare i nemici, a proteggerci.
Varok era
l'ordine, Matharet la spada."
A quel punto del
racconto, schiudevo sempre la bocca ansiosa, nelle pupille
rifrangersi le scintille che solo la gioia dell'avvicinarsi alla
conclusione poteva darmi.
Mi sollevavo dal
materasso, spiando di sottecchi le imposte chiuse della finestra,
quasi mi aspettassi di vederli davvero quegli occhi vermigli.
Tiravo leggermente
la coda a Pung, generando un basso brontolio e meritandomi un morso
sulla mano, sebbene il contatto con quel pelo ispido generasse in me
l'effimera sicurezza degli illusi.
" E poi si
innamorarono, vero?"
" Esatto,
piccola mia. Varok, un giorno della creazione, guardò quelle polle
rubino in cui tutti i peccati sembravano poter essere condonati e se
ne innamorò. Si amarono per secoli, il fuoco circondare in un
abbraccio il ghiaccio di cui era fatto l'angelo, disgregandolo.
Fu proprio dal
quel ghiaccio, ormai disciolto, che nacquero quelli che noi chiamiamo
Phazani, la prima generazione. Erano i figli prediletti, così
potenti da eguagliare il padre e la madre, così puri da accecare
l'empireo stesso.
Il ghiaccio gli
aveva dato i natali, ma era stato il fuoco ad animarli, creando
l'ossimoro che è racchiuso adesso in noi. Noi siamo il tutto e il
niente. Siamo la forma primigenie di Hoenir e Rajas."
"Allora
perché?"
"Perché
cosa, bambina mia?"
"Perchè si
lasciarono?"
"Perchè
l'amore non è eterno, Dyen. Perchè alcune cose non sono fatte per
stare insieme."
Taceva sempre su
quel perché.
Lasciava che il
sonno mi prendesse, spegnendo quel che rimaneva della debole fiamma
della candela e dispensandomi un'ultima carezza.
Mi addormentavo
con Pung al mio fianco e il sapore dolce delle certezze sulla lingua.
All'epoca, non
potevo sapere che Varok ci aveva maledetto tutti, geloso di un potere
che lui non aveva mai avuto.
All'epoca, non
potevo sapere che Matharet ci aveva amato in un modo contorto,
parossistico.
Che tra le sue
gambe era fluito, feroce, il seme di un amplesso che mai avrebbe
dovuto essere consumato.
Che, alcune volte,
l'unico modo per amare è odiare.
Mia madre era una
buona donna, il cui unico, vero, intento, era proteggere quella
figlia a cui aveva dato tutto.
Raccontava della
creazione, ma non voleva che sapessi della distruzione.
Sciorinava la vita
tra le labbra, quasi la morte fosse un concetto astratto, lontano.
Non voleva farmi
sapere quello che, mio malgrado, avrei appreso solo sei estati dopo.
Che l'amore è la
peggiore delle ferite.
E mentre chiudevo
le palpebre, emettendo un sonoro e soddisfatto sospiro, al sicuro ed
al caldo nella mia casa in pietra bianca, una donna le riapriva a
fatica, il sangue incollarle tra loro.
Una donna che
urlava al firmamento tutto il suo lutto, gemendo nella neve che,
gelida, l'avvolgeva come un tetro sudario di morte.
Una donna cui il
punto fio risiedeva nel petto, all'altezza del cuore.
Era stato il
silenzio ad accogliere le sue esangui parole, il vento tagliente del
nord a portarle fino ai confini di Albir:
"Zanor..."
Ed
è la sua storia che voglio raccontare.
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