Capitolo 4
– Il Giglio
[Data: 21th
November 1042 – 22.27
Luogo:
Monastero Hemsworth
Temperatura
Esterna: 6°C
Temperatura
Interna: 15 °C]
Le candele
dei lampadari della magione ardono ancora, per i corridoi passa il
ragazzino
dei pochi presenti che si occupa di spegnerle, incappandone la fiamma
con una
piccola cupoletta in ferro posta in cima ad un lungo bastone, del
medesimo materiale.
Quelle fiamme mobili, che traballano pericolose, bruciando uno stoppino
annerito e dolorante, esso si piega sconfitto al lieto scorrere degli
eventi
quando non trova aria per poter respirare, soffocata al termine della
serata. I
sospiri degli amanti pregano perché s’estingua da sé, i sussurri del
compagno
la uccidono per errore. Ne rimane solo una triste e sottile scia
biancastra,
che sale inesorabilmente verso l’alto, segnando il termine di quella
momentanea
vita. È come guardare un campo di battaglia, come osservare il tetto di
una
casa ormai arsa, come prendere consapevolezza di una fine non voluta.
Sventola
bandiera bianca al fine e prega per un domani migliore. Si riflette
sulle iridi
corvine di Sam quella scia pallida, traslucida, che canta dei fantasmi
di un
passato anche troppo breve. Si percepiscono unicamente i profili delle
persone
che giacciono in quella stanza, in comune, ci sono circa sette letti,
uno è
vuoto, quattro sono occupati da anime dormienti e due, uno vicino
all’altro, da
due ragazzetti seduti sul bordo, uno di fronte all’altro, il cui
bisbigliare è
stato momentaneamente interrotto da quel soffio di troppo, forse una
bassa
risata, forse stupore. Bryan, il ragazzetto biondo e ben poco piazzato,
ha un
sorriso dipinto sulle labbra, il sorriso furbo di qualcuno che ha
intenzione di
combinarne una delle sue, come al solito. Sam, seduto lì di fronte, lo
osserva
con aria seria, quasi corrucciata, un cipiglio naturale il suo, mentre
par
attendere il resto. Un “resto” che non tarda troppo ad arrivare, la
voce di
Bryan, in quel suo sussurrare, torna a riempire l’aere dei suoi
pensieri.
«Allora? Ci
stai?» chiede, entusiasta, quella voce maschile, seppur non lo si possa
identificare con nulla più di un ragazzo. Stringe le labbra tra di loro
Sam, il
busto coperto unicamente dalla fasciatura di sempre, un paio di
pantaloni
chiari e dalla stoffa morbida ne fasciano le gambe, i capelli scuri
sono scompigliati
e gli occhi fissano quelle poche ombre sul volto dell’altro, disegnate
dal
pallore della luce lunare, che penetra dalle finestre. Solo dopo un po’
i
sussurri di Sam si mescolano all’entusiasmo dell’altro.
«Vincent ha
detto che non possiamo uscire, dice che dopo la morte della figlia di
una
vampira ci cercano e potrebbero attaccare da un momento all’altro.» mai
un filo
di voce macchia e sporca quei bassi sussurri, quasi perfetti nel loro
essere
appena udibili ad un umano orecchio. Non così basso lo sbuffare dal
sapore
spazientito di Bryan, che finisce con l’alzarsi da quel letto,
scivolando a
terra, i piedi che posano sulla pietra fredda e levigata che fa da
pavimento a
quel luogo. La voce dell’altro che non si limita più a sussurrare,
anzi,
qualcuno dei ragazzini dormienti si gira anche.
«Mai visto
nessuno tanto noioso in vita mia, giuro.» volta le spalle a Sam,
alzando il
cuscino posto sul proprio letto, affonda là sotto la mano e ne tira
fuori una
maglia pesante, possibile che fosse per la notte. Un paio di pantaloni
scuri
coprono le gambe esili del ragazzo e ben presto infila i piedi nudi in
un paio
di scarpe pesanti. «Se tu non vieni, vado da me, non mi va di certo di
stare
qui dentro in eterno e poi non possono dirci che fare e quando farlo, è
già
tanto se sto qui a fare i loro comodi» le ultime parole sono dette a
tono
basso, titubante, un po’ come se temesse che qualcuno potesse davvero
udirlo e
lui, nonostante possa apparire momentaneamente fermo nelle sue idee,
non è poi
così coraggioso come lascia ad intendere e porta sin troppo rispetto a
Vincent
e Kurt per pronunciare le medesime parole di fronte a loro.
Sam non si
muove inizialmente, Bryan finisce con l’avanzare sino alla porta in
legno, un
pelo rigonfio e storto dall’umidità, sebbene la cosa non sia eccessiva,
dato
che la porta di per sé ancora si chiude senza incepparsi da nessuna
parte. I passi
ovattati delle scarpe del ragazzo dai capelli biondi si odono
facilmente,
mescolandosi solo di tanto in tanto ai respiri pesanti degli altri
presenti,
che oramai hanno chiuso le palpebre, cedendo al dolce invito di Morfeo
e della
sua mano dolce, che piano ha scivolato sui loro occhi e sulle loro
coscienze. Si
ferma sull’uscio, si volta per un momento in direzione di Sam e
l’osserva, ma
le labbra rimangono mute, non c’è invito in lui, se non nello sguardo,
forse
più una speranza che il ragazzo cambi in qualche modo idea e lo segua,
non
saprebbe dirlo con precisione nemmeno lui. Qualche attimo ed alla fine,
forse
rassegnato, socchiude di poco le palpebre, compiendo quei pochi passi
che lo
portano fuori dalla stanza, chiudendo definitivamente quella porta e
dividendolo dalla presenza degli altri.
L’altro non
si è mosso, le dita sottili e pallide hanno stretto per un momento le
lenzuola
sopra le quali giace, seduto, con le gambe che penzolano in avanti. Gli
occhi
neri si fissano per un attimo sullo stoppino scuro della candela, non
c’è più
quella sottile scia di fumo, non c’è più niente. Immobile nella sua
indecisione, scivola verso il basso, toccando terra con i piedi solo
dopo,
fredda la pietra, come sempre, ma non se ne preoccupa più oramai, pare
averci
fatto l’abitudine in non troppo tempo. Si piega sulle ginocchia,
alzando il
lenzuolo che sfiora il pavimento e lasciandolo piegato su se stesso,
appeso al
bordo del letto. Le mani si spingono sotto il letto medesimo, sino ad
agganciare le maniglie di quella che sembra essere una cosa molto
simile ad una
valigia. Il legno di quel piccolo baule oblungo striscia contro la
pietra,
producendo un rumore ben poco piacevole, vi sono vestiti ripiegati,
biancheria
pulita, giacche e tutto quello che può servire per non andare in giro
nudi ed
infreddoliti per il monastero, deve avergli procurato tutto Vincent.
Mira alle
giacche, prendendo quella più pesante che riesce a scorgere. Ribalta
qualche
altro capo piegato con cura, rovinando quell’incastro altrimenti
perfetto. Posa
la giacca sul letto e torna a spingere all’indietro la cassa, questo
era,
tornando a farla scomparire al di sotto del letto. Si drizza di
seguito,
afferrando il lembo del lenzuolo e lasciando ricadere anche quello
verso il
basso. Tira su anche la giacca, infilandola e chiudendone i bottoni sul
davanti; è di un blu scuro, con dei bottoni in legno tenuti fermi da
delle asole
esterne. Un po’ grande per lui, gli arriva sin sotto il sedere e le
maniche
eccedono in lunghezza di cinque centimetri, più o meno, coprendo gran
parte
delle mani e delle dita.
Si avvicina
al muro, infilando a sua volta i piedi nudi in un paio di scarpe e
terminando
con l’avviarsi, seppur non troppo convinto, verso la porta di quella
stanza,
che tanto sembra una sorta di dormitorio per giovani cacciatori, o
simil cosa.
Con la medesima poca convinzione posa la mano sulla maniglia della
porta
invecchiata, portandola indietro ed uscendo di lì: si cura di
richiudere il
tutto con una cura quasi maniacale, cercando di evitare di lasciare
traccia
alcuna di quella piccola effrazione alle regole, ben sicuro che Vincent
non l’avrebbe
di certo presa bene.
Il
corridoio vuoto, al termine del quale scendono verso il basso le scale
che
portano all’uscita sul lato est della magione, quella più discreta. Sam
di per
sé è abbastanza sicuro che Bryan sia sceso da quella parte, voleva
uscire per
andare a vedere cosa succede poco lontano di lì, dicono che sono stati
avvistati degli animali particolari, fondamentalmente bonari, ma anche
molto
schivi. E si sa, dopotutto, che la curiosità dei bambini è la loro più
grande
peculiarità, sebbene vi sia chi riesce a resistervi e chi, come Bryan,
non può
fare a meno di cedere a quell’invitante desiderio d’avventura e
scoperta, tutto
è nuovo, tutto è messo lì apposta per essere riscoperto, non riesce a
sopportare l’idea di lasciarlo morire a se stesso, deve esserci
qualcuno audace
abbastanza da scrutarlo come non farebbe nessun altro. I passi del
giovane
risuonano a malapena, si muove quanto più silenziosamente possibile,
nel
tentativo di sbrigarsi abbastanza per non rimanere troppo indietro e
perdersi
definitivamente Bryan, non va molto lontano senza il senso
dell’orientamento
dell’altro e la possibilità che ci rimanga bloccato, per il pendio, è
elevata.
Scende le
scale di fretta, lasciando scivolare la mano sulla pietra che costeggia
quella
scala a chiocciola, arrotolata su se stessa sino ad arrivare alla fine,
in un
piccolo atrio, un corridoio lungo che dà da una parte sulla sala da
pranzo, le
cucine e dei piccoli salottini di ritrovo e ristoro; dalla parte
opposta vi è
ovviamente la porta che dà sull’esterno. E’ ancora socchiusa, la cosa
lo fa
sorridere, significa che non è troppo in ritardo e che Bryan non ha
avuto l’accortezza
di lasciare tutto come stava. Deve almeno tenerlo d’occhio, non si
perdonerebbe
più di tanto se dovesse succedergli qualcosa durante la sua assenza, è
più piccolo,
ma ha comunque quella coscienza che premerebbe sulla sua umanità con un
pressante “non ero lì con lui” se solo qualcosa colpisse in qualche
modo Bryan.
Si volta,
richiude la porta piano, lasciandola aperta per uno spiraglio tanto
piccolo e
sottile da poter risultare perfettamente invisibile. È fuori adesso,
possono
colpirlo ora, possono trovarlo, ucciderlo e molto altro ancora. Prende
un
respiro profondo all’idea e finisce con l’avanzare, piano, nel
tentativo di
drizzare le orecchie e cogliere un qualsivoglia rumore che possa dargli
degli
indizi sulla posizione corrente del compagno. L’aria è umida, sembra
voglia
piovere da un momento all’altro e non è detto che inizi, il tempo,
lassù, non è
mai niente di che, sempre troppo scuro e pesante, sempre carico d’acqua
in
qualche modo. Le foglie degli alberi ed i filamenti d’erba quasi
riflettono
quella stessa umidità, dimostrando definitivamente quando possa esser
elevata
la presenza d’acqua.
Un fruscio
poco avanti a lui, il lieve spostamento di alcune foglie, che gli
lasciano
intendere che, probabilmente, Bryan non è molto lontano o che, male che
vada,
avrà occasione di scrutare uno di quegli animali di cui tanto si parla.
Il
terreno, proseguendo, diviene a mano a mano più scosceso, una piccola
discesa inizialmente,
che acquista sempre più pendenza, costringendo Sam ad aggrapparsi agli
alberi
per non pestare qualche sasso e finire a ruzzolare per tutto il fianco
della
montagna. Il respiro solo poco irregolare, non è affatto abituato a
sforzare i
muscoli, in nessun caso, e quel tipo di terreno lo mette non poco in
difficoltà. Un piede dopo l’altro, una sottile risata, la riconosce, è
sicuramente di Bryan, pare rasserenato dalla cosa, dischiude le labbra,
un
alito un pelo più forte, mai macchiato di quella voce che quasi pare
mancargli
o che comunque non sembra amare far sentire agli altri, come fosse una
cosa
strettamente personale, sua e di nessun altro, ed in quanto tale sua
deve
rimanere.
«Bryan.» lo
richiama, quella sottile risata s’interrompe. Sam si ferma, rimanendo
con una
mano poggiata contro la corteggia arzigogolata dell’albero che ora come
ora gli
funge da appoggio ed appiglio, quella cosa che lo salva e che gli fa
abbassare
la guardia dal punto di vista dell’equilibrio, donando lui anche la
possibilità
di potersi guardare meglio intorno, nel distinguere le varie ombre che
la luce
della pallida luna va formando, disegnando così i profili degli oggetti
e di
quel paesaggio fermo. Per lunghi istanti non arriva nessuna risposta
dall’altro,
minuti che passano e che lasciano crescere inevitabile l’ansia nel
giovane ed
inesperto animo del bambino dai capelli scuri. Il battito cardiaco
aumenta
inesorabilmente, ma è quando sente arrivare un mugolio ben poco
rassicurante
che quel cuore perde uno, forse due battiti. Le palpebre che nascondono
le
iridi nere di Sam si spalancano, la sinistra, che non poggia contro
l’albero,
viene repentinamente portata allo stomaco, come in un forte moto di
nausea, si
piega di poco in avanti. L’espressione del volto è contratta in
qualcosa di ben
poco piacevole, ha lo stomaco che si stringe in spasmi continui, uno
dietro l’altro.
Un gemito di dolore viene sputato fuori da quelle labbra tirate sino
all’inverosimile.
Piega le ginocchia, incontrando il terreno in breve tempo. Le dita
premono con
ben poca forza contro addome e corteccia. C’è qualcosa che non va, c’è
qualcosa
che gli impedisce di muoversi, qualcosa che gli da fastidio sin nel
profondo.
Non passano
molti istanti prima che lo colga alla sprovvista l’urlo lanciato da
Bryan,
squarcia il silenzio di quel posto, la sua staticità, crolla tutto in
poco
tempo ed oltre a quel malessere fisico, Sam, riesce a percepire
tangibile
dentro di sé, salire inesorabilmente un malessere ben diverso, quello
che ti fa
tendere i muscoli, che ti spinge ad attaccare quando sei spalle al muro
e
scappare quando hai anche solo una vaga via di fuga: la paura. La paura
che
Bryan possa aver incontrato un vampiro, la paura che possa averci
lasciato le
penne, la paura che possa arrivare anche da lui, ucciderlo, la paura di
quello
che succederà con Vince dopo, ogni singola paura emerge, sovrastando
quella più
piccola, in un effetto domino considerevole. La stessa paura che,
tuttavia, gli
permette ora come ora di fare forza sulle gambe e ritirarsi in piedi,
di
ignorare, con quella forte scarica adrenalinica, di poter ignorare il
dolore ed
il fastidio allo stomaco, con tutta l’intenzione di raggiungere Bryan,
di
cercare di fare qualcosa, fosse anche solo distrarre qualunque cosa gli
stia
facendo male.
I passi
vengono messi uno avanti all’altro con quanta più velocità possibile,
si
intrecciano di tanto in tanto, rischiando di farlo finire a terra, il
pendio
rende difficile lo spostamento, ma sente quel mugolare sempre più
vicino e non
sembra avere particolare cura di quel dolore addominale, che aumenta
per un
attimo, che diviene più acuto, un segnale dall’arme, forse, non
saprebbe dirlo,
un malessere che non aveva notato prima, non saprebbe dirlo. Aumenta,
acuendosi, sin quando qualcosa non lo rimpiazza di colpo; sin quando
qualcosa
non gli fa strabuzzare gli occhi e dischiudere le labbra. Un gemito
strozzato
gli muore in gola, laddove è nato. Il petto si inarca in avanti,
inesorabilmente, per il forte colpo ricevuto in mezzo alle spalle,
all’altezza
della bocca dello stomaco. Annaspa per più di un solo momento. Le
ginocchia
tornano a piegarsi, ma non impatta su di loro stavolta. La pendenza del
fianco
della montagna ha la meglio e Sam finisce con il cadere di lato,
atterrando su
un fianco, in un tonfo per niente rassicurante e relativo scivolare. La
terra
rovina la stoffa della giacca che ha indossato, lacera i pantaloni
bianchi,
graffia e lacera la pelle del volo, qualche sasso finisce con il lenire
la
pelle strappandola.
Senza
respiro non ha nemmeno tempo e forze per urlare, quel forte istinto di
sopravvivenza pare piuttosto accendere, negli occhi neri del ragazzino,
una
luce insolita, pare dar vita ad una sfumatura prima d’ora sopita, uno
scalpitare di una natura auto conservatrice, sino all’ossessione, la
prima cosa
da fare quando si è in pericolo di vita è salvare la propria, non
quella degli
altri. Secondo quell’istintivo criterio dalla mente di Sam scompare
definitivamente la figura di Bryan, il cuore pompa sangue più
velocemente, la
mascella si serra e le dita cercano di afferrare qualsiasi cosa trovino
durante
quella discesa pericolosa. Per qualche metro l’unica cosa che riescono
ad
acciuffare è terra, ma non salda, anzi, friabile, che viene via e non
fornisce
un valido appiglio al corpo del ragazzino. Solo quando incontra un
albero
riesce ad appuntarsi ad una delle radici, terminando solo a quel punto
la sua
discesa.
La pelle è
rovinata, ferita, sia sulle mani che sulla parte destra del volto, meno
sulle
gambe e le ginocchia, ma i pantaloni sono lordi, stracciati, in special
modo
all’altezza delle ginocchia e sul lato destro. Il sangue cola sul viso
disegnando improbabili rivoli, che scendono solcando la muta pelle con
crudeltà,
la macchiano di un colore peccatore, togliendo da quel viso, per una
volta, il
carattere innocente che ha sempre avuto prima di quel giorno. Tutto
tace
adesso, non vi sono più spostamenti, non un solo fruscio, non un verso
od un
mugolio da parte di Bryan, dando solo due possibilità alla cosa: si è
allontanato troppo, lo hanno ucciso. Serra le labbra, dando
inconsapevolmente
per buona la seconda risposta.
Fa forza
sulle braccia, tirando verso l’alto ed issandosi, sino a puntare i
piedi
dapprima contro la corteccia dell’albero, poco dopo sulla radice alla
quale s’era
aggrappato con la mano. Si issa, sino a potersi tenere puntato con i
piedi e
starsene sdraiato a terra, per poter evitare di sforzare ulteriormente
un corpo
già tremendamente indolenzito di suo. Si issa, sino a porsi supino, le
gambe
che circondano il tronco di quell’albero tutto sommato piccolo,
abbastanza da
non risultare scomodo. Contrae l’espressione per un momento. Il dolore
lo
pervade. Non ha un fisico robusto, piuttosto è l’esatto contrario, per
questo
sente i muscoli delle braccia tirare e la pelle bruciare, laddove è
stata
ferita.
Piega il
capo di lato, non sente più nessun rumore. L’unica cosa positiva di
quanto
successo è che il dolore allo stomaco è sparito, piacevolmente sparito,
per la
precisione. Socchiude le palpebre, Sam, più preoccupato, adesso, per
quello che
avrebbe detto Vincent e, soprattutto, intenzionato a tornare alla
magione
unicamente nel giorno successivo, nella speranza di poter recuperare,
durante
la notte, quel briciolo di forze in più che gli avrebbero permesso di
tornare
sino in cima. Socchiude le palpebre. Allunga la destra lungo la terra,
sino a
lambire lo stelo di un piccolo fiore, un semplice giglio, eppure quella
cosa lo
attira in qualche modo, ne cattura la totale attenzione. Esso gli
ricorda di
uno identico, era uscito addirittura da casa per poterlo andare a
cercare e
quello che ne aveva ricavato era solo una prigione che si spacciava per
casa. Nient’altro.
Le palpebre
cadono definitivamente, mentre il vento freddo impatta contro la pelle
ferita,
sente male, sì, ma non osa nemmeno per un momento aprir bocca per
lamentarsi,
no, pare piuttosto imporsi di starsene in silenzio e rannicchiato, in
attesa di
prender sonno, cosa che sarebbe avvenuta solo pochi minuti dopo,
sovrastato, il
fisico, anche dal bisogno di annullare per qualche istante almeno tutto
il
dolore accumulato ed il freddo che ora e solo ora si riversa sulla sua
carne,
messa a nudo dalla discesa poco piacevole, affrontata solo poco prima.
Una lacrima
degna d’un bambino e non d’un uomo corre lungo la guancia a far
bruciare ancor
di più quelle ferite riportate. La paura che a poco a poco torna ad
assalirlo,
scomparsa solo in un momento e tornata ora a tormentarne i sonni.
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