Prologo: Numengard
Prologo:
Nurmengard.
Novembre 1963, da qualche parte nel Nord dell’Europa.
La
neve cadeva copiosa a piccoli fiocchi, sottili come aghi, che
turbinavano nel gelido vento del Nord. Improvvisamente, con un sonoro
POP, comparve dal nulla un uomo, avvolto in un lungo mantello bianco di
pelliccia, che subito si strinse tra le braccia per scaldarsi un poco,
come sorpreso dal gelo inaspettato. Dall’aspetto non poteva avere
molto più di vent’anni, non molto alto, capelli scuri e
una sottile barba che gli copriva le guance e il mento. Il giovane
avanzò lentamente. Il terreno era un’unica distesa bianca:
una vasta radura circondata da altissimi pini, abeti e larici. Un luogo
selvaggio, come fuori dal tempo: odorava di vecchie storie, di mostri
mitologici, di bestie spaventose: un luogo adatto a ciò che
doveva nascondere. “Mi ritrovai per una selva oscura... selvaggia et aspra e forte” recitò tra sé l’uomo con un sorriso “come direbbe il Poeta”.
Ma Dante,
almeno lui, aveva iniziato il suo viaggio immaginario all’inizio
della primavera, non alle soglie dell’inverno, e in un luogo
molto più caldo di quella maledetta foresta dimenticata da
tutti, nel nord della Scandinavia. Nemmeno il mantello di pelliccia
bastava a fornire un calore sufficiente: le gelide raffiche del vento
gli penetravano fin nelle ossa, costringendolo ad arrancare nella neve.
Il giovane estrasse la bacchetta, cercando di aprirsi una via con un
incantesimo che sciogliesse un poco la neve: non serviva a molto, a
dire il vero, ma almeno trasmetteva un po’ di calore.
All’improvviso, come evocata dal nulla, apparve la
fortezza. Nera come la notte stessa, enorme; le grosse pietre di
cui era realizzata erano disposte con tanta cura – fosse stato
fatto grazie all’abilità dei costruttori o per magia
– da non lasciare il minimo appiglio a chiunque fosse stato tanto
folle da volersi arrampicare: un segno e un avvertimento per qualunque
oppositore. Ma ancora più terribile era la grande torre: nera e
altissima – svettava di molto sopra le torri minori –
pareva scavata nella roccia, tanto era liscia: solo poche finestre,
strette e allungate si aprivano su di essa. Nurmengard, la
fortezza-prigione di Grindelwald, il cui nome – dopo oltre venti
anni – era ancora pronunciato con terrore e apprensione sulle
bocche di molti in Europa. Lui però non aveva paura. Non di un
vecchio, ormai sconfitto e prigioniero, da tempo senza speranze.
Levò lo sguardo e lesse la scritta, posta proprio sopra
l’ampio portone d’ingresso, realizzata con rocce rosso
sangue.
“Per il bene superiore”. Quante atrocità, quante
follie erano state compiute in nome di quel motto: stragi di innocenti,
torture, famiglie spezzate. La sua era stata solo una delle tante che
aveva avuto molto da soffrire. Il bene superiore. Aveva imparato a
diffidare di chiunque dicesse di agire per un simile ideale, come se il
fine potesse giustificare qualunque mezzo: coloro che si dicevano in
buona fede erano solo più pericolosi degli altri. “Fur der
Obergute”: c’era qualcosa di ironico, ora, in quella
scritta. Perché era davvero un “bene superiore”
trattenere in carcere e allontanare dal mondo l’unico prigioniero
di quell’oscura fortezza.
Non appena
varcò i cancelli, il carceriere gli venne incontro. Era un uomo
nel complesso sgradevole: basso, grassoccio e untuoso, i corti capelli
erano ispidi e biondi e la barba, ugualmente bionda, era piuttosto mal
curata. Ma era l’unico altro uomo presente in quella maledetta
struttura: con lui solo un gruppo di dissennatori che vagava nel
castello facendo la guardia e rubando la felicità di un unico
prigioniero.
«Benvenuto, Herr Balsamo, il suo arrivo mi era stato annunciato.
Io sono Hermann Koch. Se vuole seguirmi potrà vedere il
prigioniero solo dopo aver firmato alcune carte».
«Preferirei non firmare alcuna carta, Herr Koch; e preferirei
andare solo a trovare il prigioniero».
«Non
credo sia possibile, Herr, ho disposizioni molto rigide a
riguardo...» gli rispose Koch allungando come casualmente una
mano aperta.
Con un sospiro
e un ghigno divertito, il giovane estrasse dalla tasca un sacchetto di
monete e lo lasciò cadere sulla mano aperta del carceriere.
«Sono certo che per Julius Apuleio Balsamo si possa fare
un’eccezione, Herr Koch».
«Naturalmente, signore. Ma... io non ho visto nulla...
Dovrà salire sulla torre più alta. Stia attento ci sono
dei dissennatori in perlustrazione».
«So come
affrontarli, Koch – rispose con un ghigno – non abbia
timore per me». Subito Julius evocò il suo Patronus: non
senza soddisfazione notò l’ombra di uno spavento sul viso
dell’altro uomo. Una reazione indubbiamente naturale: poche
persone avevano per Patronus un enorme serpente Boa. Insolito, ma
intonato al blasone di famiglia: il serpente che si morde la coda,
dorato in campo blu scuro che portava ricamato sulla giacca, proprio
sopra il cuore.
La porta della
cella era di legno solida e massiccia e Julius attese qualche
secondo prima di aprirla con un incantesimo. Fu con una certa emozione
che ne varcò la soglia: stava per incontrare faccia a faccia
Grindelwald, uno dei maghi più potenti di tutti i tempi, colui
che aveva dominato e gettato nel terrore un intero continente appena
venti anni prima.
Lo vide non
appena entrò: stava in piedi, di fronte alla porta, come se lo
stesse aspettando. Lo ricordava da vecchie foto e illustrazioni di
libri e giornali, ma fu comunque una visione impressionante; forse gli
anni avevano forse cominciato a segnarlo, ma poteva ancora dirsi un bel
vecchio: alto e vigoroso. I lunghi capelli, un tempo biondi, si stavano
incanutendo, ma il suo sguardo era ancora fiero e intenso: due occhi
verdi e profondi che lo fissavano con un misto di curiosità,
rispetto e un orgoglio senza fine. Fu lui ad interrompere il silenzio:
aveva una voce chiara, profonda, quasi suadente.
«Buongiorno a te, ragazzo – esclamò, storcendo la
bocca in un sorriso ironico – hai intenzione di stare
lì imbambolato a fissarmi tutto il giorno come una
stuatua? Chi sei? E cosa vuoi? Non sono in molti a voler visitare
questo...castello...»
«Il mio
nome è Julius Apuleio Balsamo. Forse questo nome ti dirà
qualcosa. Dovresti ricordartelo bene, Grindelwald!».
L’ombra dello stupore e del
timore passò nei freddi occhi del mago, ma fu solo un attimo:
presto ritrovò la sua sicurezza e il suo sorriso ironico.
«Julius... ma certo! Devi essere l’ultimo figlio di
Costantino Balsamo, il mio vecchio amico e il mio fido alleato dei
giorni di gloria...»
«Un amico e un alleato che tu hai ucciso» lo interruppe Julius.
«Già!
È vero, mi ricordo bene di quel giorno. Un vero peccato. Tuo
padre era un uomo straordinario e un mago davvero molto abile. Gli
altri miei “collaboratori” non erano che degli idioti pieni
di sé, che vivevano dell’ombra del mio potere, nutrendosi
di esso, riparandosi in esso, facendosi forti della mia forza. Tuo
padre, invece... beh, lui era potente. Potente e molto intelligente. Ma
spesso sono proprio gli uomini intelligenti ad essere i più
pericolosi. E gli uomini pericolosi vanno eliminati. Sei forse venuto
per vendicarlo? Non so che soddisfazione tu possa avere
nell’uccidere uno che è già morto... Ma prego, sono
completamente indifeso!». Il suo sorriso si fece ancora
più pronunciato. Nulla nel tono di Grindelwald indicava che
provasse il minimo rimorso per ciò che aveva compiuto, o che
fosse dispiaciuto per aver ucciso il padre di Julius, o persino che
temesse davvero di essere ucciso: sembrava piuttosto divertito di avere
a che fare con il figlio di un uomo a cui aveva tolto la vita.
«Non
sono venuto per ucciderti, Grindelwald. Anche se devo ammettere che ne
sono molto tentato – disse puntando la bacchetta al petto del
mago – sono venuto per parlarti».
Il vecchio
mago scoppiò a ridere, ignorando la bacchetta puntata al suo
petto, come fosse una cosa della minima importanza. «E
così – disse ridendo – sei venuto fino a qui, in
questo posto dimenticato da Dio, solo per parlare con un inutile
vecchio come me. Davvero non ti capisco ragazzo». Smise di ridere
e fissò Julius negli occhi per qualche istante. Questi non
distolse lo sguardo, malgrado provasse un certo disagio di fronte a
quegli occhi verdi che sembravano volerlo perforare. Sorrise, per darsi
un contegno e rompere la tensione.
«Sai perché ho costruito questo posto, ragazzo?»
Julius rimase un poco interdetto
dall’improvviso cambio di argomento tuttavia si riprese in
fretta. «Per “Il Bene Superiore”?» rispose
senza nascondere l’ironia e un certo disprezzo verso il motto che
Grindelwald aveva sempre sbandierato davanti al mondo.
L’uomo
ignorò completamente la sua risposta «Doveva essere una
prigione, un luogo per confinare i miei oppositori: per tutti coloro
che non comprendevano la mia visione, che non capivano che tutto
ciò che facevo era per il bene superiore. Per coloro, almeno,
che non erano tanto pericolosi da dover essere eliminati. Così
lo scrissi anche sull’ingresso “Fur der Obergute”. Ho
anche pensato di scriverci: Lasciate ogni speranza, voi che
entrate!”. Ci sarebbe stato bene! Forse sarebbe stato anche
più adatto. Dopotutto...tutte le mie speranze si sono infrante
proprio qui, nella prigione che io ho creato... Quale ironia!...»
rispose citando il verso in un italiano perfetto, praticamente privo di
inflessioni.
Quasi suo
malgrado Julius fu colpito. Sentire un verso del Sommo Poeta provenire
proprio dalle labbra di Grindelwald era qualcosa che non si sarebbe mai
aspettato. «Non avrei mai creduto che proprio tu avresti
citato quel poeta, Grindelwald. Credevo disprezzassi tutti i
Babbani».
«Tutti i
Babbani non sono altro che feccia che dovrebbe solo strisciare e
servire di fronte ai loro padroni maghi!» Strillò quello
con astio, il viso improvvisamente arrossato dalla rabbia.
«Ma dopotutto, anche dalla feccia babbana può sorgere una
gloriosa stirpe di maghi. E io so riconoscere la grandezza, in chiunque
compaia. E il vostro Dante... oh lui era un grande! Sai, è stato
proprio tuo padre a farmelo conoscere: proprio nell’anno che
passammo insieme a Durmstrang, tanti, tanti anni fa... Devo dire che il
suo “Inferno” è davvero qualcosa di sublime: mi ha
fornito un sacco di idee... in qualche modo mi ha persino divertito! Il
“Paradiso” invece è tanto noioso. Non trovi curioso
che immaginare l’Inferno sia tanto facile, mentre fare lo stesso
con il Paradiso è tanto difficile?»
«Credo
che sia perché il cosiddetto “Mondo Reale” spesso
assomiglia tanto ad un inferno. E gli uomini come te hanno un vero
talento per renderlo tale». Rispose Julius duro. Cominciava ad
essere stufo di quelle sciocche chiacchere, non aveva fatto tutta
quella strada, sopportato tutto quel freddo, per discutere amabilmente
di letteratura o di filosofia in una cella di Nurmengard; non con un
folle assassino del calibro di Gellert Grindelwald, in bocca al quale
una citazione di Dante suonava quasi come una bestemmia.
Grindelwald gli rise in faccia,
come immensamente divertito da quell’accusa, la sua fu una risata
folle, fredda e malvagia che nauseò e un poco spaventò
Julius.
«Non
esistono “uomini come me”, ragazzo. Esisto solo io. Sono
assolutamente un uomo unico al mondo» affermò con un
sogghigno.
«Ma
questo non ti ha impedito di essere sconfitto, disarmato e
imprigionato, vero Grindelwald? Tutti i tuoi sogni, i tuoi progetti, il
tuo parlare di “Bene Superiore” si sono sciolti come neve
al sole, infranti contro la forza di Albus Dumbledore, spezzati dalle
mura della tua stessa fortezza! No, Grindelwald, tu non sei affatto
unico. Tu sei solo uno dei tanti folli che per la loro sete di potere
si sono creduti simili a Dei. E come tutti, sei caduto!».
Nuovamente il
mago rise, fu una risata diversa, breve e roca. «Ma che bel
discorsetto – disse – lo hai mandato a memoria prima di
venire qui o lo hai improvvisato sul momento?». Julius non
rispose e Gellert continuò a fissarlo, sorridendo
sprezzantemente.
Infine, dopo
un altro lungo silenzio «Ebbene? Non sei venuto per vendicarti.
Non intendi farmi del male. Non vuoi uccidermi Vuoi solo parlare con
me: di cosa?»
«Di mio padre».
«Di
Costantino – riprese il vecchio mago – Lo immaginavo:
dovevi essere solo un bambino, quando morì. Quello che mi chiedo
però è... Cosa vuoi sapere da me? Immagino che tua madre
te ne abbia parlato e nessuno in Italia può essersi dimenticato
di Costantino Balsamo, Console supremo d’Italia per oltre
venticinque anni».
Julius non
rispose: non voleva mostrarsi debole di fronte a Grindelwald, non
voleva rivelare a quel mago tanto malvagio tutti i suoi dubbi sulla
figura di suo padre. Era solo un bambino quando era morto, è
vero, ma lo ricordava abbastanza bene: era gentile, premuroso,
affettuoso, sempre pronto a passare qualche minuto del suo prezioso
tempo con lui. Ricordava il suo sorriso, la sua risata forte e pastosa
e nello stesso tempo il senso di forza, di potere e di protezione che
sapeva all’occorrenza trasmettere. Non poteva credere che si
fosse alleato con un tale mostro, voleva capire cosa lo aveva spinto a
tanto, perché avesse compiuto quelle scelte. Sua madre era
morta, ma questo Grindelwald non poteva saperlo, uccisa dal dolore per
Grindelwald gli rivolse un altro sorriso derisorio, come se conoscesse o intuisse i pensieri che affliggevano Julius.
«Hai
perso la lingua, ragazzo? – lo canzonò – Oppure ti
è venuto un qualche dubbio? Sembravi così sicuro di te,
così arrogante, pochi istanti fa! Risponderò io per te,
allora! Tu vuoi sapere di me e di tuo padre, di come ci siamo
conosciuti e di come siamo diventati alleati. Forse non credi possibile
che tuo padre sia stato alleato del più potente “Mago
Oscuro” mai esistito? Forse non credi che lui potesse essere uno
di quei “folli che per la loro sete di potere si sono creduti
simili a dei”?»
«Oh
bene! Sembra che io abbia indovinato – continuò, ridendo
nuovamente – mi dispiace, ragazzo, che tuo padre sia stato per te
una tale delusione. Ma non è mia la colpa di ciò che lui
è stato.».
Julius
continuò a tacere, fissando con astio Grindelwald negli occhi.
Quell’uomo continuava a prendersi gioco di lui, trattandolo come
un ridicolo ragazzino. Non avrebbe ottenuto niente da lui: nessuna
risposta, su suo padre, se non bugie o inganni. Certo, aveva ancora la
bacchetta dalla sua – al contrario del vecchio. Avrebbe
potuto provare a forzargli la mano costringerlo a parlare con la
forza... o con il dolore. Ma sarebbe stato solo inutilmente crudele.
Quel mago non avrebbe mai ceduto, era pur sempre Gellert Grindelwald,
colui che aveva gettato nel terrore e poi dominato quasi l’intera
Europa, prima di cadere: non si sarebbe mai piegato di fronte ad un
ragazzino come lui.
Si
sentì stupido: aveva solo sprecato tempo e denaro, venendo fino
a quel luogo solo per incontrare il prigioniero della torre. Si
girò nuovamente verso la porta, ignorando il vecchio,
lasciandolo alla solitudine della propria cella.
«Già te ne vai, ragazzo? – lo richiamò
Grindelwald – Credevo volessi sentire la storia di tuo
padre? Non sei curioso di sapere come, insieme, siamo giunti a
conquistare il mondo magico?»
«Basta,
Grindelwald. Ne ho abbastanza di te, del tuo ego smisurato e del tuo
inutile sarcasmo. Ho solo sprecato il mio tempo venendo fin qui. Non
credo affatto che tu voglia rispondere alle mie domande. Resta pure
qui, con i tuoi sogni di grandezza, con il tuo bene superiore e con i
tuoi fantasmi. Addio!».
«Aspetta! – lo fermò quello, afferrandolo per il
braccio – Resta, per favore. Non ho mai detto di non voler
rispondere alle tue domande. Ma fammene qualcuna, almeno!».
Julius si
liberò della stretta con uno strattone, ma qualcosa nel tono del
vecchio lo costrinse a fermarsi, era una richiesta priva del tono
derisorio che lo stregono aveva sempre mantenuto. Sembrava quasi una
supplica. All’improvviso ciò che vide davanti a sé
non fu più il mago oscuro che aveva terrorizzato l’Europa
e il mondo, colui che aveva tentato di imporre un nuovo ordine,
l’assassino di suo padre, ma un vecchio sconfitto e solo,
condannato a lunghi anni sempre uguali, chiuso in una cella, privato di
tutto ciò che lo aveva reso grande. La sua doveva essere una
delle poche visite che mai aveva ricevuto. Decise di restare.
«Come hai conosciuto mio padre?»
«A
Durmstrang. Abbiamo frequentato un anno di scuola insieme prima che
io... beh diciamo che espulsero me, mentre tuo padre tornò in
Italia».
«A Durmstrang? Come mai mio padre frequentò quella scuola?».
«Da
quanto ho capito era una specie di tradizione del Balsamo concludere
gli studi lì. Penso che sia stato tuo padre a porvi una fine.
Non ha mai amato molto quel luogo».
«Dunque è stato lì che è diventato uno dei tuoi seguaci?»
«Seguace? Oh, no ragazzo! Tuo padre non è mai stato un mio
“seguace”. Aveva troppa stoffa per quello. E troppa stima
di sé, aggiungerei. Una cosa che tu sembra aver ereditato da
lui: Non hai la vocazione del servitore. No davvero».
«Cosa
vuoi dire, Grindelwald? Spiegati!». Julius non capiva dove
quell’uomo volesse arrivare: aveva sempre sentito dire che
Costantino Balsamo era stato tra i più fedeli seguaci e alleati
di Grindelwald e che alla fine era stato ucciso per aver cercato di
spodestarlo. Che cosa voleva dire ora Gellert? Lo stava ancora
prendendo in giro.
«Oh,
è una cosa che mi disse lui, tanti tanti anni fa, quando eravamo
entrambi giovani, orgogliosi e potenti. – rispose quello con
molta calma – “Non ho la vocazione del servitore,
Gellert”, mi disse, “Se questi idioti tengono tanto ad
inchinarsi a te leccandoti il culo”, perdonami ma ha detto
proprio così, “lo facciamo pure e che si soffochino, ma io
non ne ho la minima intenzione. Ti aiuterò nel tuo piano, certo,
ma lo farò come voglio e quanto voglio. E pretendo la massima
libertà di azione nel mio paese. In Europa fai quello che vuoi,
ma l’Italia è mia”».
Sorrise
nuovamente, come lieto del ricordo di un uomo che sapeva, malgrado
tutto, tenergli testa poi continuò. «Vedi, te l’ho
già detto all’inizio. Tuo padre era diverso dai tanti
idioti che mi circondavano, cercando solo di risplendere della luce
riflessa del mio potere. Lui era davvero un uomo potente, un uomo che
sapeva di valere e che sognava la grandezza, così simile a me
come il fratello che non avevo mai avuto... o come quello che ho
perduto. Forse avrebbe persino potuto eguagliarmi, se solo lo avesse
desiderato».
«E come accadde che finiste per lottare l’uno contro l’altro?».
«Tu
corri troppo, ragazzo! Quello venne solo molto dopo... non vuoi sapere
la mia storia? La nostra storia? C’è così tanto da
dire».
Julius restò qualche
momento sovrappensiero, chiedendosi se fosse il caso di fidarsi di un
uomo del genere, che anche allora sembrava pronto alla menzogna o al
sarcasmo. Poi si decise.
«Molto
bene, Grindelwald. Ti ascolterò volentieri. – gli rispose
– ma non oggi. Il mio tempo qui è scaduto e devo andare.
Tornerò ancora però. A presto.»
«Ed io
starò qui ad aspettarti. Non dovresti avere problemi a
ritrovarti. Non esco molto ultimamente».
Julius
lasciò la porta della cella alle sue spalle mentre evocò
il Patronus per difendersi dai Dissennatori affamati. Il carceriere
Koch gli venne incontro proprio all’uscita.
«Già se ne va, Herr Balsamo? Spero che la visita sia stata
di suo gradimento. Sono stato molto lieto di essere stato utile ad un
esponente di una così nobile famiglia...».
Lui lo
ignorò, lasciandoselo alle spalle e uscendo dall’ampio
portone di ingresso: non nevicava più, ma la coltre di neve sul
terreno era sempre molto spessa. Prima di smaterializzarsi si
voltò un’ultima volta verso Nurmengard. La scritta, in
grosse lettere rosse era ancora ben visivile. FUR DER OBERGUTE.
Chissà, forse anche suo padre aveva creduto di agire “Per
un Bene Superiore”.
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