L’uke
perfetto
SETTE
… giorni
servirono a Dio per creare la Terra.
«Così
hai litigato con lui?»
La voce di Milo
rimase
sospesa nell’aria, in cerca di una risposta. Shaka, tuttavia,
gli versò nel
piatto una buona dose di funghi alla crema di tofu e fece lo stesso per
Aiolia.
Solo quand’ebbe finito quel rituale così
importante appoggiò la teglia sul
tavolo e prese posto insieme agli altri due.
«Buon
appetito.» esclamò
sorridendo. «Spero il pranzo vi piaccia.»
«Shaka, hai
litigato con
Camus?!» sbottò ancora Milo, allontanando di colpo
la sedia dal tavolo. Il
rumore fastidioso, però, non riuscì ad alterare
il pacifico indiano, che
immerse la propria forchetta in una polpetta di quinoa e sorrise ad
Aiolia.
«Pure tu
sei impazzito?!»
vociò ancora Milo. «Ti stai comportando
così per davvero?!»
«Aiolia,
per favore, digli
qualcosa.» sospirò allora Shaka, scuotendo la
testa. «È tutto il giorno che fa
così.»
Dopo un attimo di
assoluto
silenzio, durante cui l’indiano continuò a
consumare il proprio pranzo, il
tavolo tremò in maniera eclatante e un bicchiere si
rovesciò. Ah, quello era
davvero troppo.
«Per
favore.» ripeté Shaka,
tagliente, mentre gettava un’occhiata ammonitrice a Milo.
Avrebbe chiuso un
occhio sul tono della voce… ma non poteva sopportare di
vederlo sbattere i
pugni sulla tavola e alzarsi col viso stravolto dalla rabbia.
Aiolia si
pulì la bocca con
un tovagliolo, prima di voltarsi verso Milo e incupire lo sguardo.
«Siediti e
mangia.» sibilò.
«Altrimenti puoi pure lasciarci soli.»
«Aiolia,
sei impazzito
anche tu!» esclamò Milo, indietreggiando, urtando
contro la sedia su cui prima
era seduto. «Non hai visto come s’è
conciato Shaka?! Ha i capelli rosa e
arancioni e… i boccoli, le perle… ma che diamine
sta succedendo? E l’hai visto
o no che quei due là fuori ci stanno guardando da
mezz’ora?»
Shaka
appoggiò la forchetta
al piatto e, con un sospiro, si volse verso la finestra. Sapeva di
essere
osservato, se n’era accorto già mentre preparava
il pranzo. Tuttavia, facendo
ricorso a tutta la sua buona volontà, alzò una
mano in segno di saluto e
sorrise.
«Mu e
Aldebaran stanno
semplicemente pranzando in giardino.» rispose Aiolia,
raccogliendo il bicchiere
che s’era rovesciato. «Per favore, siediti e
mangia. Il pasto che ci ha
preparato Shaka è squisito.»
In quel momento
accaddero
tre cose contemporaneamente: Milo si gettò a sedere e si
portò la testa tra le
mani, in una chiara ostentazione di sbigottimento; Aiolia riprese in
mano la
forchetta, con calma, e infine il telefono iniziò a
squillare.
«Vado
io.» disse Shaka.
Provò
quasi sollievo ad
alzarsi da quella tavola tanto sfarzosa e artificiosa, ad allontanarsi
dall’attonito Milo e tentare, per quanto possibile, di
sottrarsi agli occhi di
Mu e Aldebaran. Lasciò scorrere le mani sulla cornetta e
ricercò lo sguardo di
Aiolia, in una tacita abitudine che non avrebbe mai abbandonato, prima
di falsare
tutto se stesso e aprirsi in un sorriso radioso.
«Qui parla
Shaka Tuja.
Pronto?» trillò come neanche il miglior
centralinista del mondo.
«Oh Shaka,
che piacere
sentirti!» una calda voce d’uomo lo
abbracciò, a dispetto del telefono. «Sono
Aiolos. Spero di non aver chiamato in un momento inopportuno, ma ho
davvero una
grande notizia da dare a te e mio fratello.»
Shaka si
sentì invadere di
soddisfazione. Dissimulò ancora. «Figurati! Dimmi
pure.»
«Vedi, Lord
de Wyvern mi ha
proposto di organizzare un evento per presentare al mondo intero questa
città.»
spiegò Aiolos. «Non essendoci motivi per
posticiparlo, ho ritenuto opportuno
fissarlo domani sera nel giardino della mia casa! Saranno presenti
giornalisti
di tantissime emittenti, così almeno mi ha garantito Lord de
Wyvern, e
probabilmente una trasmissione statale trasmetterà la
diretta! Non è
meraviglioso?»
Oh, sì che
lo era. Era
fantastico.
«Puoi
contare sulla nostra
presenza, caro cognato.» Shaka stavolta non riuscì
a trattenersi: un vero e
proprio ghigno gli apparve sulle belle labbra. «Parlo anche a
nome del mio
amico Milo.»
Senza attendere la
risposta del sindaco,
l’indiano riagganciò la cornetta e si volse verso
il tavolo, dove ricevette due
occhiate differenti sia per l’aspetto in sé sia
per il messaggio che
trasmettevano.
Se Milo, con i suoi
affilati occhi
azzurri, pareva semplicemente in cerca di una spiegazione per
quell’assurda
vicenda, Aiolia al contrario affidava ai suoi occhi da gatto il compito
che usualmente
spettava alla bocca.
Approvavano.
Qualsiasi cosa Shaka avesse
deciso.
«Domani
sera vi sarà un importante evento
a cui dobbiamo assolutamente presenziare.» scandì
l’indiano sedendosi
nuovamente, mentre i boccoli gli scivolavano lungo tutte le spalle.
Tollerò:
sapeva che sarebbe finito presto. «Milo, tu verrai con noi.
Avrai l’occasione
di rivedere Camus.»
Quelle parole ebbero
l’effetto di un
tornado sull’amico. Shaka lo vide rinvigorirsi e accendersi
di colore, come se
avesse appena avuto un’illuminazione.
«Ti prego,
dimmi cosa è successo oggi al
supermercato.» lo supplicò, appoggiando entrambe
le mani sulla tovaglia,
tormentandola quasi. «Cosa vi siete detti?»
Per estrema
casualità gli occhi di Shaka
incrociarono ancora quelli di Aiolia. Benché avesse
già deciso di non
proseguire il discorso, ricevette un’ulteriore conferma
dall’uomo con cui, nel
bene e nel male, aveva condiviso parte della sua vita.
E a cui doveva
moltissimo.
Portò alla
bocca una polpetta di quinoa,
la masticò lentamente, si pulì le labbra quando
l’ebbe ingoiata.
«Cosa ti
preparo stasera, Aiolia?»
Casa di Aiolos, con
la sua bella tinta
gialla e le finestre che per forza di cose Shaka conosceva molto bene,
era
illuminata da almeno sei riflettori che la facevano apparire
più grande di
quanto non fosse. Il giardino, inoltre, era talmente pieno di persone
che non
sarebbe stato difficile riconoscere qualcuno gettando semplicemente
un’occhiata.
La notte era ancora
giovane…
Shaka
lasciò scorrere il braccio sotto
quello di Aiolia, aprendosi in un sorriso tanto dolce quanto
spaventoso. Sapeva
bene che più si fingeva docile e mansueto, più il
demone che era in lui
scalciava per porre fine a quella vicenda; ogni gesto, ogni espressione
veniva
quindi a macchiarsi di un dettaglio che finiva per mostrare qualcosa di
inadeguato.
Ma a Shaka, quella
sera, proprio non
importava. Stava tutto per finire.
Se lo ripeteva
lentamente, mentre si
faceva osservare come se fosse una divinità; se lo ripeteva
mentre sconosciuti
borbottavano ad Aiolia che sì, doveva essere proprio un tipo
fortunato, per
avere un uke tanto perfetto, e se lo ripeteva come una nenia mentre
camminava
tra i giornalisti, ben conscio di avere una pettinatura
tutt’altro che
ordinaria.
«Sono
stanco di essere trattato come se
non esistessi.» sberciò all’improvviso
Milo, ponendosi di fronte a lui e
Aiolia. «Vorrei sapere cosa avete intenzione di
fare.»
Con
un’occhiata gelida, Shaka si fermò e
si guardò intorno. Grazie al cielo nessuno aveva prestato
troppa attenzione alle
parole di Milo.
«Non
è ancora il momento.» mormorò
stringendo con più forza il braccio di Aiolia.
«Per favore, continua a seguirci
senza parlare.»
«Aiolia, ti
prego, perché anche tu stai
facendo così?» esclamò ancora Milo
alzando le mani in aria, sconvolto. Ma
nessuna risposta si levò dallo scrittore, che sorrise a
Shaka e riprese a
camminare.
Il giardino ospitava
tra i tanti presenti
anche gli abitanti di Yaoi City. Shaka non si stupì, dunque,
quando si accorse
di un elegantissimo Shura che parlava con un giornalista, ma
trasalì – e anche
vistosamente – quando incrociò per sbaglio lo
sguardo di un collerico Camus
vestito completamente di rosso e nero, neanche fosse un ballerino di
flamenco.
Si fermò.
«Da questa
parte.» sibilò subito, cercando
di portare Aiolia e Milo altrove, ma era già troppo tardi.
«Che
diamine…»
Le labbra di Milo
rimasero schiuse,
tremule, mentre il suo dito si alzava nella direzione del fidanzato.
Quella proprio non ci
voleva, pensò Shaka.
Fece mente locale della situazione: era talmente vicino a realizzare il
suo
piano, che mandarlo in fumo soltanto per i capricci di Camus sarebbe
equivalso
ad abbandonare una maratona a dieci metri dal traguardo.
«Perdonami,
Aiolia.» mormorò staccandosi
da lui.
Si diresse
– o meglio: si catapultò –
verso Milo e gli gettò le braccia al collo, voltandolo in
maniera tale che
avesse Camus alle proprie spalle. Lo strinse quindi in
quell’abbraccio di
circostanza e, facendo forza affinché non si liberasse,
analizzò il
comportamento del gatto dai capelli rossi.
«Lasciami,
Shaka!» vociò Milo, cercando di
staccarselo di dosso, ma per tutta risposta l’indiano gli
bloccò il viso tra le
mani e appoggiò la propria fronte alla sua.
Gli occhi di Milo si
spalancarono.
«Io ti
amm-»
«Se dici
un’altra parola ti spedisco nel
mondo delle bestie.»
Shaka non avrebbe
voluto essere così drastico,
ma Milo certo sapeva essere fastidioso. Lo vide sgranare ancora di
più gli
occhi, guardarlo come se fosse un fantasma, cercare di ritrarsi da
quella presa
troppo intima e facilmente equivocabile. Ma Shaka non poteva mollare,
no: non
adesso, almeno, che vedeva Camus dimenarsi come una furia tra le
braccia di
Shura.
Eppure è
ben noto che le disgrazie non vengono
mai da sole.
«Ehi, ma
cosa combinate!»
Shaka
lasciò andare Milo nello stesso
momento in cui Shura e Camus scomparvero dal suo campo visivo. Non si
curò né
dell’espressione sconcertata del povero amico, né
di quella tristemente
comprensiva di Aiolia; si volse invece verso colui che aveva parlato e
congiunse le mani, come se non fosse successo alcunché.
«Aphrodite,
mio caro.» salutò, aprendosi
in un sorriso forzato. «Da quanto tempo!»
L’uke
lascivo si portò le mani ai fianchi,
ad occhi socchiusi. «Mio caro? Mpf! Finché non ti
farai tagliare i capelli, tra
di noi potrà scorrere soltanto invidia!»
Sta
per finire tutto.
Manca
poco, Shaka, poi
riporterai le cose alla normalità.
Tutti
questi ragazzi sono
nelle stesse condizioni di Camus. Pensaci.
«Allora
arrivederci.» tagliò corto Shaka.
«Salutami Death Mask.»
A passi svelti
condusse Milo e Aiolia lontano
da Aphrodite, in silenzio. Poteva scorgere con la coda
dell’occhio
l’espressione confusa del primo, ma apprezzò il
fatto che fosse rimasto zitto e
non facesse più alcuna domanda. A suo modo era una
manifestazione di fiducia.
Si fermò,
infine, tra due schiere di
giornalisti, a pochi metri da un palco allestito vicino al garage della
casa.
Dal viavai di gente che portava microfoni e sedie dedusse che da
lì a poco
qualcuno avrebbe parlato. E allora sì che si sarebbe
divertito come mai in vita
sua.
«Va tutto
bene, tesoro?» sussurrò allora
Aiolia, voltando il capo verso di lui. «Ti vedo un
po’ turbato.»
Sta
per finire tutto.
Shaka fece un altro
sorriso. Eppure,
questa volta, non era artificioso.
«Sì,
Aiolia. Non preoccuparti.»
«SIGNORI!
Benvenuti!» una voce rombante,
resa ancora più potente dal microfono, spezzò il
chiacchiericcio dei presenti e
concentrò tutte le attenzioni verso il palco. Persino Shaka
si volse a
guardare, sospirando di sollievo. Tutto stava per compiersi.
«Signori,
benvenuti a Yaoi City! Il mio
nome è Sion e sono uno dei tanti abitanti di questa
meravigliosa città!»
continuò il ragazzo mentre salutava con la mano e si muoveva
sul palco come il
più esperto dei presentatori. «Lasciate che vi
presenti Doko, ovvero mio
marito. Perché sì, amici miei, in questa
città il mio matrimonio è valido!»
Uno scroscio di
applausi si levò
all’istante. Shaka si guardò intorno, per valutare
la situazione: come
previsto, c’erano diverse telecamere più
tantissimi fotografi già all’opera.
«Sono
serviti parecchi mesi per portare a
termine questo progetto, ricordate? All’inizio esisteva
un’unica grande città,
poi smembrata grazie all’operato di due persone meravigliose:
il sindaco Aiolos
Anthelios e il suo segretario Saga Valiant!»
strepitò ancora Sion.
Shaka si volse verso
il palco, aggrottando
la fronte. Dalle scale stavano salendo sul palco, mano nella mano, i
due uomini
che Sion aveva nominato. Mpf, sembravano così
felici… non sanno ancora quello a
cui vanno incontro.
«Essi hanno
davvero votato le loro
esistenze a questa città. Sono stati lontani dalle loro
famiglie per più di un
anno!» Sion strinse la mano al sindaco, gesto plateale che
serviva solo ai
fotografi. «L’hanno progettata, l’hanno
battezzata sei mesi fa, e poi entrambi
si sono candidati a sindaco… ma hanno infine deciso di
continuare ad
amministrarla insieme! Non trovate che sia una cosa
bellissima?!»
Shaka fece scorrere
una mano lungo il
braccio di Aiolia.
«Devo
andare.» gli bisbigliò all’orecchio,
la voce assolutamente tranquilla. Lo guardò negli occhi:
vide l’assoluta
devozione. «Grazie di tutto, Aiolia.»
Lo scrittore gli
sorrise, poi gli scostò
la frangetta e gli stampò un bacio sulla fronte. Per una
volta, Shaka ignorò il
fatto di scambiarsi effusioni in pubblico.
«Vai.»
fu la risposta di Aiolia.
Staccandosi quasi a
malincuore, Shaka
indietreggiò e rivolse un’ultima occhiata al
palco, dove Aiolos stava per
prendere la parola. Era quello il momento di agire: afferrò
il braccio di Milo
energicamente e lo tirò con sé a ogni passo. Dopo
un’iniziale resistenza,
sempre nell’assoluto silenzio, riuscì a ottenere
la fiducia dell’amico e lo
condusse lontano dal palco, dall’altra parte del giardino.
Dopodiché
si volse a guardarlo.
Nessuna
pietà nei suoi occhi azzurri.
«Milo,
adesso vieni con me.» sibilò
strappandosi con un gesto deciso le perle dai capelli e gettandole a
terra.
Dannazione, quanto aveva desiderato farlo! «Spero che tu sia
ancora atletico
come un tempo.»
Milo lo
fissò come un pirata fisserebbe un
tesoro. Poi gli si gettò addosso.
«Ma allora
tu sei normale!» biascicò quasi
singhiozzando, mentre Shaka tentava di sottrarsi
all’abbraccio. «Ti prego,
dimmi cosa è successo a Camus!»
«Abbassa la
voce, sciocco.»
Shaka
afferrò Milo per un polso e lo
trascinò verso un cespuglio vicino a una finestra, dove si
acquattò. Da lì
poteva vedere ancora le ultime propaggini di folla. «Dobbiamo
prendere una cosa
dalla cantina di questa casa. Dopodiché riavrai il tuo
Camus.»
L’amico
prese ad annuire spasmodicamente,
corrugando il viso giovane in un’espressione di seria
disponibilità. Si passò
una mano sulla fronte e con l’altra si slacciò il
primo bottone della camicia.
«Come
possiamo entrare?» mormorò iniziando
subito a guardarsi intorno, accalorato. «Tutte le porte sono
visibili dal
palco…»
Shaka si sciolse
anche la coda di cavallo
e si lasciò sfuggire uno sbuffo di ovvietà.
«Entreremo
dalla finestra.»
Milo si volse a
guardare quella alle sue
spalle. «Devo romperla?»
«No!»
Shaka continuò a togliersi anelli e
bracciali, senza però trattenersi dall’assumere
un’espressione risentita. «Da
questa stanza l’unica uscita porta a un corridoio con una
vetrata dall’altra
parte del giardino, saremmo in trappola.»
«E
quindi?»
Alzando una mano,
Shaka indicò la finestra
del piano superiore. Ah, com’era felice di tutta
quell’edera…
«Sei
impazzito?!» esclamò Milo,
sobbalzando.
Shaka però
lo incastrò nel suo stesso
gioco: «Hai detto poco fa che sono normale, o
sbaglio?»
Senza nemmeno dargli
tempo di replicare,
spiccò un salto e si resse sia a una sporgenza della parete
sia al legno del
sostegno dell’edera. Non era difficile arrampicarsi, anzi, in
qualche secondo
riuscì a giungere a un cornicione e camminare sino alla
finestra, dove
finalmente si sedette.
Con grande piacere si
accorse che era
stata lasciata aperta di due dita. La schiuse del tutto, sorridendo
infervorato, quindi si concesse una prudente occhiata a Milo.
Che, per la cronaca,
non s’era mosso di un
millimetro.
«Sali!»
gli soffiò mentre scivolava
all’interno della camera. «Questo graticcio
sicuramente sostiene fino a 80
chili.»
«Ma ne peso
84!» si lamentò Milo.
Shaka diede
un’occhiata al giardino.
Grazie anche alla parziale oscurità, nessuno sembrava aver
notato i due
scalatori provetti, perciò fece segno a Milo di venir su e
– onde evitare
disgrazie – resse per quanto possibile il sostegno di legno.
Eppure notò con
sorpresa che l’amico era svelto quanto lui, se non di
più: quello infatti si
issò sul cornicione in poco più di tre passaggi e
si aggrappò agilmente alla
finestra.
«Questo
è solo per Camus.» sibilò a denti
stretti.
Shaka non
riuscì a trattenersi dall’alzare
un sopracciglio. «A quanto pare sei ancora
atletico.»
Senza tergiversare
oltre, oltrepassò il
letto di Saga e aprì la porta della camera. Ricordava ancora
quel corridoio,
perciò evitando di farsi scoprire accendendo la luce prese
per un polso Milo e
lo condusse per le scale che conducevano al pianterreno.
Nel completo silenzio
continuò a vagare
per la casa, tra fotografie mute e silenti e quadri dalle cornici
preziose. Era
incredibile quanto fosse simile a una villa normale: nulla lasciava
immaginare
cosa realmente si nascondeva tra quelle pareti ostili.
Si fermò
di fronte a una specchiera lunga
quanto un’automobile. Con la luce che entrava dalle finestre
Shaka riusciva a
scorgere debolmente il riflesso proprio e di Milo, ma non si fece
distrarre. Si
concesse solo un sospiro, lasciando il polso dell’amico.
Adesso sì che il gioco
si complicava.
«Mi hanno
portato qui.» sussurrò,
avvicinandosi alla parete, dove un telefono spezzava la monotonia della
vernice
bianca. «Ed è da qui che si accede alla
cantina.»
Milo tentò
subito di staccare la
specchiera dal muro, ma non ci riuscì.
«No,
è una porta nascosta.» spiegò subito
Shaka. All’improvviso, senza nemmeno finire di parlare, si
aggrappò con forza
al telefono e lo staccò dal muro, gettandolo a terra senza
troppi fronzoli. Non
si curò dell’espressione stupita di Milo ma al
contrario iniziò a strappare
tutti i fili che fuoriuscivano dalla crepa.
«Ma che
stai facendo?!»
A Shaka sembrava
parecchio ovvio, ma volle
dare una spiegazione ancora più esaustiva. Spingendo l’amico dentro
un’altra stanza, e
allontanandosi a propria volta, raccolse da terra il telefono e lo
lanciò
contro il vetro. Decine di frammenti schizzarono via liberando
quell’inconfondibile rumore cristallino, ma subito dopo
l’indiano tornò ad accanirsi
contro i fili nel muro arrivando addirittura a staccare pezzi di parete.
«Shaka…!»
frusciò allora Milo con voce
sconvolta, osservando ciò che si nascondeva dietro lo
specchio. Beh, Shaka
l’aveva già visto: gettò una semplice
occhiata di sottecchi a quella specie di
porta blindata, poi riuscì a staccare una grande lastra
metallica su cui erano
incastrati diversi fili.
«Così
rischi di prendere la scossa!»
quella volta Milo rese la voce più incisiva e
arrivò addirittura a bloccare i
polsi dell’altra. «Non riuscirai mai ad aprirla,
così. Rischi solo di bloccarla
del tutto.»
«Ah,
davvero?»
Shaka non era
particolarmente avvezzo a
ricevere ordini, soprattutto quando aveva già deciso cosa
fare. Si districò
dalla presa dell’amico e si portò la mano a uno
stivale, lanciandogli
un’occhiata di sfida. Un attimo dopo ne estrasse il manico di
quello che
sembrava un martello.
«Chi ti ha
detto che io voglia aprirla?»
proseguì, mentre tirava fuori dall’altro stivale
una massa. Mentre univa le due
parti della mazzetta, si compiacque di esser stato così
bravo da scalare il
sostegno dell’edera pur avendo un simile peso alle caviglie.
Di sicuro non era
un comune essere umano!
Benché
Milo lo fissasse incredulo, Shaka
proseguì nel suo intento. Gettò
un’occhiata alla più vicina finestra per
assicurarsi che la festa in giardino continuasse, quindi con rapidi
colpi iniziò
ad allargare il buco nel muro. Il rumore non era eccessivo, ma
prestò comunque
la massima attenzione.
«Sei pazzo
a prescindere, Shaka.» biascicò
a un certo punto Milo, mentre si avventava sullo squarcio e iniziava a
tirar
via pezzi di mattone a mani nude. «E se questo fosse stato un
muro portante?»
«Saresti
già morto sotto le macerie.» fu
la secca replica.
Il buco nella parete
divenne appena più
grande di un comunissimo forno a microonde. Milo strappò via
un’altra
scatoletta di giunzione, ma a quel punto Shaka lo fermò per
un polso e scosse
la testa.
Sapeva che quello che
stava per dire aveva
una certa componente di follia, ma dando un’ultima mazzata in
profondità al
muro riuscì finalmente a trovare un vano. Era il momento.
«Aiutami a
entrare.»
Milo si
portò le mani alla testa. «Tu
sei-!»
Dieci secondi dopo le
spalle di Shaka
erano incastrate nel muro. Un braccio, però, aveva
già raggiunto il vano e
cercava di spingersi in avanti aiutandosi con la mazzetta; le gambe, al
contrario, erano allacciate a qualcuno
che tentava disperatamente di farle entrare in quello squarcio.
«Spingi
ancora.» soffiò Shaka, tentando di
non pensare a quali assurdi doppi sensi potevano nascere da quella
frase. Sentì
le mani di Milo stringersi intorno ai propri polpacci e indirizzarlo
sempre più
in profondità. Il dolore fisico, Shaka, nemmeno lo
conosceva: aveva sofferto
molto di più indossando le perline tra i capelli.
A un certo punto si
sentì scivolare in
avanti nel buio più assoluto. Era fatta! Cadde a terra,
dall’altra parte del
muro, facendosi scudo unicamente delle braccia, ma fu lesto a tirarsi
in piedi e
iniziare a tastare la parete.
Alla fine
sentì una lastra metallica più
fredda del resto del muro su cui alcuni bottoni in rilievo avevano una
consistenza
diversa. Li premette tutti, esultando tra sé e sé
per quella vittoria, quindi
si affrettò a guardare con soddisfazione il retro della
porta blindata aprirsi.
Al tempo stesso, alcuni deboli neon sul soffitto si accesero e
illuminarono
finalmente quella stanza segreta.
Milo entrò
dall’ex specchiera, ma non
tardò a commentare sconvolto: «Tutto
ciò non ha senso.»
Shaka alzò
le spalle, dirigendosi verso
una rampa di scale con i vestiti totalmente strappati sulle braccia e
sul busto.
«Se
può interessarti, io sono scoppiato a
ridere quando Saga ha scritto la combinazione d’apertura sul
telefono.» sospirò
Shaka con aria di superiorità. «Avevo
già capito che il resto del muro non era
stato rinforzato. Ora sbrigati.»
Senza tergiversare
ulteriormente Shaka
scese le scale che conducevano al piano inferiore.
La luce dei neon era
ancora abbastanza
debole quando arrivò in un’altra sala,
più grande della precedente e molto più
accessoriata: a tutte le pareti erano state infatti addossate delle
scrivanie
che reggevano computer di grosse dimensioni, come se fossero processori
di sistemi
di sicurezza nazionale. Erano tutti accesi, con lo schermo che mostrava
quelli
che parevano sismogrammi; soltanto a un’occhiata
più accorta – che Shaka non si
risparmiò – si potevano scorgere nomi e cognomi di
centinaia di persone.
«Cosa
diamine…» Milo si portò una mano
alla bocca, mentre i suoi occhi sgranati correvano da un computer
all’altro.
«Credo che
Saga sia un genio.» constatò
Shaka, battendo le dita sulla targhetta di un processore che recava la
scritta CIA.
«Un genio del male. Forse troppo scomodo persino per il
governo.»
Milo
continuò a fissare i vari schermi.
«Perciò
cosa c’è di meglio di creare un
piccolo mondo su cui governare?»
Shaka si
avvicinò alla porta di un’altra
stanza. «Guarda, Milo.»
«C’è
il nome di Camus!» esclamò Milo
all’improvviso, indicando uno schermo, poi si volse verso di
lui. «Qui c’è an-»
S’interruppe.
Shaka sapeva
benissimo che gli schermi,
per quanto interessanti, non potevano competere con la stanza in cui
stava
entrando. E Milo, mpf, cos’altro avrebbe potuto fare, se non
zittirsi e
seguirlo?
Le pareti totalmente
bianche erano
occupate da grandissimi schermi blu su cui spiccavano in bianco dei
disegni
anatomici di varie parti del corpo. Ma ciò che costituiva il
nocciolo dello
stupore non era tanto quella lezione di anatomia fuori programma,
quanto tutte
le numerose componenti meccaniche che erano state inserite con
precisione nei
muscoli, nelle giunzioni neuromuscolari, in alcuni organi… e
nel cervello.
Un lettino al centro
di quella stanza,
circondato da infiniti strumenti da sala operatoria, non lasciava dubbi
di
interpretazione.
«Li hanno
completamente trasformati in
androidi…» sussurrò Milo, pallidissimo.
Shaka
annuì greve, mentre si portava
vicino a una grande lastra spessa almeno due dita su cui
v’erano oltre un
centinaio di piccole antenne. Alcune avevano la punta illuminata, altre
invece spenta.
E proprio queste non erano accompagnate da nessun nome, mentre le prime
recavano tutte un’etichetta con gli stessi nomi che poco
prima si leggevano
sugli schermi dei processori.
«Abbiamo
vinto, Milo.» disse l’indiano,
quindi lasciò la mazzetta sul lettino e prese in mano la
lastra. «Tieni.»
Milo non si fece
ripetere due volte
quell’ordine. Iniziò anche lui a guardare con
evidente sgomento le antenne e le
etichette, finché non impallidì ancora e
mormorò, alzando gli occhi: «Ma Shaka…
quell’antenna ha il tuo nome.»
Per concludere la sua
spiegazione, Shaka
prese un altro oggetto e lo puntò dritto contro di lui. Una
pistola più grande
di una comune revolver, con una canna di metallo dentellata e la punta
talmente
fine che sembrava adatta per introdurre qualcosa in un corpo umano, era
adesso
ferma a qualche centimetro dal naso di Milo.
«Saga ha
lasciato il compito di immettermi
il chip di controllo ad Aiolia. Con questa.»
sussurrò mentre i suoi occhi si
facevano più freddi del ghiaccio. «Fa credere che
la decisione finale spetti a
coloro che chiama “seme”, mentre attende
nell’altra stanza che si attivino i
parametri vitali.»
Milo
trasalì. «Ma se tu sei normale,
allora…»
Shaka
portò subito le dita intorno
all’antenna che portava il suo nome, rigido.
«Aiolia
è l’unica cosa che mi lega a
questa spregevole umanità.» mormorò
chiudendo gli occhi. «Non avrebbe mai
potuto ridurmi in quello stato.»
Staccò e
frantumò poi tra le dita il
trasmettitore.
Colto da un conato di
vomito, come se
avesse perso del tutto l’equilibrio, Aiolia
barcollò in avanti e si portò le
mani alle tempie. Fu solo un istante, perché dopo
acquisì la totale
consapevolezza di essere nuovamente libero e non dover sottostare a
nessun
ordine.
Shaka
ce l’ha fatta.
Sollevò lo
sguardo.
«Signor
Valiant, posso farle una domanda?»
Fece appena in tempo
a scorgere una mano
alzarsi, vicinissima al palco, poi distinse l’uomo che aveva
parlato. Era Lord
Rhadamanthys.
«Prego.»
rispose tranquillamente l’altro,
mentre gli faceva cenno di raggiungerlo sul palco. Un attimo dopo il
Lord fu
accanto a lui, serissimo come al solito, con le braccia incrociate.
Saga
tuttavia non gli passò ancora il microfono, ma aggiunse:
«Quest’uomo è un
critico molto famoso che ha deciso di vivere in questa
città. Il suo nome è
Lord Rhadamanthys de Wyvern! Fate un applauso!»
La folla
iniziò a battere le mani, mentre
Aiolia sgusciò più vicino al palco per incrociare
gli occhi del critico. Dovette
attendere qualche istante, ma quando intercettò lo sguardo
si fece sfuggire un largo
sorriso ferino: missione compiuta.
«Faccia
pure la sua domanda.» lo incitò
Saga passandogli il microfono.
Il Lord se ne
appropriò immediatamente.
«Grazie. Vorrei sapere, se possibile, cosa ne pensa lei del
controllo mentale.»
La folla cadde in un
gelido silenzio.
Aiolia vide Saga impallidire, diventare di un bianco quasi cadaverico;
notò
persino una scintilla di paura nei suoi occhi, subito sostituita da un
lampo di
rabbia.
«Lord
Rhadamanthys, non pensa che questa
domanda sia inappropriata all’evento?»
biascicò il vicesindaco, senza
microfono, ma a voce abbastanza alta affinché si udisse nei
dintorni del palco.
«Mi dia il microfono.»
«Ma signor
Saga.» Rhadamanthys
indietreggiò, sfuggendo alla mano di Saga. «La
prego, risponda: com’è possibile
che dopo aver letto i suoi volantini decine di ragazzi decidano
all’improvviso
di comportarsi come uke ribelli, uke lascivi, uke
stuprabili…?»
«Aiolos,
fallo smettere.» ruggì Saga.
Tuttavia, proprio in
quell’istante, Aiolia
si portò proprio sotto il palco e tra il mormorio stupito
della folla iniziò ad
applaudire con studiata lentezza, senza mai distogliere lo sguardo da
quello
del cognato. Brutta situazione, eh?
Pensò soddisfatto. Adesso ti
faccio
pentire di aver toccato mio fratello.
Saga
abbassò gli occhi proprio su di lui.
Sgranati, sgomenti, quasi lucidi; il demone si sentiva sotto scacco, a
quanto
pare. Aiolia lo vide dischiudere la bocca e, benché il
volume fosse troppo
basso per essere sentito, riuscì a capire cosa avesse detto
semplicemente leggendogli
le labbra. Shaka.
Con uno scatto
felino, il segretario si
diresse verso le scalette del palco, ma lo scrittore non era tanto
stupido da lasciarlo
fuggire. Anzi, forse per la sua naturale propensione a immaginare trame
complesse, pensò che quello avesse già intuito
l’inganno di Shaka e volesse
correre a bloccarlo.
Tsk! Aiolia lo
placcò immediatamente ma ricevette
una strenua opposizione. Saga aveva una forza davvero notevole a
dispetto dell’apparenza
raffinata, come se nascondesse dentro di sé una galassia
pronta a esplodere.
«Aiolos,
digli di lasciarmi!» vociò allora,
voltandosi verso il palco. «Lo sai che io sono nel
giusto!»
La folla allibita
iniziò a mormorare
sempre più insistentemente e numerose telecamere si
puntarono verso i due ai
piedi del palco. Sempre tenendo ben stretto il vicesindaco Aiolia
gettò
un’occhiata al fratello, sperando che facesse qualcosa, ma
quello continuava a
stare immobile a pochi passi da Rhadamanthys con
un’espressione impassibile in
viso.
Ma
perché…?
«Aiolos!»
la voce di Saga divenne un vero
e proprio grido. Gli occhi erano adesso colmi di terrore.
«Aiolos, se Shaka
riuscisse a-»
«Niente se,
Saga.»
Aiolia avrebbe
riconosciuto quella voce
ovunque. Si volse, verso la folla che non capiva e che vociava, verso
Camus che
s’aggrappava a Shura, verso Milo che reggeva una lastra di
metallo.
Verso Shaka, che
aveva in mano una pistola.
Bloccò
Saga con più forza.
«Niente se,
Saga.»
Shaka socchiuse gli
occhi. Poteva scorgere,
sebbene non fosse vicino a loro, Aiolia e Saga intenti in una
colluttazione ai
piedi del palco, e anziché crucciarsene se ne
beò: lo scrittore aveva
riacquistato la sua indole abitudinaria.
Gettò a
terra la pistola di iniezione,
mentre spostava lo sguardo prima sui vari giornalisti increduli, poi
sul
sindaco Aiolos che era in piedi sul palco, assolutamente impassibile e
col viso
spento, come se non avesse ben compreso cosa stesse succedendo.
Alzò le
spalle nella sua direzione.
«Credo che
sia ora di fare chiarezza,
Aiolos.» disse con un certo risentimento.
«L’idea è stata di Saga?»
«Aiolos,
fermalo!»
Saga gridò
in preda alla collera, ma
questa volta Aiolia lo buttò a terra e lo placcò
con più forza, tappandogli la
bocca. Sebbene non amasse simili scenari di forza bruta, Shaka non
trovò motivo
di opporsi e, avvicinandosi a Milo, staccò subito
un’antenna dalla lastra.
«Cosa
succede?!» osò chiedere un
giornalista temerario.
Ma la risposta non fu
data da Shaka. Si
udirono alcuni forti colpi di tosse provenire dalla folla, che si
dispiegò
mentre l’uomo che tossiva veniva avanti, una mano sulla
bocca, gli occhi rivolti
al palco.
Kanon Valiant era salvo.
«Come…
come hai potuto…» mormorò mentre la
rabbia tingeva il suo viso di rosso. Shaka seguì il suo
sguardo: non era di
certo Aiolos il destinatario, oh no, né tantomeno il
fratello Saga.
Lord Rhadamanthys in
fondo non era del tutto innocente.
Shaka
inasprì lo sguardo. Con un veloce
gesto, ruppe le antenne di moltissimi altri ragazzi e lasciò
che il cortile si
riempisse di gemiti, ansiti, colpi di tosse e persino urla, mentre il
mito di
Yaoi City iniziava a cadere.
Con la coda
dell’occhio vide anche Camus
staccarsi da Shura, portandosi le mani tra i capelli tagliati, e Milo
che sorrideva
in silenzio, trattenendosi il labbro inferiore con i denti. Sentiva i
mugolii
di protesta di Saga, adesso bloccato anche da altre persone, e
avvertiva come
se fossero schiaffi tutti i flash dei fotografi.
Ho
vinto.
Mancavano ormai pochi
trasmettitori.
Tuttavia, mentre li
disattivava, si
accorse che alcune etichette non erano contraddistinte da nomi,
bensì da
numeri. Si fermò quando rimasero soltanto sette antenne,
contraddistinte
proprio dai numeri da 1 a 7.
Poi Milo, davanti a
lui, sgranò gli occhi
e gli rifilò una spallata per spostarlo.
«Attento,
Shaka!»
Barcollando,
l’indiano fece qualche passo
e finì tra la folla impaurita. Si volse subito, cercando di
capire cosa fosse
successo, ma riuscì solo a scorgere Shura avventarsi
velocemente su un furioso
Death Mask.
«Fallo
smettere, Shura! Non pensi all’incidente?!»
urlò quello, mentre alle
sue spalle Aphrodite guardava la scena senza reagire. «Shura,
lo capisci che
cosa sta per fare?! Shura!
Fallo
smettere!»
Incidente.
Shaka
trasalì, vittima di un brutto
presentimento, ma non riuscì a fermarsi. Corse di nuovo da
Milo che reggeva la
lastra e afferrò i trasmettitori 6 e 7, quindi li ruppe.
Un urlo di terrore
spezzò la confusione
che s’era creata dopo l’aggressione di Death Mask.
Persino quello smise di
placcare Shura, atterrito, mentre il suo viso sbiancava vistosamente.
Non… non
c’era tempo da perdere.
Shaka
scambiò un’occhiata perplessa con
Milo, confuso quanto lui, poi avvicinò il palmo della mano
ai trasmettitori
restanti. Li ruppe tutti tranne il numero 1.
Sapeva di aver
indubbiamente fatto la cosa
migliore. Sapeva che, per mettere fine allo scempio di Yaoi City,
avrebbe
dovuto distruggere ogni cosa creata da Saga e restituire alla natura
tutte le
sue facoltà; non era forse per quello che sia Rhadamanthys
sia Shura avevano
deciso di aiutarlo?
Di conseguenza si
sorprese quando vide,
sul palco proprio davanti a sé, il giovane Sion e il suo
compagno scivolare a
terra, senza fare alcunché per limitare i danni della
caduta. Ancora qualche
urlo si levò dalla folla, ma l’attenzione di Shaka
fu calamitata da ciò che
successe a pochi passi da lui.
Death Mask lo
guardò a bocca aperta,
cereo, sconvolto, un attimo prima di afferrare Shura che scivolava a
terra come
Sion. Non staccò lo sguardo nemmeno quando sorresse
Aphrodite che, poco prima
di chiudere gli occhi, lo aveva abbracciato da dietro.
Shaka rimase immobile.
La sua mente
elaborava un’unica, terribile,
agghiacciante spiegazione.
«Shaka,
loro sono… sono m…» balbettò
Milo.
«Sono…»
In quel momento Death
Mask si sedette a
terra, stringendo i corpi dei due ragazzi esanimi, poi coprì
con una mano gli
occhi di Aphrodite e abbassò il capo.
Chi
vuol trovare la verità
si metta sulla strada del dubbio.
Ma Shaka, il dubbio,
lo aveva sentito
nascere nel cuore solo in quel momento.
«NO! FERMO!
FERMO!»
Sollevò
gli occhi giusto in tempo per
vedere Saga liberarsi da coloro che lo bloccavano, Aiolia compreso, e
correre
verso di lui. Col viso paonazzo, lo sguardo fuori di sé.
Esagitato. In lacrime.
«Fallo,
Shaka!»
La voce del sindaco
fu un tuono potente.
Quando Shaka
spezzò l’ultima antenna si
ritrovò Saga davanti, in lacrime. In lontananza invece non
vide altri che
Aiolos cadere dal palco.
«Perché…»
mormorò Milo, mentre lasciava scivolare
a terra la lastra metallica. Camus lo raggiunse, gli prese il viso tra
le mani
e glielo nascose sulla propria spalla, come se volesse proteggerlo da
quell’orribile verità; Shaka vide quel gesto,
sì, ma vide anche Aiolia portarsi
le mani alla bocca, mentre osservava il corpo senza vita del fratello.
«Shaka,
sette giorni servirono a Dio per
creare la Terra. Ho preteso troppo.»
Saga cadde in
ginocchio, mentre la folla
intorno a lui si ritraeva atterrita.
«Mi
dispiace di non poter essere io a
darti le risposte che cerchi.»
Fu troppo veloce, fu
troppo imprevisto.
Shaka ebbe solo il
tempo di notare Saga
raccogliere la pistola da terra, ma non riuscì a evitare che
si spingesse in
petto sia la punta sottile sia la stecca dentellata della lunga canna.
Kanon urlò.
EPILOGO
Appoggiando una mano
a un lampione, Shaka
si assicurò che anche l’ultimo poliziotto avesse
abbandonato il giardino che
guardava ormai da qualche minuto. Poco dopo, mentre rimaneva immobile,
due
volanti si allontanarono a sirene spente e lasciarono dietro di
sé una scia di
fumo grigiastro.
Di grigio, tuttavia,
non c’era solo
qualche gas pronto a disperdersi nell’aria. Le strade quasi
deserte, le case
silenziose, il Sole prossimo a tramontare sembravano a Shaka privi di
colore
almeno quanto il proprio stato d’animo.
Quando
ci sarà la fine del
mondo, dicevano i
catastrofisti di Chicago, io voglio
essere in Kentucky, perché ogni cosa accade lì
vent’anni dopo essere accaduta
nel resto del mondo.
Ma Shaka
l’aveva già vista, la fine del
mondo. Del suo mondo. E
l’aveva vista
proprio in Kentucky.
Si
allontanò dal lampione e varcò il
cancello del giardino, diretto verso la porta della casa davanti a
sé. Gettò
distrattamente un’occhiata alla più vicina
finestra del pianterreno, mentre i
ricordi si facevano quasi opprimenti.
Battendo la mano a
pugno solo due volte,
bussò alla porta di casa e si sfregò le scarpe
con rispetto sullo zerbino, ben
attento a non urtare i due cespugli di rose che crescevano ai suoi lati.
Si sentì
sollevato, quando la porta si
schiuse appena e un viso spuntò dallo spiraglio lasciato
aperto. Nessuno dei
due parlò per qualche secondo, poi, senza aver fretta, il
padrone di casa indietreggiò
e sparì all’interno, lasciando volutamente aperta
la porta.
Shaka
entrò in silenzio.
Benché
fuori imbrunisse, nessuna luce era
accesa e il poco chiarore proveniva da una finestra semiaperta.
Ciò nonostante,
l’indiano non ebbe difficoltà a scorgere
ciò che si trovava intorno a lui.
Un divano era stato
coperto con un
lenzuolo bianco e sopra di esso erano stati ammucchiati, confusamente,
diversi
scatoloni già sigillati. Un tavolo, invece, era stato
capovolto e alcune sedie
posizionate su di esso in modo da non sporgere oltre le quattro gambe.
Alle pareti non si
trovava appeso niente,
ma appoggiati a terra v’erano grossi rettangoli impacchettati
che avevano
l’aria di essere – o esser stati – quadri.
Soltanto un mobiletto
era ancora intatto
nella sua forma e funzione. Su di esso, però, tutte le
cornici erano state
capovolte nascondendo ogni fotografia.
«Posso fare
qualcosa per lei?» parlò
allora il padrone di casa.
Shaka gli
puntò gli occhi addosso. «Spero
di non disturbare, signor Death Mask. Vorrei farle una sola
domanda.»
Death Mask per tutta
risposta raccolse un
tappeto da terra e iniziò ad arrotolarlo.
«Scommette
che indovino?» borbottò secco,
senza esternare una singola emozione, mentre faceva scorrere le mani
sul
tessuto. «L’incidente,
vuole sapere?
Non può aspettare che la polizia finisca le indagini e le
comunichi tutto?»
«Io voglio
saperlo da lei.»
La voce di Shaka
suonò parecchio dura, ma non
si arrestò: «Lei è un avvocato,
dovrebbe sapere che la verità non sarà mai resa
pubblica. Non quando c’è di mezzo un agente della
CIA, perlomeno. O anche più
di uno.»
Death Mask si
bloccò, alzando gli occhi di
scatto.
«Mi
permetta di dirle…» mugugnò torvo.
«… che
se indovina anche quale nome si cela dietro la mia identità
fittizia, il
prossimo a lavorare alla CIA sarà lei.»
Shaka non raccolse la
provocazione, si
limitò ad alzare una volta le spalle e puntare lo sguardo
verso il divano. E
dire che proprio lì s’era consumato uno degli
episodi più assurdi della sua
esistenza.
«Cosa
c’è da spiegare?» fece allora Death
Mask, tornando a occuparsi del tappeto. Ma a Shaka non sfuggirono i
movimenti
più nervosi. «Sa, c’ero io,
c’era Saga, c’erano gli altri. Poi sono caduto a
terra. E tutto ciò che ricordo è Aphrodite con la
schiena spezzata che giaceva
accanto a me.»
L’indiano
non si concesse nemmeno il
diritto di sgranare gli occhi. Si limitò a osservare
l’altro mentre finiva di
avvolgere il tappeto e lo appoggiava accanto ai quadri,
disordinatamente.
«In questo
universo la gente nasce e muore
come se fosse polvere.» proseguì Death Mask,
sfregandosi le mani. «Non è
d’accordo?»
Shaka
esitò un attimo prima di rispondere.
Fallo
smettere, Shura! Non
pensi all’incidente?! Shura, lo capisci che cosa sta per
fare?! Shura! Fallo
smettere!
Non reputando utile
far notare la
contraddizione, si limitò ad annuire. «Anche se
mentre si è in vita si cerca di
ottenere l’amore e la gioia per superare la sofferenza, alla
fine tutto finisce
invano con la morte.»
«Sono
d’accordo.»
Con un ghigno
visibilmente forzato, Death
Mask aprì uno dei cassetti del mobiletto e iniziò
a rovistare tra il contenuto.
«Di
Aphrodite era rimasto soltanto il
viso. Tutto il resto, in quella testa, gliel’aveva sistemato
Saga.» proseguì,
strappando alcuni fogli e appallottolandone altri. «Allora
è proprio meglio che
sia morto.»
Shaka stavolta tacque
del tutto. Notando
che Death Mask era ormai impegnato a sistemare i cassetti, decise di
tener fede
alla propria iniziale richiesta di una sola domanda e si diresse verso
l’uscita.
Non c’era nient’altro da fare, se non lasciare
quell’uomo al peso delle sue
considerazioni.
Tuttavia, mentre si
voltava per chiudere
la porta, lo sorprese a sollevare una delle cornici.
Anche
se mentre si è in vita
si cerca di ottenere l’amore e la gioia per superare la
sofferenza, alla fine
tutto finisce invano con la morte, aveva detto, ma
adesso quasi si pentiva di non aver aggiunto,
forse per presunzione, che in realtà la
vita umana è come un lampo di luce.
Si diresse
velocemente verso la strada,
senza guardare indietro. Le ombre ormai lunghissime accompagnavano il
Sole che
s’avvicinava sempre di più all’orizzonte.
Quando già
s’era avviato per il viale, si
accorse con la coda dell’occhio che un’automobile
sulla strada aveva rallentato.
Riconobbe la vettura, ma ebbe una ulteriore conferma ai suoi pensieri
quando il
conducente gli fece un segnale con gli abbaglianti.
Si
avvicinò.
«Shaka, noi
partiamo adesso.» con voce
inflessibile, Camus si sporse dal finestrino smuovendo appena la corta
capigliatura. «Incontriamoci alla prima area di
servizio.»
L’indiano
gettò un’occhiata all’abitacolo,
dove Milo guardava fuori dall’altro finestrino. A giudicare
dai suoi occhi
spenti, tuttavia, era completamente sovrappensiero.
«Sì.»
rispose allora Shaka. «Ci vediamo
dopo.»
Con un cenno del
capo, Camus alzò il
finestrino e riprese la marcia lungo il viale. Shaka, al contrario,
attraversò
il giardino di una delle case per risparmiare tempo, quindi prese a
camminare
lungo la strada dell’altro isolato.
Fu qui che vide,
parcheggiata davanti una
grande villa, una decappottabile sui cui sedili posteriori
c’era una grande
gabbia per animali. Anche questa volta non dovette sforzarsi molto per
riconoscere il proprietario: uscì in quell’istante
dalla casa un uomo in jeans
strappati che portava al guinzaglio un alano di grossa taglia. Subito
dopo
altri due uomini lo seguirono correndo.
Shaka si
fermò.
«Kanon,
dove vuoi andare in quelle
condizioni?» a parlare era stato Lord Rhadamanthys,
visibilmente scosso. «Non
hai fatto altro che vomitare tutto il giorno.»
L’altro,
per tutta risposta, aprì lo
sportello della macchina e lottò per spingere il cane nella
gabbia. Quello
oppose resistenza, ma alla fine Kanon ebbe la meglio. Quindi il Lord si
avvicinò.
«Allontanati.»
replicò Kanon con
un’occhiata assassina. «Apparteniamo a due mondi
diversi. Non c’è niente su cui
discutere.»
«Ma
Sag-»
«Non
nominarlo.»
Il tono fu
così gelido che persino Shaka,
seppur lontano dal trio, trasalì.
«Non
nominare mai più mio fratello. Addio.»
Chiudendo la portiera
con uno schianto
fortissimo, Kanon balzò in auto e mise in moto senza nemmeno
allacciarsi la
cintura. Voleva andarsene, pensò Shaka. Vuole
andarsene perché non ha più niente qui, se non
una tomba su cui piangere. Vicino
a un’altra su cui piangeva e per sempre avrebbe pianto uno
scrittore che
proprio non s’immaginava un simile epilogo.
Shaka
sospirò, riprendendo a camminare in
direzione opposta. Malgrado il rombo del motore, malgrado i latrati del
cane, malgrado
le invocazioni di Lord Rhadamanthys, fu troppo facile avvertire i
singhiozzi di
Kanon perdersi nell’aria di quella soffocante
città.
La sagoma della
propria casa era ormai
visibile in lontananza.
Non contò
i passi che lo separavano da
quella meta, tutt’al più si preoccupò
di contare quante macchine stavano abbandonando
quel posto. Si trattava di un esodo lento, ma necessario.
C’era chi aveva perso
il proprio carattere e la propria dignità per mano della
persona più amata, chi
invece con l’inganno; altri, addirittura, s’erano
trovati a vivere la vita di
una mera macchina robotica.
Trovò
Aiolia appoggiato al cofano
dell’auto. Senza dire una sola parola, gli fece un cenno col
capo invitandolo a
salire e si diresse senza esitazioni verso il posto del guidatore,
quindi montò
a bordo e si allacciò la cintura.
Lo scrittore fu
più lento nei suoi
movimenti, ma una volta che Shaka ebbe messo in moto chiuse gli occhi e
si
coprì il viso con una mano.
L’uke
perfetto.
Tsk, qualcuno aveva
addirittura pensato
che il nome Shaka Tuja potesse confarsi a quella descrizione senza
controllo
mentale. Strinse i denti, indignato.
Chiunque
leggerà questo romanzo è
destinato ad essere ucciso dal grande Kasha Juta.
Accelerò non appena
imboccata la strada che conduceva
alla provinciale.
Egli
è Verità, Egli è questo romanzo, e
in quanto tale non può essere violato dai vostri occhi
infami e perversi. Egli
è il Mondo su cui oggi vive l’umanità.
Dando un’occhiata allo
specchietto retrovisore, riuscì
a scorgere il cartello segnaletico della città. La scritta
“Benvenuti a Yaoi
City” era ancora leggibile, ma qualcuno s’era
premunito di sbarrare
quell’infame nome con una vernice rosso scarlatto.
Più in alto, con lo stesso
colore, un nuovo toponimo brillava sotto gli ultimi raggi del Sole.
Egli
lottò contro il Male che sembrava
Bene e contro il Bene che sembrava il Male. Ha vinto ogni battaglia:
ciò che resta
è una tomba silenziosa in cui tutti i vivi hanno sepolto i
propri ricordi.
“Benvenuti al
Santuario”.
Okaaaaaaay,
fatemi spiegare!
Quando
iniziai
a scrivere la fanfiction non avevo assolutamente intenzione di farla
finire
così, mi sarei allontanata dal film per un lieto fine
più divertente. Anzi,
essendo una parodia dissacrante, sarebbe dovuta sfociare in un altro
dei tanti
luoghi comuni dello yaoi. Tuttavia siccome sono passati secoli dalla
stesura
del primo capitolo ho cambiato idea e mi sono detta “Oh beh,
tanto qui ho combinato
già abbastanza casini, perché non complicare
ulteriormente la situazione? In
fondo Saga l’ha fatta grossa!”.
Ed
effettivamente in questo capitolo scopriamo che, dopo un indefinito incidente che ha coinvolto sette agenti
della CIA, soltanto Saga e DM sono riusciti a sopravvivere in maniera
“naturale”. Da qui il comprensibilissimo gesto di
Saga di creare delle vere e
proprie macchine pensanti per sostituirli, e quello un po’
meno discutibile di
usare la propria abilità per piegare al proprio volere tutti
gli abitanti di
una città creata ad hoc. Ma questo l’ha capito
solo Shaka: dubito che
racconterà la verità completa ad Aiolia.
Se vi
fosse
sfuggito i numeri 6 e 7 indicavano Mu e Aldy, non a caso Kanon si porta
via il
loro cagnolone Fuffi. E molla Rhadamanthys senza nemmeno pensarci due
volte.
Anche nelle AU un saint e uno specter non possono pretendere rose e
fiori ù__ù
Comunque
in
questo capitolo ho usato molte citazioni tratte dal manga per il
dialogo
Shaka/DM; anche la frase sul Kentucky l’ho letta da qualche
parte e l’ho
inserita perché nel contesto era azzeccata.
Mh…
Grazie a
Dio è
finita. Non sapevo più gestirla
ù___ù;;;;
Perdonatemi,
nobile Shaka, per avervi coinvolto nelle mie folli idee di tre anni fa.
Accadrà
di nuovo, ma non saranno AU di questo calibro.
Tutti
a vedere La Donna Perfetta adesso!
è_____é
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