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Disclaimer: Questa storia è
stata scritta per puro diletto
personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui
descritto e i personaggi rappresentati sono copyright
dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la
citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite
permesso scritto.
"Domani ti riprometti che sarà diverso.
Eppure il domani è troppo spesso una reiterazione dell’oggi. "
- James T. McCay -
Prece di Sangue
"Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati"
Se le tue labbra non fossero già state occupate a latrare
ordini, ti saresti fatto una grassa risata: di quelle che corrodono
l'aria stessa e graffiano la gola, oltraggiando un Cielo di cui volevi
solo la lenta e agonica dipartita.
Avevi scartato di lato, fermando la lama nemica e spezzandogli l'elsa, infilando quel ferro rovente nell'addome del demone.
Con un colpo sordo gli avevi immerso le mani nella gola, strappandogli
la trachea e innalzandola nell'aere, un grido che squarciava quell'alba
amara e ferruginosa.
Rabbiosamente, l'avevi poi gettata a terra, frantumandola contro la suola dei tuoi stivali e sputandovi sopra.
Sembravano non finire mai.
L'universo era solo una massa indistinta di corpi e sangue, un costante
e protervio fluire di demoni e angeli, sciocchi piumini di luce e
feroci coaguli di tenebra.
I fianchi snelli e sottili di Auriel ti erano passati così
vicini che eri riuscito persino a sentire il frusciare delle sue ali,
il profumo dei suoi capelli.
Vacuamente, l'avevi fissata mentre si esibiva nel suo attacco migliore,
la speranza la lingua con cui metteva a tacere discussioni e demoni.
Era stato quasi un ringhio quello che ti era sfuggito tra i denti
serrati, il sibilo di un serpente e il maschio gonfiare i muscoli
dell'animale dominante.
L'orbita cieca del tuo sguardo aveva poi seguito la parabola di fumo e
lava di cui era composto il pugno di rocce su cui stavate combattendo,
un'accozzaglia di terra sterile e massi bollenti.
Accovacciato sulla parete rocciosa di un dirupo, non ti eri accorto della sua presenza.
La frustrazione e l'ira ti scorrevano sotto la pelle come fiato
d'inferno e lei ti aveva depositato il suo nel cuore, nelle membra,
risvegliando una brama da cui avevi sempre creduto d'essere avulso.
Travolto da quei sentimenti eri diventato polvere ed erano stati i suoi respiri a dissiparti nell'aria ingorda di Matarisvan.
I suoi sospiri.
"perché peccando ho meritato i tuoi castighi e molto più perché ho offeso Te"
Rapido, come solo i sicari di un paradiso malato sanno essere, avevi
estratto il gladio e gliel'avevi puntanto al petto, lasciando che una
stilla di plasma rubino scorresse lenta sulla sua pelle, tra l'incavo
dei seni.
Se ci ripensi ora, devi esserle parso orribile almeno quanto loro apparivano deformi alle tue iridi opalescenti.
"Cosa vuoi, puttana?"
Ti aveva sorriso, ignorando con l'elegante noncuranza del predatore
un'offesa che sapevi essere solo un secondo nome per un demone del suo
rango.
Quando aveva snudato i canini, l'aveva fatto per pronunciare le parole che avrebbero cambiato una storia, un mondo.
"Voglio quello che desideriamo tutti. Voglio una tregua."
Avevi steso le labbra in una piega derisoria, la mano che impugnava la spada sicura, salda: spietatamente attaccata all'unica cosa che dividesse due nature così lontane da essere uguali.
Eri polvere e macerie ancora prima di incontrarla, ma nel suo veleno
avevi trovato l'amalgama che ti aveva tenuto insieme, riunendo uno
spirito spezzato e una coscienza anestetizzata.
"Non ti credo."
Sinuosa, la lunga coda scagliosa si era arrotolata su se stessa,
carezzandoti gli zigomi ed il torso, schiantandosi poi al suolo come
una frusta di desiderio e rostri acuminati.
"Io non voglio che tu creda, piccolo angelo. Io non sono come gli
altri. Io non sono un padre scellerato e demiurgo, proibizionista ed
egoista, truffaldino e ipocrita."
Aveva allargato le braccia, mostrandoti la bellezza di un cosmo fatto
di grigi e compromessi, una trama così complessa da risultare
quasi indecifrabile.
"Io sono quella che vedi. Io non mento."
"Sei un demone. Un'assassina, un mostro violento e sadico."
Nei suoi occhi cremisi era brillata una scintilla strana, quasi il baluginio di un'ilarità nascosta.
"E sono anche una torturatrice, una puttana, non l'ho mai negato. Sono
cruda e forse persino più pura dei tuoi amici laggiù.."
aveva proseguito indicando con il mento la schiena di Arden,
concentrato nell'abbattere la cavalleria infernale "E ti chiedo una
tregua. "
Il primo atto di deliberato autolesionismo era stato quello di
abbassare l'acciaio per rinfoderarlo nella guaina che portavi sulla
schiena.
Il secondo, quello di rubare la pietra del mondo e nutrirla di un
sentimento che non poteva essere chiamato amore, ma che eppure vi
assomigliava terribilmente.
Del terzo, non ti eri mai pentito.
"infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa."
Era stato un ansito rauco quello con cui eri affondato in lei, una
bestemmia masticata quella che ti era invece sfuggita dalla gola quando
avevi perso il controllo.
"Dio..." avevi mormorato contro la sua spalla, saggiando una grana di cenere e sudore.
Matharet aveva riso, carezzandoti i capelli e socchiudendo le palpebre con l'indolenza della belva sfamata.
"Ti prenderebbe a calci in culo il tuo dio, Varok, se vedesse quello che hai appena fatto.
"Che vada a farsi fottere."
Un'altra risata si era fatta spazio tra le tende del santuario,
quell'appendice scagliosa che avevi tanto detestato che ti si
arrotolava intorno alla vita, nella ridicola imitazione di un gattino
indifeso.
Ed era così... strano.
Più guardavi il suo profilo nell'aria notturna, più ti convincevi di volerla.
L'alba della creazione di Matarisvan era stata officiata da una
manciata di angeli ed un nutrito gruppo di demoni, di cui Matharet si
era fatta leader e portavoce.
Per mesi avevate consolidato un'alleanza che pareva più un
abominio, la bizzarra curva di un destino che non conosceva remore e
limiti, confini e razza.
Protetti e isolati dagli occhi indagatori di una guerra che non avrebbe
mai avuto fine, avevate osservato la vostra gente crescere e diventare
un popolo.
Un pugno feroce di ali squamose e soffi d'eternità, che però parevano il più bello dei futuri.
Ma è l'abitudine, quella che frega.
Quando impari ad essere compagno e non più soldato, quando
afferri quelle mani artigliate, buone solo ad ammazzare e a lacerare,
senza orrore, ma cercandone il palmo tiepido e segnato dalle cicatrici
della guerra, allora sei perduto.
Nel particolare, la tua, di abitudine, aveva la pupilla uncinata di fiera e una chiostra di denti bianchissimi e famelici.
Aveva il sapore della libertà e la consistenza di una vittoria inaspettata, ma non per questo meno cercata.
Era un demonio, lo sapevi.
Lo sapevi anche mentre la rovesciavi sotto di te, sfiorandole le
vertebre flessibili della schiena alla ricerca di un'espiazione che
trovava luogo solo tra due cosce d'alabastro.
E sorrideva Matharet mentre si consegnava a te, dominandoti il cuore ancora prima che le membra.
Sorrideva quasi il taglio di una lama, fatta per squarciarti e
dividerti, ma tu la baciavi con la stessa rapace determinazione che
mettevi nella rena, sancendo un sentimento che era umido e avido di
parole.
Ti ha mai veramente amato?
Forse no, oppure sì, nel contorto modo che hanno i demoni di fare l'amore.
È un audace insieme di voglia e prevaricazione, dominio e dominazione, l'arrendevolezza dell'agnello che diventa infine lupo.
Poteva conficcarti quelle unghie nel petto e non avresti sentito niente, poichè la sua lingua demoliva ogni dolore.
Potevi farle male, sfogando l'insana debolezza di uno spirito fiaccato
da una guerra mendace, e lei ti avrebbe replicato stringendoti tra le
braccia.
È il buio di una coscienza svuotata quello che ti ingoia.
È il seme di un nuovo domani quello che hai piantato in lei.
È l'epifania della tua fine.
"Propongo col Tuo santo aiuto di non offenderti mai più e di fuggire le occasioni prossime di peccato"
All'inizio, non avevi ben capito cosa ti porgesse tra le dita sottili e ungulate.
Una massa di stoffe? Una strana accozzaglia di tessuti colorati?
L'avevi guardata negli occhi, frugandoli alla ricerca di un qualche
indizio, poi quella cosa aveva emesso un debole pigolio, che era
diventato un gridolino eccitato.
Titubante, avevi scostato il vello cremisi che lo ricopriva, per
incontrare un paio d'iridi uguali alle tue e un potere che avrebbe
potuto aprirti un buco al centro del costato, masticando con
soddisfazione ciò che sarebbe restato delle tue ossa.
"È tuo figlio."
Era rimasta in silenzio mentre te lo accostava al viso, il capo
lanuginoso del bambino che si reclinava contro le piastre dell'armatura
dorata.
"Eri sparita..."
Patetico, ma non avevi saputo replicare altro che la mera constatazione dei fatti.
Ti si era affiancata, toccandoti con lascivia una gamba ed esibendo un sorriso beffardo, quasi volesse sottolinearti l'ovvio.
"Eppure adesso sono qui."
A vedervi, saresti potuti sembrare la cupa parodia della famiglia
felice, se non fosse stato che tutto percepivi, eccetto la gioia.
"Si chiama Uldyssian." ti aveva mormorato leccandoti il collo "oppure Artoth. Credo che vadano bene entrambi."
Avevi stornato lo sguardo dall'orizzonte, un tripudio di barbagli rossi
e viola, per posarlo sul bambino che riposava tra le tue braccia.
Con l'orribile consapevolezza del perdente, ti rendesti subito conto che no, non lo volevi.
Non volevi quella creaturina e temevi, penosamente, che potesse distruggerti tanto era grande l'aura che gli brillava intorno.
Doveva averlo fiutato quel demonio di donna, perché te l'aveva
strappato dalle mani con la stessa rapidità con cui ce l'aveva
depositato.
"NO!" aveva latrato quasi una cagna rabbiosa "Non pensarci neppure!"
Avevi alzato un sopracciglio, irritato da tanta mancanza di rispetto.
Il vecchio Varok era riaffiorato dalla superficie immota che era
diventato il tuo nuovo viso, berciando parole che solo pochi mesi prima
non avresti mai pensato di pronunciare.
"Non osare parlarmi in quel modo, puttana. Il semplice fatto che mi sia
infilato tra le tue gambe non ti autorizza a rendere
questo...questo..."avevi gesticolato cercando la definizione giusta
"abominio il capostipite di un esercito. "
Ti tremavano le mani mentre tentavi di riprenderti quella pallottola di
carne e sangue, il tuo sangue, e renderla innocua, ma avevi incontrato
prima lo schiaffo di Matharet.
Per un angelo del tuo rango, quello schiaffo non valeva neppure la pena
di girare la testa, eppure bruciava come le spoglie di un passato che
sembrava ormai lontano decine di lustri.
Avrebbe potuto divellere con facilità le tue viscere e farci una
rudimentale collana, ma aveva scelto di piegarti all'umiliazione umana.
"E il semplice fatto che io te le abbia aperte non significa che tu possa ucciderlo."
Ed eccola lì tutta la sua forza, la sua incrollabile rabbia.
Lo teneva premuto sul seno nella raffigurazione di un incubo, eppure
Artoth guardava te, proprio te, come un mostro, non la femmina di
spigoli e ossa che gli aveva dato i natali.
In quelle gemme sanguinolente ardeva tutta la protervia uterina di una
madre, l'implacabile volontà di una donna, la furia di un
demonio.
Avevi stretto le labbra in una piega amara, avvicinandoti tanto da sfiorarle il naso con i capelli.
"Non posso permettere che viva. Che tutti loro..."avevi continuato indicando la valle circostante "vivano."
"Perchè?" ti aveva ringhiato sulla bocca, infrangendo il tuo
stesso respiro "perché è troppo potente? Perché il
tuo ego è talmente grande che tu e solo tu puoi essere adorato?
Vuoi un esercito di schiavi o di soldati, Varok? La libertà, la
NOSTRA libertà, è a un passo. Possiamo annientare Inferno
e Paradiso con un semplice schiocco di dita. Non puoi ucciderli. Sono
figli nostri. Lui..." aveva sibilato sbattendotelo sul mento "è
figlio tuo."
Un sospiro esausto si era fatto strada tra i tuoi denti serrati.
Ti eri impadronito delle sue labbra con stizza, in un bacio vorace che puzzava di abbandono e perdita.
Ti aveva risposto mordendoti e incidendoti la grana sottile della nuca,
nel tuo sangue lo stigma di una battaglia che avrebbe trovato vittime
nel rovinoso egoismo di due creature nate per combattersi.
Ma che cos'era in fondo l'amore, se non una guerra d'intenti ed emozioni?
"Signore misericordia, perdonami."
Avevi tentato di spostare il peso da un piede all'altro, ma il dolore era stato talmente intenso da farti desistere.
La caviglia ti aveva ceduto, costringendoti a rovinare al suolo, gli
uncini che ti straziavano le carni divaricare ulteriormente piaghe
suppuranti e cicatrici mai veramente cancellate.
Se solo le avessi ancora avute, avresti chiuso le palpebre per non
rifletterti nel nulla di uno specchio che ti rimandava l'imago residua
di un relitto, una carcassa.
Le rovine di un evo annichilito in pochi istanti.
Quando avevi scacciato Matharet, confinandola nel nulla, una crepa
insanabile si era spalancata su Matarisvan, conducendoti sulla via di
un oblio programmato e ineluttabile.
Il tuo stesso figlio, tanto odiato e tanto temuto, ti aveva schiacciato nella polvere, distruggendo la tua egemonia.
Inferno e Cielo si erano rovesciati sulla tua terra, vomitati troppo in fretta per riuscire ad evitare il peggio.
Quando eri stato ceduto a Moloch dal Concilio di Angrovis, avevi compreso d'essere al capolinea.
Torturato infine volte e per infinite albe, del tuo corpo, maschio e
perfetto, rimanevano solo brandelli di carne e rigonfiamenti osceni.
Appeso quasi un maiale sgozzato, non speravi neppure nella morte,
perché era un lusso che avevi concesso ai phazani, ma di cui tu
eri sprovvisto.
Ironico come una punizione si fosse fatta benedizione, mentre tu rimanevi a marcire sul fondo dell'Inferno.
Ironico davvero che cercassi ancora i suoi occhi nei volti dei tuoi aguzzini.
Quasi uno spietato déjà vu, neppure questa volta ti eri accorto della sua presenza.
L'avevi vista specchiarsi alle tue spalle, la coda rostrata che dondolava languidamente e il passo fluido del predatore.
Avresti voluto sputare una risposta sprezzante, oppure un commento
sarcastico, ma Moloch pareva avertele strappate tutte: insieme alla tua
dignità.
Quando l'avevi avuta davanti, eri rimasto semplicemente in silenzio,
ascoltando i respiri spezzati con cui tentavi di lenire la sofferenza.
"Varok..." era stato un sussurro, intriso di una malinconia struggente e un'ira latente.
Avevi perseverato nel tuo cocciuto mutismo, trasalendo al contatto con le sue mani.
Quelle dita sottili avevano percorso il moncone di un paio d'ali
estirpate a morsi, i fori delle zanne dei cani infernali nella polpa
tenera dell'addome, l'empia tumefazione che Moloch aveva avuto il
piacere di assestarti.
"Se con queste hai dato i natali
all'esercito che mia figlia voleva ribaltarmi addosso, penso proprio
che ne farò una graziosa coppia di giocattoli per i miei
cuccioli. Tanto..." aveva mugghiato malevolo "non ti serviranno più."
Lo strappo che ne era seguito ti aveva lasciato in un lago di sangue e bile, residuo di un orgoglio che pungeva come mille aghi.
"No..." eri riuscito ad esalare flebile "Non lì... non toccarmi..."
Matharet aveva arrestato la propria mano a un passo dall'inguine,
chiudendola poi a pugno e fissandoti con occhi che parevano un oceano
ribollente di plasma e memorie, notti passate sul filo di lama e
intrecci di sudore e pelle.
"Perchè?"
Non avevi risposto, poiché la replica sarebbe stata troppo
infantile, persino troppo stanca per prendersi la briga di farla
rotolare sulla lingua.
"Non doveva andare così."
Digrignava i denti e rumoreggiava come la spuma di quel mare che
avevate creato e colorato assieme, ma pareva incisa nella lava e nelle
fiamme di un inferno da cui non eravate riusciti a scappare.
"Perchè?"
Era una singola parola, un coagulo di lettere che non avrebbe dovuto
intimorirti, eppure ti sembrava di sentire la tua epidermide creparsi e
aprirsi in mille fessure, da cui sarebbero eruttate tutte le tue
debolezze, i tuoi sentimenti, le tue illusioni.
"Lasciami in pace..." era stato il gemito strozzato con cui l'avevi apostrofata "ti prego."
Un ruga le aveva solcato la fronte, nella pura perplessità che le aveva procurato la tua richiesta.
"Varok non supplica, mai. Me l'hai detto la prima volta che ci siamo incontrati."
Un sorriso privo di allegria ti aveva adornato il viso, il ricordo un'immagine sfocata e lontana.
"Le persone cambiano; persino gli angeli."
Ti era stata ad un passo in un battito di ciglia, squadrando la tua orrida figura.
"Perchè?"
Avevi chinato il capo, sconfitto.
Eri caduto dal Cielo per essere dominatore e ti eri scoperto dominato.
Avevi combattuto per essere re ed invece erano state le catene delle
schiavitù quelle che ti avevano imprigionato su Matarisvan.
Avevi voluto essere lupo, salvo poi essere percosso come una pecora.
"Ha importanza?"
Matharet aveva catturato le tue labbra, spaccate e ruvide, in un bacio
ingordo e ansioso, quasi il tempo fosse diventata una dimensione
stretta e limitata.
"L'ha sempre avuta, Varok."
E capisci di aver gettato via un futuro per un passato che era solo un
nugolo di carne incancrenita e bruciata, di aver ripudiato un figlio
che avrebbe portato il tuo nome e i tuoi occhi.
Capisci che gonfiare muscoli ed ego non fanno di te un uomo e nemmeno un dio: solo un misero perdente.
Ti sfiora il petto e vi depone un leggero bacio, là, dove lo spettro di una perfezione esangue brilla ancora.
Incapace di muovere le braccia, vorresti stringerla un'ultima volta o
forse colpirla così forte da sporcarti le nocche di sangue.
Nel dubbio, fai l'unica cosa che ti è concessa fare in quel buco sporco e desolato: piangi.
Sono pallidi fantasmi di un evo morto quelli che ti strisciano lungo il volto.
Sono sbuffi di fumo e vetro quelli che raccolgono l'ultimo ansito della
tua anima, sulla bocca di Matharet le lacrime con cui ti sei rifiutato
di abbeverare persino tuo figlio.
"Matharet..."rantoli tra un singhiozzo e l'altro "Matharet..."
Sei patetico, ma non ti importa.
Perché il rimpianto è un futuro che non abbiamo voluto vedere, un passato che abbiamo rinunciato a comprendere.
Un presente da cui non riusciamo a liberarci.
E il tuo ti straziava ancora il cuore.
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