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{Gli avvenimenti
vanno a collocarsi subito dopo la
2x12}
You
bring my
heart to its knees
Il
rumore vibrante del
tergicristalli ridondava nelle orecchie di Stiles, amplificato dal
silenzio
dell’abitacolo, ma non abbastanza da coprire i suoi pensieri.
Alle porte della
sera la pioggia fitta sciacquava le strade di Beacon Hills, facendo
scivolare la
città in quello che era proprio un tempo da lupi.
C’era
una cosa che Stiles non
aveva ancora detto a nessuno.
D’altronde
non ne era nemmeno
sicuro, ma non poteva più ignorare quel fremito che lo
avvolgeva quando Derek
si trovava nei paraggi. Chissà, forse poteva essere una
prerogativa da lupi
mannari, un fascino che va al di là dell’umano e
confonde le persone normali con
le sue spire… Oppure, semplicemente, era qualcosa contro cui
Stiles era
chiamato a sbattere senza rimedio, perché glielo diceva il
suo intero essere.
Qualsiasi
cosa fosse quella,
aveva aiutato Stiles a capire che la cotta per Lydia era stata quasi un
puntiglio infantile e che era ora di voltare pagina, di crescere.
Certo, la
trovava sempre bellissima, e adorava il fatto di essere stato uno dei
pochi a
comprendere quel suo cipiglio altezzoso che usava per nascondere una
natura brillante:
Lydia Martin era probabilmente la ragazza più intelligente
della scuola e senza
dubbio una delle più affascinanti. Adesso Stiles si rendeva
conto che in tutti
quegli anni aveva inseguito con caparbietà un sogno che
profumava di Chanel n°5
più per forza di inerzia che per altro. La sua testa aveva
catalizzato Lydia
come oggetto d’amore prima ancora di capire cosa
l’amore realmente fosse.
E
Lydia rimaneva comunque
fantastica ma niente -niente- poteva
competere con ciò che era Derek. All’inizio Stiles
pensava di esserne soltanto
intimorito, e forse era così, ma poi quel timore aveva
lasciato campo a
qualcosa di diverso. Derek agli occhi di chiunque poteva apparire
l’infallibile
Alpha, il lupo cattivo scontroso e senza veri affetti che non si fidava
troppo di
nessuno. Stiles vedeva oltre, e desiderava farlo sempre più
a fondo: per lui
era evidente che Derek avesse parecchi problemi, che una mano di dolore
chissà per
quale ragione schiacciasse perennemente il suo cuore. Dunque ovviamente
non era
accaduto solo che quella bellezza selvaggia intrappolata sotto una
coltre di
ghiaccio avesse inequivocabilmente turbato gli ormoni adolescenziali di
Stiles…
C’era molto altro. Voleva essergli vicino, affondare una mano
nella sua anima
ed esplorarne i limiti proibiti al resto del mondo… e poi
solo dopo magari provare
cosa si sentiva a dormire adagiati sul suo petto.
A
primo impatto, ciò che vide gli
parve frutto della propria immaginazione. Tuttavia calò il
piede sul pedale del
freno per far rallentare la jeep e, osservando meglio attraverso il
parabrezza
gocciolante, non ebbe dubbi: Derek. Correva sul ciglio della strada con
le
spalle ricurve, l’acqua che si abbatteva sulla nuca scoperta
e colava lungo la
giacca di pelle. Stiles l’aveva riconosciuto perfino da
lontano, perfino senza
vederne la faccia: la sua sagoma era impressa perennemente nella sua
testa. Inchiodò
accanto al marciapiede lampeggiando con gli anabbaglianti, e Derek si
ritrovò
costretto a fermarsi mentre il finestrino dalla parte del passeggero si
abbassava. L’Alpha fece guizzare lo sguardo
all’interno: quel ragazzo si era proteso
tutto sull’altro sedile per farsi sentire al di sopra del
ticchettare
incessante della pioggia, ma dalla faccia non sembrava del tutto
convinto di
ciò che stava facendo. «Sali?»
Star
lì a beccarsi l’acqua certo
non l’avrebbe portato a nulla, quindi Derek convenne che
accettare un passaggio
fosse fattibile. Non appena fu entrato in macchina non rivolse
all’altro
neppure una parola, limitandosi ad osservare le proprie maniche da cui
colavano
rivoli di pioggia.
Stiles
non si era aspettato
qualcosa di molto diverso, perciò toccò a lui
aprir bocca per primo. «È
imprudente da parte tua andartene in giro a piedi.» disse,
con un tono ironico
che gli costò una brusca risposta.
«Idiota,
credi che mi stessi
divertendo a passeggiare sotto la pioggia?» soffiò
l’altro, increspando le
labbra. «Capita anche alle belle macchine di rompersi. Ho
dovuto accostare
mezzo miglio più indietro e, a dirla tutta, stavo correndo
da un meccanico.»
replicò secco Derek. Gli costava moltissimo chiamarlo
“idiota”, eppure la parte
atrofica del proprio cuore glielo ordinava. Poca confidenza a quel
ragazzino
petulante…
Stiles
sbuffò dal naso, disarmato
da quella solita intrattabilità. Notò che Derek
non gli aveva ancora indirizzato
un singolo sguardo, fosse anche minaccioso, e continuava invece a
scrutarsi le
maniche della giacca come se fossero la cosa più importante
del mondo. Stiles
avrebbe tanto voluto accarezzare la pelle scricchiolante e bagnata che
avvolgeva quelle braccia… ma, diamine, doveva smetterla di
pensarci, altrimenti
si sarebbe smascherato seduta stante con un battito cardiaco
difficilmente
equivocabile. “Okay, siete per l’ennesima volta
soli nella tua macchina. Non
pensarci, Stiles, calmati. O cominceranno ad accelerare le pulsazioni e
lui se
ne accorgerà” pensò, tanto almeno il
suo cervello Derek non poteva leggerlo. Al
contempo, avvertì un impulso da buon samaritano che lo
spinse a torcersi tutto
per prendere qualcosa dal sedile posteriore. Afferrò un
lembo con le dita e
tirò svelto a sé la sua felpa rossa
appallottolata.
«Mettiti
questa. Coli acqua da
tutte le parti.» disse, facendo finta che quella piccola
offerta fosse una cosa
da niente. In realtà sapeva benissimo che probabilmente
Derek avrebbe declinato
rispondendogli con qualcosa di poco carino. Ma, chissà per
quale strano motivo,
l’Alpha non squadrò la felpa come se fosse appena
uscita dalla spazzatura,
bensì la prese e se la mise addosso dopo aver buttato a
casaccio la propria
giacca sul retro. Stiles era sicuro di esserselo solo immaginato, ma
Derek
aveva gorgogliato qualcosa di molto simile a un
“grazie”. Il lupo tentò di
tirare su la zip, ma dopo aver constatato che si chiudeva a fatica
attorno alla
sua massa muscolare, si limitò a calarsi soltanto il
cappuccio in testa.
«Bene,
ora ti porto a casa.»
«Quale
casa?» Derek si accigliò.
Stiles
deglutì e mise in conto la
probabile scottatura che sarebbe derivata dall’avvicinarsi
così tanto al fuoco,
prima di trovare il coraggio di parlare. «Mia.
Ovvio.»
«Ah
sì?» Stiles fu sollevato
perché gli parve di vedere per un attimo sul viso altero di
Derek una vaga
espressione divertita «E come lo spiegheresti a tuo
padre?»
«Posso
nasconderti sotto un paio
di coperte, ti porterei da mangiare in camera…»
snocciolò l’idea con aria di
sufficienza.
«Mi
hai preso per un barboncino?»
lo rimbeccò Derek, perplesso. Aveva contratto le labbra in
un ghignetto che
Stiles trovò stramaledettamente sexy. Maledizione.
Maledizione! Il biancore di
quei denti lo abbagliava, era qualcosa di totalmente fuori
dall’umano.
Il
ragazzo si strofinò il mento e
sembrò vagliare a fondo le sue conoscenze.
«Be’, in realtà, se consideriamo che
il lupo appartiene alla famiglia dei Canidi…»
Lo
sguardo gelido di Derek lo
trapassò da parte a parte, micidiale e bellissimo come
sempre, ogni traccia di
sorriso scomparsa. Stiles sentì la gola asciutta, gli occhi
che bruciavano, il
cuore che accelerava burrascosamente. Sperò che Derek la
scambiasse per paura.
«Okay, stavo scherzando. È di turno
stanotte.»
«Resta
una pessima idea.» grugnì
l’altro, l’odore della felpa che gli impregnava i
polmoni senza che lui potesse
opporvisi. Detestava non riuscire a controllare quello che aveva
intorno, e
succedeva spesso. «Portami dal meccanico, è
lì che devo andare. Poi, mi
porterai a casa mia.»
«Scusa,
stavo solo cercando di
aiutarti. Si vede che stare in quella casa tutta…»
stava per dire “bruciata”,
ma si trattenne bene dal farlo «…pericolante ti
piace parecchio.»
«Be’,
è casamia.»
rispose Derek,
e Stiles sentì di dover leggere in profondità
quella frase… Quella dimora era
un legame, il simbolo di una famiglia distrutta. Lui aveva perso solo
sua madre
e il dolore si faceva vivo ogni giorno; non osava immaginare cosa
potesse
significare trovarsi nella situazione di Derek… «E
non sono solo adesso.»
aggiunse l’Alpha come per giustificarsi, forse resosi conto
di aver rivelato una
traccia di sentimentalismo.
Stiles
prese a picchiettare con i
polpastrelli sul volante. «In ogni caso non possiamo
spingerci verso il bosco
con questa pioggia. Non ci tengo a che la mia jeep rimanga
impantanata.» disse,
pragmatico.
«D’accordo,
non perdiamo tempo. Vuoi
portarmi dal meccanico sì o no?» esplose Derek,
più feroce del dovuto. Era
l’unica cosa che poteva fare quando perdeva il controllo del
mondo: tirar fuori
la rabbia, lasciare che le parole mutassero in ringhi autoritari.
Perché aveva
deciso di accettare quel passaggio? E perché quel dannato
ragazzino tutto stava
facendo tranne che mettere in moto?
«Hmf,
sai… non lo so.» sbottò
Stiles, nervoso, colpendo con violenza il volante. Non accettava di
essere
trattato in quel modo. E lo irritava il fatto che provasse qualcosa per
Derek
senza riuscire a creare un ponte solido fra di loro. Doveva essere una
sfiga
persistente la sua, dato che propendeva per gli amori impossibili. Ma,
d’altronde, cosa aveva creduto? Che l’Alpha avesse
mai potuto ricambiare?
Cristo, avrebbe dovuto tenere i piedi per terra, una buona volta.
«Stiles.»
Derek pronunciò il suo
nome come se stesse per spingerlo giù da un burrone.
«Io ti…»
«…ammazzo?
…squarto? …ti appendo
al cavo dell’alta tensione per le orecchie?» lo
interruppe l’altro, stanco di
quel giochetto «Si dà il caso che tu stia
indossando la mia felpa rossa e
questo ti rende assai meno… spaventoso.
Nessuna di queste minacce attacca, Derek.» Stiles non sapeva
da dove gli
arrivasse quell’audacia scanzonata ma, d’altro
canto, quella volta in cui
l’Alpha aveva minacciato di squarciargli la gola con i denti
-proprio in quella
macchina- sembrava lontana secoli e non l’aveva preso poi
davvero sul serio.
«Ma
che diavolo vuoi?» crollò
Derek, sapendo che quella domanda era più per se stesso che
per Stiles. Si era
arreso, lasciando defluire la rabbia e guardando il più
piccolo con occhi
diversi. In fondo non meritava quel trattamento così acre,
era solo che lui
stesso non riusciva a fare ordine nella sua maledetta testa e se la
prendeva
con lui. Era facile, così.
«Io
non voglio nulla, stiamo solo
avendo una piccola controversia dettata dalla tua perenne
acidità.» puntualizzò
Stiles. «Non mi va di litigare, non mi diverte. È
solo che ogni tanto mi illudo
che tu possa essere gentile…» ammise, girando la
chiave d’accensione. Il motore
della jeep fece il suo dovere, Derek invece restò in
silenzio a fare a pugni
con la propria interiorità.
Stiles
preferì rimanere in
macchina, dato che l’ultima volta che era entrato da un
meccanico si era
ritrovato testimone di qualcosa di agghiacciante. Prima di scendere,
Derek si
levò di dosso la felpa rossa di Stiles e la
abbandonò sul sedile. Con due balzi
veloci coprì la distanza dal marciapiede
all’officina e vi rimase dentro per
dieci minuti buoni.
In
quegli attimi di contemplativa
solitudine, lo sguardo di Stiles cadeva continuamente sulla felpa che
Derek non
aveva esitato a sfilarsi in tutta fretta. Gli faceva così
schifo portare
qualcosa di suo addosso, o farsi vedere in giro con roba da
adolescente?
Nessuna delle due opzioni era confortante, notò Stiles, e
andavano entrambe a
suo sfavore.
Lo
scrosciare dell’acqua,
intanto, non accennava ad assottigliarsi, e contribuiva oltretutto a
infondergli un certo cattivo umore. Con la pioggia vedeva come
amplificati
tutti i suoi problemi, le sue incertezze… e soprattutto, ora
che Derek era così
vicino a lui, si sentiva un povero folle col cuore destinato ad un
martirio
atroce.
Come
uno schianto nel bel mezzo
dei suoi pensieri, la portiera della jeep si aprì e si
richiuse. Insieme a
Derek era rientrata anche una nuvola di quel suo profumo legnoso,
agrumato,
sbiadito dall’odore pungente dei temporali. Per quei pochi
minuti di assenza
quella fragranza gli era mancata da morire… Avrebbe voluto
respirarla a fondo,
ma non lo fece per ovvi motivi.
«Fai
strada al carro attrezzi.
Torniamo indietro, ti dico io dove fermarti.» disse Derek
mentre infilava di
nuovo le braccia nella felpa.
Stiles
sbatté più volte le
palpebre, visibilmente confuso da quello che vedeva. L’Alpha
si era davvero rimesso
quell’indumento di sua spontanea volontà?
Mugolò un “ehm”. Voleva chiedere
spiegazioni, ma come avrebbe potuto? Gli morirono in gola, incapaci di
uscire.
«Per
favore.» aggiunse Derek, le
narici allargate in segno della fatica che stava facendo.
Stiles,
se possibile, era ancora
più confuso e, non sapendo cosa dire, alzò le
mani e arricciò la faccia in
un’espressione accomodante. «Certo!» Non
poteva sapere che l’unico motivo per
cui Derek pochi minuti prima si era liberato della felpa era
perché non voleva
che si inzuppasse del tutto. Ci stava bene, in realtà; era
calda, morbida,
asciutta e intrisa da cima a fondo dell’odore buono di
Stiles: ammorbidente,
biscotti, succo d’arancia e una lieve traccia di sudore che
Derek avrebbe
voluto esser capace di trattenere fra le dita. Non poteva esserci
niente di
meglio al mondo, niente di più salutare, niente di
più bello.
Dopo
una buona mezz’ora e la
promessa che il lavoro sarebbe stato svolto il prima possibile,
l’auto di Derek
si ritrovò al sicuro fra le mura dell’officina.
Restava solo un dilemma: dove
andare. Stiles rimaneva irremovibile nella sua posizione: non si
sarebbe spinto
fino alla riserva.
Derek
non l’avrebbe ammesso
nemmeno sotto tortura, ma nutriva un disagio crescente mano a mano che
si
avvicinavano a casa Stilinski. Era vero che una volta ci era andato di
sua
spontanea volontà, ma si era trattato di circostanze
diverse… E portava stretto
a sé il ricordo del momento in cui aveva trattenuto Stiles
contro la porta
-razza di irritante scricciolo che non era altro!-, quando quasi gli
stava
respirando addosso, poteva ammirare da vicino lo scintillìo
allarmato dei suoi
occhi nocciola e in un barlume di bestialità aveva creduto
di stare per cedere
alla malia di quelle labbra dischiuse, frementi, arrossate. Poi uno
Stiles
piuttosto sconvolto aveva fatto una battutina delle sue, i toni si
erano
smorzati e Derek, frastornato, l’aveva lasciato andare. Si
era sentito come
sballottato fra vuoto e materia… In una certa maniera aveva
frizzato sulla sua
pelle anche una sensazione di sconfitta, di essere stato schiantato a
terra e
lasciato lì inerme. Era una cosa che odiava moltissimo.
Eppure Stiles non aveva
fatto nulla di eclatante per ridurlo in quelle condizioni. Dopo
quell’episodio,
Derek si era chiesto infinite volte cos’avesse Stiles di
tanto speciale. Giorno
dopo giorno gli erano sovvenute una miriade di risposte, la notte le
contava
sulle dita e si addormentava cercando di rinnegarle… Partiva
dalle
caratteristiche fisiche come la chimica del suo odore e finiva alla sua
incredibile
forza di volontà, passando per altri mille punti che
accarezzava con timore.
Perché più andava avanti e più una
parola si stampigliava a fuoco nell’intricato
lavorìo dei suoi neuroni, una parola che era forse
l’unica al mondo in grado di
terrorizzare lui, l’Alpha di Beacon Hills. C’erano
così tanta luce, così tanta
vita e così tanta umanità nel coraggioso ma
fragile Stiles… e destavano in lui
un’ammirazione devota e silenziosa, nascosta, taciuta a
chiunque e perfino a se
stesso.
«Vieni.
Puoi toglierti le scarpe
se vuoi…» mormorò Stiles. La sua voce
era ridotta a un filo, nonostante in casa
fossero soli. O forse il motivo era proprio quello. Che bisogno
c’era di
urlare, quando potevano ascoltarsi senza problemi? Stiles
cercò l’interruttore
a tentoni, ma la mano di Derek scivolò timorosa sulla sua.
«Non accendere.»
disse l’Alpha, serrando per un folle istante la stretta sulle
nocche
dell’altro. Poi lasciò andare, veloce come se si
fosse scottato. Stiles sentì
il cuore saltargli in gola, le pulsazioni che galoppavano
sconsideratamente e
la voglia impellente di piangere e piangere e piangere.
La
pioggia ticchettava sonnolenta
alle finestre mentre Derek con le scarpe in mano saliva le scale
guidato
dall’altro. Giunti al pianerottolo del secondo piano un lampo
fendette il cielo
lamentoso, lo squarcio di luce piombò da una finestra aperta
in una camera e li
illuminò completamente per un breve attimo.
L’Alpha assorbiva ogni particolare
di quella casa: ne respirava a pieni polmoni l’odore, si
aggrappava al
corrimano, sfiorava la superficie fresca e candida del muro con i
polpastrelli,
gettava lo sguardo sui quadri alle pareti, faceva frusciare il passo
sui
tappeti… Tutto ciò per distrarsi da quello che
aveva appena fatto al piano di
sotto: aveva preso la mano a Stiles, hm, all’incirca. Non era
riuscito a
evitarlo. Il suo braccio si era mosso, l’ordine impartito dal
cervello era
stato esaudito senza tener conto delle conseguenze. Già, le
conseguenze. Ormai
Derek era in grado di annusare nell’aria la tensione sessuale
che collegava lui
e Stiles come una rete di fili elettrificati. Eppure ancora non aveva
preso una
decisione: non poteva, non doveva toccarlo più, era
sbagliato, e non lo
meritava; la sua volontà recalcitrante, però,
affermava l’esatto opposto… Lo
desiderava: era la dolce e graziosa Cappuccetto Rosso che portava il
Lupo
Cattivo nella propria casa, troppo allettante per poter resistere. Ma,
fuori
dalla metafora quasi cliché della fiaba, Stiles era
semplicemente un sogno ad
occhi aperti, un sogno che sentiva il bisogno di tastare sotto le mani
per
capire quanto reale potesse diventare. Purtroppo lasciarsi andare era
arduo
quando di mezzo ci si metteva qualcosa di forte; perché no,
Stiles non
significava solo una scopata. Sarebbe stato facile prenderselo per pura
brama,
una notte e via, o magari una botta ogni tanto. Ma Derek non voleva
essere quel tipo di mostro. Stiles
significaval’amore,
lo sapeva bene. E
l’amore significava rischiare giocando una posta alta,
ipotecare il cuore, dare
qualche garanzia, significava calore, calore umano da sciogliere in
endovena…
Significava troppo e, proprio per questo, era convinto di non esserne
all’altezza. Aveva il ghiaccio nel petto, lui, nessuno poteva
assumersi
l’incombenza di farsi strada lì dentro. La vita di
Stiles era già stata scombussolata
a sufficienza, intromettersi nel suo precario equilibrio per portare
altro caos
sarebbe stata una mossa assai egoista.
Abbandonarono
le scarpe proprio
sull’uscio prima di entrare nella camera. Stiles si diresse
verso la piccola
abat-jour sul comodino, la accese e proiettò il fascio in
basso per fare un
minimo di luce, soltanto quel che bastava per distinguere Derek
dall’oscurità.
L’Alpha intanto aveva appoggiato la felpa sul letto e
attendeva istruzioni.
C’era da ammetterlo: la situazione era un tantino
imbarazzante. Nessuno dei due
sapeva cosa fosse opportuno dire o fare, così Stiles si
buttò sulle domande di
cortesia: «Vuoi farti una doccia? Hai fame?»
Derek
scosse due volte la testa.
«Chiamo Peter.» La telefonata fu sbrigativa e, una
volta conclusa, fra loro si
adagiò di nuovo il silenzio. Si resero conto di essere un
po’ ridicoli
probabilmente quando ebbero passato cinque minuti buoni in piedi, uno
che dava
le spalle all’altro, senza emettere un suono. Al che Stiles,
con le spalle
indolenzite dalla tensione, decise di muovere qualche cauto passo in
direzione
del letto. Si sedette proprio di fronte a Derek, affondò le
dita nel copriletto
per il nervosismo che lo stava divorando e domandò:
«Vuoi che spenga la luce?»
Le
parole gli erano venute fuori
come un conato di vomito. Credeva di aver ucciso tutto quanto. Credeva
di
essersi spinto talmente oltre da non poter reggere l’esito.
Eppure non era
riuscito proprio a resistere, Derek profumava come una promessa
sensuale, lo
vedeva immobile nella penombra a vagliare il territorio e non
comprendeva cosa
gli passasse per la mente. La domanda che gli aveva posto era talmente
ovvia
nel suo doppio senso che si aspettava di scorgere da un momento
all’altro gli
occhi di Derek balenare dal verde al rosso furente.
Ma
non accadde. Derek,
finalmente, si mosse. Un paio di falcate e l’abat-jour era
spenta, altre due ed
eccolo sul letto, spalla contro spalla con Stiles. E Derek lo sentiva
tremare
forte, col respiro spezzato da un pianto uggiolato, senza fiato.
«Stiles…»
disse, strusciando i
palmi delle mani lungo le cosce. Lo guardava e desiderava poter
cancellare
quello che stava accadendo. Non osava toccarlo. «Stiles, che
ti prende?» Ma lo
sapeva già, lo sapeva. Non era mai stato più a
disagio di così in presenza di una
persona. Voleva sentirsi dire che quell’attacco di panico era
colpa sua, voleva
che Stiles lo odiasse, voleva che gli tempestasse il petto di pugni
-ora
gliel’avrebbe permesso-, voleva che il più piccolo
si sfogasse una volta per
tutte…
«Io
non ce la fa…faccio, Derek.»
balbettò Stiles «P-perché non posso
am-ama…» Ogni parola gli costava uno
sforzo, ogni sforzo partiva dal cuore e fotteva il cervello.
«Stai
calmo.» disse l’altro, sofferente
come se gli avessero piantato un pugnale nello stomaco.
Deglutì a vuoto, Derek,
alzò le mani, non sapeva dove cazzo
metterle per aiutarlo, per farlo smettere di tremare a quella
maniera…! Si
sentì impacciato, stupido, debole,
poi… umano. Ed era da troppo tempo che non si sentiva tale.
Tirò Stiles a sé, quel
piccolo raggio di sole che rischiava di accartocciarsi su se stesso, lo
cinse
tutto con le braccia, gli regalò il caldo del suo petto, un
bacio sulla testa
rasata, un ordine sussurrato… «Non dire niente.
Non dire niente, ti prego.»
Derek percepiva il battito frenetico del cuore di Stiles contro il suo.
Maledizione, era tutto sbagliato. Non poteva essergli davvero
d’aiuto, era
questa la dura verità.
E
Stiles godette di quel contatto
come una benedizione, come uno spiraglio di stabilità fugace
da cui non voleva
staccarsi. Si rilassò cullato dalle braccia tornite
dell’Alpha, rasserenato da
quei muscoli che a tratti guizzavano per l’emozione,
perché Derek a quelle cose
era disabituato… Presto il respiro tornò
regolare, il tremore si piegò alla
sensazione di completezza. «P-perché n-on posso
dire niente? Io devo dirlo. Devo dirtelo, Derek…»
insistette il ragazzo, tirando su con il naso.
E
l’abbraccio svanì
all’improvviso. Il tepore che aveva acquietato il corpo di
Stiles mutò in un
vuoto freddo, e la realtà faceva di nuovo terribilmente
schifo.
«Sai
qual è il problema, Stiles?»
un ringhio basso, Derek era di nuovo in piedi. «Sono
l’Alpha, dovrei restare in
allerta per questo branco di cui non conosciamo le intenzioni, invece
ho
lasciato mio zio da solo, con il rischio che loro tornino lì
a cercare chissà
cosa. Siamo in potenziale pericolo, tutti quanti, e invece di prendermi
le mie
responsabilità ho preferito…» Si
fermò. Le dita si serrarono a pugno, negli
occhi guizzò una folgore scarlatta.
«Hai
preferito… Cosa?» chiese il
più piccolo, asciugandosi le lacrime sul dorso del polso.
Voleva sapere.
Derek
affilò lo sguardo,
scrutandolo come se fosse un dannatissimo errore. Perché era
così difficile
farsi odiare da Stiles? «Ho preferito sprecare il mio tempo
con un ragazzino! Quanti anni hai?
Sedici?
Diciassette? Io sono l’ultima persona che dovrebbe trovarsi
qui con te!» ruggì.
Cadde
ancora una volta il
silenzio, il vento si intrufolò fra le fessure della
tapparella e fischiò
sinistro. Stiles scattò su dal letto. No, quella tattica non
funzionava, ormai;
Derek gli aveva dimostrato più verità di quanto
volesse ammettere. Abbassò le
palpebre, rompendo la distanza fra lui e l’Alpha con dei
passi ciechi. «Derek…»
mormorò, la voce incerta. Posò il palmo dove il
cuore del più grande batteva
con ferocia. «Cos’hai qui dentro?»
Derek
si ritrasse, denudò le
zanne. «Niente.»
gridò «Non c’è niente.
È questo il problema!», poi
vide Stiles paralizzarsi completamente, e ricacciò subito la
bestia da dove era
venuta. Dal fondo della sua anima nera. Si lasciò sfuggire
un sospiro carico di
insoddisfazione, stanchezza, totale e vulnerabile umanità.
«Lo
so che stai mentendo…» lo
accusò il più piccolo, e Derek giurava di poter
acciuffare tutto tranne che il
risentimento in quel tono di voce «E non lo so
perché sono capace di ricorrere
ai tuoi trucchetti. Lo so e basta, adesso.»
Stiles
cercava di incagliare i
suoi occhi lucidi dritti in quelli dell’Alpha, ma Derek
distoglieva lo sguardo
per non doverlo affrontare… «Da quando in qua
scappi davanti a qualcosa?»
incalzò Stiles. Prese fiato, si morse a sangue le labbra.
Doveva mantenere la
calma. Basta attacchi di panico, doveva essere forte non debole. Forte,
forte,
forte. «Guardami, Derek.» Disse, risoluto,
azzardandosi a prendergli il mento. La
barba di due giorni solleticava la punta delle sue dita, desiderava
baciarlo
proprio lì e poi scendere al collo, scendere ovunque,
scoprire pelle e muscoli
e sudore e conche del corpo per tutta la notte…
«Lo ammetto, devo essere chissà
che razza di disturbato, se fra tutte le persone sulla faccia della
Terra mi
sono inn…»
Quella
che voleva essere una
battuta fu troncata da un altro ringhio lupesco. Gli occhi
dell’Alpha arsero
ancora una volta d’un rosso sanguigno e le zanne snudate
fremevano di rabbia. Rabbia
verso se stesso e nei confronti di Stiles che non faceva altro che
metterlo
alle strette. «Non dirlo. Non osare dirlo. Non sai di cosa
parli, Stiles.» soffiò.
“Sto cercando di proteggerti”, avrebbe voluto
aggiungere, ma probabilmente era
troppo codardo per farlo.
«Merda!»
esclamò l’altro, facendo
uno strano gesto inconsulto con le mani. Sembrava volesse volgerle al
cielo…
forse perché sapeva che quello che stava per fare richiedeva
una qualche
benedizione dall’alto? «Non so di cosa parlo,
allora?» Si erse sulle punte e in
uno scatto imprevedibile tirò a se il collo possente
dell’Alpha. Le dita
scapparono fra i capelli ancora umidi per la pioggia, mentre Stiles
dava a
Derek il primo vero bacio della sua vita. Quello cedette, poi
serrò la bocca
ponendo un freno al cozzare selvaggio delle loro labbra.
«Dannato…»
farfugliò, cercando il
termine più intimidatorio che potesse trovare,
«…dannatissimo…» e le sue
facoltà cerebrali vennero meno sotto gli occhi di Stiles.
Quegli occhi che
erano la quintessenza della dolcezza, che portavano dentro la brezza
della
primavera, il sole dell’estate, quegli occhi signori del
pianto e della gioia…
Lo stavano mettendo decisamente in ginocchio.
Lo
baciò, Derek. Lo marchiò come
suo su quelle labbra disegnate, affondò le dita nella sua
schiena spogliandolo
della stoffa leggera della maglietta.
Gli sussurrò
“Ti farò del male” e
si sentì rispondere “Non ci
credo”…
Salve,
qui è Phoenixstein che vi
parla! Se siete arrivati fin qui vi ringrazio e vi mando un bacino.
Una
delle fatiche di Ercole
sarebbe stata per me senza dubbio meno impegnativa che scrivere questa
fanfiction…
Perché? Bè, è la mia prima Sterek e,
come ho detto su altri schermi, questo mi
causa ansia da prestazione.
Vorrei
soltanto assicurarmi a
questo punto di non aver navigato troppo nel mare del non-sense.
Sarò
davvero grata a chiunque mi
lascerà un commento, una critica, accetto anche un
“I tuoi personaggi sono
incoerenti, non hanno spessore” o altro a vostra scelta LOL
Ah,
dimenticavo… :3 Questa è la
canzone che mi ha ispirato A LOT OF STEREK FEELINGS. Spero lo faccia
anche con
voi.
Se vorrete passare dalla mia pagina,
ne sarò molto contenta! ^.^