fda
-
Frammenti di un discorso
amoroso.
- C'è
qualcosa che ricorda gli amori finiti nel suono delle campane
scolorito nel vento.
- Mr
Howard lo pensa da sempre, o forse da quand'è morta sua moglie,
questo non lo sa, non si spreca nemmeno in troppe riflessioni, è
così, lo sente e basta.
- Arranca
scendendo dall'enorme autobus rosso che dalla stazione di Putney lo
ha portato a Kew. Non sembra neanche Londra. Almeno, non quella
della sua giovinezza.
- Cammina
incerto, un po' si pente di non aver ascoltato il figlio, forse
davvero non ha più l'età per viaggiare dalla Cornovaglia a Londra.
Ma vuole vedere i suoi nipoti, stringerli forte, preparare una tazza
di tea per il figlio e dirgli che tutto andrà bene, che se lui è
sopravvissuto alla seconda guerra mondiale, ai bombardamenti e alla
Lady di Ferro, allora anche lui può sopravvivere all'abbandono della
moglie – e che cliché, signori, scappare via con il capo del
marito, almeno ai suoi tempi tutti avevano un po' più di fantasia.
- È
davanti ad una caffetteria quando un ragazzo gli viene addosso: è
sceso in fretta dal taxi, non ha guardato nessuno e si è lanciato
sul marciapiede.
- Comincia
a chiedere scusa in modo accorato, si preoccupa e stringe forte il
braccio di Mr Howard che da vero gentiluomo non se la prende, ma va
oltre, per la sua strada e lascia indietro il ragazzo e le campane
che pian piano si quietano.
- Il
ragazzo ha una busta strappata in mano. Sa esattamente cosa c'è
all'interno: una lettera – due righe scritte veloci e con
inchiostro blu – e un sassolino. Sa anche di essere puntuale, ma
non osa entrare nella caffetteria. Sbircia oltre la vetrina piena di
dolci, ma non ci capisce niente. Riapre la busta, forse ha sbagliato
posto e sta perdendo tempo, o forse l'appuntamento non è fissato per
il 19 febbraio, ma per il 20, o magari per il 18, chi lo sa?, quindi
meglio controllare.
- Controlla.
- Legge:
- Belfast
fa schifo (ma l'Inghilterra è peggio). *
P.S. Pasticcini il 19/02
alle 11 am vicino ai Kew Gardens?
- Non
una firma. All'interno della busta solo un sassolino. A lei i sassi
piacciono. Colleziona nelle tasche sassi provenienti da tutti i posti
in cui è stata. Quei sassi sono stati lì da sempre, hanno visto di
tutto – sono miti che diventano storia.
- Fa
per accendersi una sigaretta. Cambia idea ed entra.
- L'odore
dolciastro e le chiacchiere delicate gli fanno pensare a quando loro
due cercavano un tavolino libero a mezzoggiorno per fare colazione
perché si erano amati fino a tarda notte, soffocati dalle braccia
dell'altro e le gambe incastrate in un letto troppo piccolo.
- La
riconosce subito per il vestito rosso e il cappellino blu. È vicina
ad una delle finestre laterali, si può scorgere il Tamigi. Si
avvicina e la chiama per nome. Lei si volta, nessun effetto a
rallentatore, accade tutto così velocemente che lui sente lo stomaco
sottosopra e non sa più cosa dire.
- Si
guardano per una cosa tipo undici anni.
- L'odore
di tabacco sulla giacca di pelle di lui e gli occhi scuri di lei.
- "Sei
andato a votare?" Gli domanda.
- Lui
scuote la testa.
- "Ah,
male. Questo offende la Magna Carta tanto quanto i politici offendono
te."
- Sorride
e siede davanti a lei. Vorrebbe fare una battuta. Rimane in silenzio.
Gli scappa da dire: "Sei tornata."
- "Già."
- "E
dove sei stata?"
- Lei
abbassa per un secondo lo sguardo, non si capisce se sia infastidita.
Odia dare spiegazioni. Poi lo rialza su di lui come se niente fosse,
come se niente di fatto ci fosse tra loro due, che sono sempre stati
così, separati da un tavolino, dai chilometri, dalle bugie, dal
passato, dalle ambizioni di lei e dai fallimenti di lui, coi fiati
sospesi e l'odore dell'altro che non si scorda e la pelle che brucia
ancora.
- "Tutte
queste domande", mormora all'improvviso e sorride di un sorriso
spezzato. A lui ricorda la volta in cui si presentò a casa sua alle
quattro del mattino, che piangeva folle, perché lei no, non voleva
fermarsi, voleva andare avanti, andare oltre, spezzare orizzonti e
bruciare l'universo con pietre fuocaie per creare qualcosa di nuovo –
ma come poteva farlo se sentiva che stava piantando radici su quel
terreno che era lui?
- "Sai
cosa amo di Shakespeare?" Continua lei e torna serena, la
frangia a coprire un po' gli occhi come nubi di fine maggio con il
sole. "Le domande. Shakespeare ha una domanda per tutto. Mi sto
comportando rettamente? È lo scrigno di bronzo quello da aprire?
Devo cacciare mia figlia? Devo uccidere Cesare per il bene di Roma?
Essere o non essere? Le sue opere sono piene di domande, in ogni
discorso ce ne sono almeno una decina, è così dannatamente umano...
E sai cosa? C'è anche una domanda che lo riguarda: ma chi era
William Shakespeare? Ecco cosa amo."
- Vorrebbe
chiederle se ama pure lui. Ma sa che non gli risponderà perché è
crudele senza neanche farlo apposta.
- Arriva
un cameriere e loro ordinano: tea bianco e biscotti al pistacchio per
lei, caffé nero e un pezzo di cheesecake per lui.
- Rimangono
in silenzio a guardarsi le mani vicine, come se non avessero niente
da dirsi, come se non avessero un domani. Lui sente i brividi
trasformarsi in lividi.
- "Hai
ricevuto i miei disegni?" Chiede lei.
- "Sì,
li ho mangiati."
- "Li
hai mangiati?" E' stupita.
- Lui
spiega: "E' che mi piacevano tanto". Li studiava, li amava
e li mangiava. Non poteva farne a meno.
- Le
sfugge un risolino incredulo e compiaciuto.
- "Ma
non capivo da dove venissero", ammette lui.
- "Ah,
queste domande indirette!" Alza gli occhi al soffitto e allunga
i piedi sotto al tavolo. È meno tesa, più rilassata, più lei come
lui l'ha conosciuta, che si arrampicava sugli scaffali del negozio di
libri in cui lui lavora nell'East End, incurante di ogni pericolo
perché le interessava avere quel libro. Alla fine si era rotta un
braccio e lui aveva dovuto portarla all'ospedale. Era tornata il
giorno successivo per comprare le pagine che le erano costate le
ossa. E' Sylvia Plath, gli aveva detto, quest'effetto lo fa comunque
vada. E il giorno dopo per fargli leggere alcuni versi sottolineati.
Quello dopo ancora per portargli i biscotti al pistacchio visto che,
sai, non ti ho ancora ringraziato. E di nuovo il giorno successivo,
le chiacchiere su Dostoevskij che si erano protratte anche nella
pausa pranzo, perché è lui, te lo dico io, che ci spiega il perché
di Abele e Caino, nessuna malvagità, niente contro natura, anzi, tu
lo sai che le aquile depongono ogni anno due uova e il primo pulcino
che nasce uccide il fratello, anche se il cibo abbonda? Venne ogni
giorno perché gli parlava a parole e lui la guardava a sentimenti.
Ogni mattina puntuale si presentava alla porta che scampanellava
felice, voleva raccontargli storie come Scheherezade per non morire,
aveva cercato di fargli capire che è così che funziona, è il più
antico desiderio dell'umanità, è un modo di ingannare la morte. E
poi venne a fare l'amore, per scrivergli sulla carne la poesia di cui
si nutriva.
- "Su
al Nord", comincia lei, "c'è qualcosa di archetipico. Lo
capisci fin dalla luce. È metallica. Assorbe ogni sensazione,
emozione... E l'odore del mare. È come annegare nell'aria che si
respira. E' lì che sono stata. Gli abitanti sono bassi, hanno il
cervello vicino al cuore. Quando si salutano ti dicono cosa
sogneranno prima d'andare a dormire. Ritengono che l'universo sia
stato creato da una conchiglia e passano ore intere con l'orecchio
attaccato ad ascoltarne i sussurri per capirci qualcosa. Hanno
compreso la successione di Fibonacci più di quanto abbiano fatto in
secoli i matematici – è un paradosso d'energia, ecco cos'è, è da
ricercarsi in Creazione, Esistenza e Distruzione, che alla fin fine
sono la stessa identica cosa, te lo dico. Guardano le stelle. Tanto.
Ho passato un mese con questo vecchio che conosceva il cielo visibile
più della terra su cui camminava. Mi ha raccontato di Plutone."
Le sfugge un sorriso come di un ricordo lontano. Abbassa gli occhi.
Riprende. Gli racconta di ossa trovate sulla spiaggia usate dai
bambini per costruirci giochi, del vuoto e dell'invisibile che sono
concreti tanto quanto i corpi solidi, insomma, pensaci, ai granelli
di polvere che nuotano in un raggio di sole, alle ragnatele che ci
avvolgono mentre camminiamo senza che possiamo accorgercene, a Emily
Dickinson che scrisse alcune delle poesie d'amore più belle di
sempre senza aver mai amato, dai, pensaci, solo perché noi non
possiamo vedere non significa che non esiste. Gli dice delle notti
bianche senza fine e degli orizzonti bassi, raggiungibili, reali.
- "...
e ora devo andare", conclude, la schiena che fa un po' male.
- E
lui non protesta, non sa cosa fare, perché questo non è uno dei
racconti di lei, questa è la vita reale e lui non può fermarla, si
lascia travolgere, la guarda alzarsi, sorridergli, dirgli che è
stato un piacere rivederlo, allora ciao eh, stammi bene, ci si rivede
sicuro quando torno.
Vorrebbe alzarsi, sente di poterlo fare, ma
poi davvero, davvero lo farebbe? Urlarle addosso che non può fare
così, nutrirlo di sogni e speranze e poi...
- E
poi lei paga, lo saluta di nuovo ed esce.
- Si
alza anche lui, prende il portafogli e paga lasciando il resto di
mancia.
- Fuori
suonano le campane.
- Fine.
- *
è una battuta molto comune tra gli irlandesi del nord, giusto per
ribadire quanto siano contenti di far parte del regno unito.
- Ordunque.
- Sarà
una cosa veloce, lo prometto. Sono secoli che non posto più su EFP,
per cui ho perso la mano per i nota bene (notatelo bene! Ah,
battutona proprio...). No, comunque. Dicevamo.
- Il
titolo viene da – ovviamente – una delle più celebri opere di
Roland Barthes. Non che c'entri qualcosa eh, però non so, mentre
scrivevo mi martellava in testa, perciò mi sono detta oibò (no, non
mi sono detta oibò, è solo che suona bene), forse forse non finirò
fulminata per questo pseudo omaggio molto orrifico. Almeno spero.
- Per
quanto riguarda la storiella... non so da dove sia venuta fuori. L'ho
scritta un po' di tempo fa. Ero in modalità malinconico andante,
esatto. Volevo proprio che non ci fosse un lieto fine per questi due,
specialmente per lui, perché lo stesso valeva per me.
- Mi
è venuta voglia di postarla adesso perché a distanza di qualche
tempo le cose sono cambiate, e di molto. E mi rendo conto di come
quel “fine“ - che io non
riuscivo a vedere altrimenti, era sul serio una fine, era la fine di
una specie di rapporto che non potevo neanche considerare relazione,
la fine di momenti rubati che sembravano sogni, la fine di mille
dubbi – fosse in verità solo un inizio per qualcosa di molto più
bello.
- So
che per tutti voi questa nota non ha alcun senso. Però ci tenevo a
scriverla, è un regalo che mi voglio fare. Solo per ricordarmi che
non c'è mai veramente una fine. Nemmeno per quel povero lui di cui
ho scritto.
- Mi
piace pensarla così.
- Ah,
delle dedichine, se permettete.
- Al
lui che c'è stato, perché è stato bello sul serio, nonostante
tutto, e mi ha fatto capire quant'è poetica e struggente la
melanconia che si prova ad aspettare e continuare a sperare. Mi ha
fatto crescere un sacco.
- A
Eleonora, che è la soulmate più
bella che ci sia e fa un sugo al tonno che voi non potete immaginare.
Londra non è la stessa senza di lei (ma tipo una frase simile non la
diceva anche Harry su Silente ed Hogwarts? No?). Vabbe'. Scusa se ti
ho detto che andavo a dormire, il piano era quello, ma poi ha preso a
piovere in camera e mi è passato il sonno. Non so se tu sia ancora
in cucina o sia salita. Dai, la smetto. Evito, siamo su internet.
A
R., e non saprei neanche da dove iniziare.
-
- Vabbe',
con questo vi lascio – per ora. Ma tornerò prestooo!
(Seh).
V'amo,
Dee.
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