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Autore: emily colburn    23/11/2012    4 recensioni
C'è qualcosa che ricorda gli amori finiti nel suono delle campane scolorito nel vento.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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fda
Frammenti di un discorso amoroso.



C'è qualcosa che ricorda gli amori finiti nel suono delle campane scolorito nel vento.
Mr Howard lo pensa da sempre, o forse da quand'è morta sua moglie, questo non lo sa, non si spreca nemmeno in troppe riflessioni, è così, lo sente e basta.
Arranca scendendo dall'enorme autobus rosso che dalla stazione di Putney lo ha portato a Kew. Non sembra neanche Londra. Almeno, non quella della sua giovinezza.
Cammina incerto, un po' si pente di non aver ascoltato il figlio, forse davvero non ha più l'età per viaggiare dalla Cornovaglia a Londra. Ma vuole vedere i suoi nipoti, stringerli forte, preparare una tazza di tea per il figlio e dirgli che tutto andrà bene, che se lui è sopravvissuto alla seconda guerra mondiale, ai bombardamenti e alla Lady di Ferro, allora anche lui può sopravvivere all'abbandono della moglie – e che cliché, signori, scappare via con il capo del marito, almeno ai suoi tempi tutti avevano un po' più di fantasia.
È davanti ad una caffetteria quando un ragazzo gli viene addosso: è sceso in fretta dal taxi, non ha guardato nessuno e si è lanciato sul marciapiede.
Comincia a chiedere scusa in modo accorato, si preoccupa e stringe forte il braccio di Mr Howard che da vero gentiluomo non se la prende, ma va oltre, per la sua strada e lascia indietro il ragazzo e le campane che pian piano si quietano.
Il ragazzo ha una busta strappata in mano. Sa esattamente cosa c'è all'interno: una lettera – due righe scritte veloci e con inchiostro blu – e un sassolino. Sa anche di essere puntuale, ma non osa entrare nella caffetteria. Sbircia oltre la vetrina piena di dolci, ma non ci capisce niente. Riapre la busta, forse ha sbagliato posto e sta perdendo tempo, o forse l'appuntamento non è fissato per il 19 febbraio, ma per il 20, o magari per il 18, chi lo sa?, quindi meglio controllare.
Controlla.
Legge:
Belfast fa schifo (ma l'Inghilterra è peggio). *
P.S. Pasticcini il 19/02 alle 11 am vicino ai Kew Gardens?
Non una firma. All'interno della busta solo un sassolino. A lei i sassi piacciono. Colleziona nelle tasche sassi provenienti da tutti i posti in cui è stata. Quei sassi sono stati lì da sempre, hanno visto di tutto – sono miti che diventano storia.
Fa per accendersi una sigaretta. Cambia idea ed entra.
L'odore dolciastro e le chiacchiere delicate gli fanno pensare a quando loro due cercavano un tavolino libero a mezzoggiorno per fare colazione perché si erano amati fino a tarda notte, soffocati dalle braccia dell'altro e le gambe incastrate in un letto troppo piccolo.
La riconosce subito per il vestito rosso e il cappellino blu. È vicina ad una delle finestre laterali, si può scorgere il Tamigi. Si avvicina e la chiama per nome. Lei si volta, nessun effetto a rallentatore, accade tutto così velocemente che lui sente lo stomaco sottosopra e non sa più cosa dire.
Si guardano per una cosa tipo undici anni.
L'odore di tabacco sulla giacca di pelle di lui e gli occhi scuri di lei.
"Sei andato a votare?" Gli domanda.
Lui scuote la testa.
"Ah, male. Questo offende la Magna Carta tanto quanto i politici offendono te."
Sorride e siede davanti a lei. Vorrebbe fare una battuta. Rimane in silenzio. Gli scappa da dire: "Sei tornata."
"Già."
"E dove sei stata?"
Lei abbassa per un secondo lo sguardo, non si capisce se sia infastidita. Odia dare spiegazioni. Poi lo rialza su di lui come se niente fosse, come se niente di fatto ci fosse tra loro due, che sono sempre stati così, separati da un tavolino, dai chilometri, dalle bugie, dal passato, dalle ambizioni di lei e dai fallimenti di lui, coi fiati sospesi e l'odore dell'altro che non si scorda e la pelle che brucia ancora.
"Tutte queste domande", mormora all'improvviso e sorride di un sorriso spezzato. A lui ricorda la volta in cui si presentò a casa sua alle quattro del mattino, che piangeva folle, perché lei no, non voleva fermarsi, voleva andare avanti, andare oltre, spezzare orizzonti e bruciare l'universo con pietre fuocaie per creare qualcosa di nuovo – ma come poteva farlo se sentiva che stava piantando radici su quel terreno che era lui?
"Sai cosa amo di Shakespeare?" Continua lei e torna serena, la frangia a coprire un po' gli occhi come nubi di fine maggio con il sole. "Le domande. Shakespeare ha una domanda per tutto. Mi sto comportando rettamente? È lo scrigno di bronzo quello da aprire? Devo cacciare mia figlia? Devo uccidere Cesare per il bene di Roma? Essere o non essere? Le sue opere sono piene di domande, in ogni discorso ce ne sono almeno una decina, è così dannatamente umano... E sai cosa? C'è anche una domanda che lo riguarda: ma chi era William Shakespeare? Ecco cosa amo."
Vorrebbe chiederle se ama pure lui. Ma sa che non gli risponderà perché è crudele senza neanche farlo apposta.
Arriva un cameriere e loro ordinano: tea bianco e biscotti al pistacchio per lei, caffé nero e un pezzo di cheesecake per lui.
Rimangono in silenzio a guardarsi le mani vicine, come se non avessero niente da dirsi, come se non avessero un domani. Lui sente i brividi trasformarsi in lividi.
"Hai ricevuto i miei disegni?" Chiede lei.
"Sì, li ho mangiati."
"Li hai mangiati?" E' stupita.
Lui spiega: "E' che mi piacevano tanto". Li studiava, li amava e li mangiava. Non poteva farne a meno.
Le sfugge un risolino incredulo e compiaciuto.
"Ma non capivo da dove venissero", ammette lui.
"Ah, queste domande indirette!" Alza gli occhi al soffitto e allunga i piedi sotto al tavolo. È meno tesa, più rilassata, più lei come lui l'ha conosciuta, che si arrampicava sugli scaffali del negozio di libri in cui lui lavora nell'East End, incurante di ogni pericolo perché le interessava avere quel libro. Alla fine si era rotta un braccio e lui aveva dovuto portarla all'ospedale. Era tornata il giorno successivo per comprare le pagine che le erano costate le ossa. E' Sylvia Plath, gli aveva detto, quest'effetto lo fa comunque vada. E il giorno dopo per fargli leggere alcuni versi sottolineati. Quello dopo ancora per portargli i biscotti al pistacchio visto che, sai, non ti ho ancora ringraziato. E di nuovo il giorno successivo, le chiacchiere su Dostoevskij che si erano protratte anche nella pausa pranzo, perché è lui, te lo dico io, che ci spiega il perché di Abele e Caino, nessuna malvagità, niente contro natura, anzi, tu lo sai che le aquile depongono ogni anno due uova e il primo pulcino che nasce uccide il fratello, anche se il cibo abbonda? Venne ogni giorno perché gli parlava a parole e lui la guardava a sentimenti. Ogni mattina puntuale si presentava alla porta che scampanellava felice, voleva raccontargli storie come Scheherezade per non morire, aveva cercato di fargli capire che è così che funziona, è il più antico desiderio dell'umanità, è un modo di ingannare la morte. E poi venne a fare l'amore, per scrivergli sulla carne la poesia di cui si nutriva.
"Su al Nord", comincia lei, "c'è qualcosa di archetipico. Lo capisci fin dalla luce. È metallica. Assorbe ogni sensazione, emozione... E l'odore del mare. È come annegare nell'aria che si respira. E' lì che sono stata. Gli abitanti sono bassi, hanno il cervello vicino al cuore. Quando si salutano ti dicono cosa sogneranno prima d'andare a dormire. Ritengono che l'universo sia stato creato da una conchiglia e passano ore intere con l'orecchio attaccato ad ascoltarne i sussurri per capirci qualcosa. Hanno compreso la successione di Fibonacci più di quanto abbiano fatto in secoli i matematici – è un paradosso d'energia, ecco cos'è, è da ricercarsi in Creazione, Esistenza e Distruzione, che alla fin fine sono la stessa identica cosa, te lo dico. Guardano le stelle. Tanto. Ho passato un mese con questo vecchio che conosceva il cielo visibile più della terra su cui camminava. Mi ha raccontato di Plutone." Le sfugge un sorriso come di un ricordo lontano. Abbassa gli occhi. Riprende. Gli racconta di ossa trovate sulla spiaggia usate dai bambini per costruirci giochi, del vuoto e dell'invisibile che sono concreti tanto quanto i corpi solidi, insomma, pensaci, ai granelli di polvere che nuotano in un raggio di sole, alle ragnatele che ci avvolgono mentre camminiamo senza che possiamo accorgercene, a Emily Dickinson che scrisse alcune delle poesie d'amore più belle di sempre senza aver mai amato, dai, pensaci, solo perché noi non possiamo vedere non significa che non esiste. Gli dice delle notti bianche senza fine e degli orizzonti bassi, raggiungibili, reali.
"... e ora devo andare", conclude, la schiena che fa un po' male.
E lui non protesta, non sa cosa fare, perché questo non è uno dei racconti di lei, questa è la vita reale e lui non può fermarla, si lascia travolgere, la guarda alzarsi, sorridergli, dirgli che è stato un piacere rivederlo, allora ciao eh, stammi bene, ci si rivede sicuro quando torno.
Vorrebbe alzarsi, sente di poterlo fare, ma poi davvero, davvero lo farebbe? Urlarle addosso che non può fare così, nutrirlo di sogni e speranze e poi...
E poi lei paga, lo saluta di nuovo ed esce.
Si alza anche lui, prende il portafogli e paga lasciando il resto di mancia.
Fuori suonano le campane.



Fine.










* è una battuta molto comune tra gli irlandesi del nord, giusto per ribadire quanto siano contenti di far parte del regno unito.



Ordunque.
Sarà una cosa veloce, lo prometto. Sono secoli che non posto più su EFP, per cui ho perso la mano per i nota bene (notatelo bene! Ah, battutona proprio...). No, comunque. Dicevamo.
Il titolo viene da – ovviamente – una delle più celebri opere di Roland Barthes. Non che c'entri qualcosa eh, però non so, mentre scrivevo mi martellava in testa, perciò mi sono detta oibò (no, non mi sono detta oibò, è solo che suona bene), forse forse non finirò fulminata per questo pseudo omaggio molto orrifico. Almeno spero.
Per quanto riguarda la storiella... non so da dove sia venuta fuori. L'ho scritta un po' di tempo fa. Ero in modalità malinconico andante, esatto. Volevo proprio che non ci fosse un lieto fine per questi due, specialmente per lui, perché lo stesso valeva per me.
Mi è venuta voglia di postarla adesso perché a distanza di qualche tempo le cose sono cambiate, e di molto. E mi rendo conto di come quel “fine“ - che io non riuscivo a vedere altrimenti, era sul serio una fine, era la fine di una specie di rapporto che non potevo neanche considerare relazione, la fine di momenti rubati che sembravano sogni, la fine di mille dubbi – fosse in verità solo un inizio per qualcosa di molto più bello.
So che per tutti voi questa nota non ha alcun senso. Però ci tenevo a scriverla, è un regalo che mi voglio fare. Solo per ricordarmi che non c'è mai veramente una fine. Nemmeno per quel povero lui di cui ho scritto.
Mi piace pensarla così.

Ah, delle dedichine, se permettete.

Al lui che c'è stato, perché è stato bello sul serio, nonostante tutto, e mi ha fatto capire quant'è poetica e struggente la melanconia che si prova ad aspettare e continuare a sperare. Mi ha fatto crescere un sacco.

A Eleonora, che è la soulmate più bella che ci sia e fa un sugo al tonno che voi non potete immaginare. Londra non è la stessa senza di lei (ma tipo una frase simile non la diceva anche Harry su Silente ed Hogwarts? No?). Vabbe'. Scusa se ti ho detto che andavo a dormire, il piano era quello, ma poi ha preso a piovere in camera e mi è passato il sonno. Non so se tu sia ancora in cucina o sia salita. Dai, la smetto. Evito, siamo su internet.

A R.
, e non saprei neanche da dove iniziare.


Vabbe', con questo vi lascio – per ora. Ma tornerò prestooo! (Seh).

V'amo,
Dee.
  
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