Dean’s Pub
Gabe
si alzava tutte le mattine alle cinque e trentasette, non usava sveglie
e
neppure galli. Si sollevava dal materasso tossendo tre volte, poi si
voltava
verso il corpo non più giovane della moglie, ma ugualmente
meraviglioso, e le
accarezzava la guancia accaldata con le dita. Il giorno in cui in
America venne
trasmessa per la prima volta la serie televisiva Happy Days, Gabe e
Ruth si
stavano sposando in una piccola chiesetta nella contea di Cherokee
nell’Oklahoma, iniziando a vivere anche loro giorni felici.
Ed
era così da trentotto anni che Gabe si svegliava oramai,
prima di lasciare il
letto sfiorava la guancia di Ruth ripetendosi che nessun uomo sulla
terra era più
fortunato di lui.
Nella
cittadina Tahlequah, Gabe gestiva il Dean’s pub da tutta una
vita, non aveva
fratelli e neppure sorelle, chi lo conosceva sapeva che la sua famiglia
era
solo Ruth, che vivevano in simbiosi e che lei rideva sempre, in un modo
tutto suo,
pericolosamente contagiosa. Non avevano figli, non per loro
volontà purtroppo,
così avevano deciso di adottare tutti coloro che avrebbero
messo piede nel loro
bar.
«Jack
l’ultima volta che ho ordinato da te i liquori, mi sono state
consegnate
tredici casse di Coca Cola. Ora io non ho capito bene se quello che
è accaduto,
è stato un banalissimo scambio di consegne, e in questo caso
vorrei sapere a
chi diamine hai portato i miei Gin, oppure ti sei talmente
rincoglionito da non
sapere più la differenza tra liquori e medicine».
Ruth
osservava suo marito con un ghigno disegnato sulle labbra, con le mani
asciugava i bicchieri di vetro prima di riporli sullo scaffale
più basso. I
suoi occhi seguivano la figura robusta di Gabe mentre parlava al
telefono con
il suo rifornitore.
Quando
Hailee arrivò in città, una mattina di fine
Aprile, il Dean’s era aperto già da
diverse ore. La fermata del pullman si trovava a due isolati di
distanza. Il
sindaco Jason Nichols, un uomo per certi versi troppo futurista in una
città
tradizionalista, aveva reso pubblici i mezzi di trasporto, in modo da
creare
collegamenti diretti con le contee vicine. Il suo progetto era quello
di
rendere Tahlequah quanto più simile alle grandi
città della nazione. Nulla da
dire a questo grandioso progetto, solo che da quanto i servizi erano
diventati
pubblici, e la fermata principale non era più la stazione
ferroviaria ma quella
dei pullman, Gabe si era visto trasformare il suo pub in un centro di
ricovero
per viaggiatori esausti. Non si sarebbe mai aspettato di aver avuto un
giorno
tutti quei figli.
Hailee
camminava tenendo la testa bassa e gli occhi fissi sulle sue converse
rosse.
Indossava un pantaloncino di jeans che lasciava nude le sue gambe
abbronzate,
una maglietta più grande di lei di almeno due taglie le
copriva i fianchi
sottili. Era stanca, il viaggio in pullman l’aveva affaticata
più di quanto si
era immaginata. Si promise che la prossima volta avrebbe preso il
treno, i
vagoni erano sicuramente più comodi di un sedile. Hailee era
una di quelle
ragazze che quando passavano ti costringevano a voltarti. Non era per
la sua
bellezza che la gente l’osservava- anche se nessuno le
avrebbe mai potuto dire
di non essere, oggettivamente parlando, uno splendore- la gente la
guardava e
chissà cosa ci vedeva in quegli occhi scuri come la notte.
Durante il suo
vagabondare la ragazza più volte era stata costretta a
cambiare marciapiede e a
volte anche strada, per le occhiate insistenti dei passanti. Una volta
le
dissero che i suoi occhi erano pericolosi, che chi si specchiava dentro
di essi
veniva risucchiato, erano come un buco nero, persino i raggi del sole
li
temevano. Valli a capire i buchi neri, ti
risucchiano e poi? Dov’è che si va a finire?
Le
strade erano quasi deserte, chi come lei era sceso dal pullman, era
sparito nel
giro di pochi minuti con destinazioni sicuramente più certe
delle sue. Non
conosceva la città, non sapeva neppure che potesse esistere
un posto così
particolare situato ai piedi delle montagne. Le Ozarks, le dita
dell’Oklahoma
sfioravano il cielo, proteggevano Tahlequah,
da esse sfociavano fiumi che percorrevano i lati della
città. Vi erano
dei parchi naturali percorribili a piedi, seguendo i percorsi
artificiali
creati dall’uomo per ammirare quello splendore, ma nessuno
chissà per quale
assurdo motivo, li percorreva mai. Hailee non conosceva
l’esistenza di quella
cittadina, il suo nome non era presente neppure sulle mappe, solo
quelle dello
stato o della contea la segnalavano, ma quando il pullman
arrancò dall’Highway
percorrendo una strada secondaria, che raggiungeva la città
biforcandola alla
stazione, Hailee si era sentita improvvisamente chiamata a scendere.
Forse
erano state le montagne, forse i sedili troppo scomodi, o chi lo sa,
magari il
destino semplicemente le aveva mandato un segnale,dopo tutto la caccia
al
tesoro era il suo gioco preferito.
E
poi lei non era affatto d’accordo con Groucho Marx, la
fortuna qualcosa la
faceva sempre, non stava ferma a guardare, tutt’altro,
altrimenti come ci
andava la gente incontro al proprio destino?
Agli
occhi di Hailee, era stata difatti la fortuna a portarla lì,
non un vecchio
brontolone che aveva girato in lungo e in largo tutta la route 66,
ancora prima
che diventasse storia, trasportando turisti e lavoratori dentro un
vecchio
pullman color cobalto.
Stanca
si sedette sul bordo del marciapiede, in attesa di un segnale,
“e adesso?” si
domandò, guardandosi intorno. Non che ci fosse poi molto da
fare, quando si
aspettava lo si faceva in maniera quasi invisibile, non si voleva
essere
disturbati. E che una volta era tutto più semplice, anche
l’attesa aveva un
sapore diverso e con le labbra si cercavano solo altre labbra, mica
parole,
solo risposte fatte di baci. Hailee in fin dei conti pensava che tutto
quel
gran trambusto l’avrebbe potuto placare solo un sorriso, o
forse un bacio, e
poi chissà cosa sarebbe accaduto sotto i piedi
dell’Ozarks. Era davvero bello
fare all’amore quando si era in attesa.
In
lontananza vide l’insegna di un locale, forse lì
qualcuno le avrebbe saputo
dire che direzione avrebbe dovuto prendere per raggiungere la sua meta,
o anche
solo, dirle semplicemente quale fosse la sua destinazione,
così da evitarle
tutte quelle ore di viaggio, le ossa iniziavano a pruderle e la sua
pelle
richiamava altra pelle. Era però pazienza Hailee, e
testarda, questo chiunque
l’avrebbe detto se solo tutti gli abitanti del mondo
l’avessero incontrata,
almeno una volta nella vita.
Gabe
e Ruth si voltarono contemporaneamente quando la porta del
Dean’s venne aperta.
Gabe aveva da poco terminato la sua movimentata telefonata, Ruth i
bicchieri li
aveva asciugati quasi tutti, e avrebbe pure completato il suo lavoro se
solo
due grandi occhi neri non avessero catturato la sua attenzione.
Hailee
si chiuse la porta dietro le spalle, lasciò cadere lo zaino
per terra e
guardandosi intorno cercò colui che avrebbe saputo
rispondere alle sue domande.
I
lunghi capelli neri scivolavano disordinatamente lungo il collo,
qualche ciuffo
le era scivolato davanti agli occhi e infastidita l’avevo
richiamato
all’ordine, nascondendolo insieme agli altri capelli dietro
l’orecchio.
Hailee
camminava con passo sicuro, le sue gambe attirarono
l’attenzione di qualche
cliente giunto fino a lì per godersi una sacrosanta
colazione senza la voce
stridula della moglie in testa.
Ruth
pensò che una figlia così l’avrebbe
voluta, e che sarebbe stata perfetta una
sua fotografia sul comodino nella camera da letto o sul tavolino nel
soggiorno.
Si sarebbe vantata di una figlia così bella, per lei avrebbe
cucito gli abiti
migliori e convinto
suo marito a
lasciarla sposare, anche se geloso del futuro genero.
E
Gabe lo capì. Tutto quello che pensò in
quell’istante la sua Ruth, lui lo capì,
e con un nodo in gola si voltò a guardarla,
perché era bella quando con gli
occhi spalancati sognava, più bella di quanto rideva,
più bella persino di
quanto lo era il giorno del loro matrimonio.
«Buongiorno»,
Hailee sorrise avvicinandosi al bancone, proprio di fronte a Ruth,
«avrei
bisogno di un’informazione».
L’anziana
donna lanciò un’occhiata al marito reclamando la
sua presenza, non riuscendo da
sola a sostenere gli occhi di quella straniera.
«Chieda
pure, signorina» fu Gabe a risponderle.
«Forse
ho sbagliato posto, non so, mi sento un po’
confusa».
«Ti
sente poco bene tesoro, vuoi un bicchiere d’acqua?».
E no Ruth, amore, non
parlarle così. Il mio vecchio cuore non può mica
sopportare di vederti così
triste. La prossima volta ti prometto amore che controllerò
prima che tu alzi
gli occhi, chi entra qui dentro, te lo giuro, non permetterò
a nessuno di farti
del male, però tu Ruth, adesso mi devi promettere che
distogli lo sguardo, e
sposti le mani che hai posato sul ventre, me lo devi promettere. Alza
le mani,
amore, portale sul petto, vicino al cuore, qualcosa lì
invece batte, non è
così? Ruth c’è il nostro amore dentro,
basterà, ti prometto che basterà.
Hailee
scosse la testa, si sedette sullo sgabello senza fare rumore, e continuò a
pensare alle parole da usare.
Le
venne offerto un bicchiere d’acqua, che lei comunque non
rifiutò, mandandolo
giù in un solo sorso.
«Grazie,
davvero un posto carino questo locale, è nuovo?»
«E’
stato inaugurato il giorno dell’assassinio del presidente
McKinley dal mio
bisnonno, direi che tanto nuovo non è»,
ridacchiò Gabe.
Sorrise
la giovane donna, felice che qualcuno fosse riuscito ad andare oltre
una
semplice risposta, e capì, si, si rese conto che, entrare in
quel pub era stata
la scelta giusta.
Ruth
la guardò negli occhi-un attimo, solo quello
bastò per capire- e non servirono
altre parole. Non c’era bisogno di nessun cromosoma in comune
per capire che
poteva ancora essere felice.
«Ti
riportano a casa», sussurrò percorsa da un
fremito, «i buchi neri ti riportano
a casa».
Tu
non l’immagineresti mai una cosa così.
Tu che la Route 66 quel giorno sorrise,da
Chicago a Santa Monica, non lo crederesti mai.
Ohi bhò-non so cosa sia ma mi piace troppo- sono tornata,
l'avevate notato vero?
Che ci faccio qui? Ma che bella domanda, proprio intelligente e acuta.
Dovrei studiare, si lo so cosa state pensando- e che ci volete fare,
avrei due esami da preparare e una voglia pari a quella di un bradipo
nel rincorrere un pallone. Così ho pensato-cosa
pericolosissima-di vedere un pò che cosa potevo ripulire
tra le cartelle del computer(pulizie di primavera anticipate, evvai!) e
mi sono ritrovata davanti questa cosa scritta un pò di tempo
fa. Non se se vi ricordate-sarebbe un miracolo se lo facesse, non il
contrario- che una volta vi dissi di avere scritto dei racconti tutti
riguardanti la Route 66, e che un
giorno chissà quando, come, dove e perché, ve ne
avrei fatta leggere qualcun'altra. Ebbene gente, il giorno tanto temuto
è arrivato-state tremando vero?- questa è la mia
seconda storia(storiella senza una vera fine) tutta per voi.
Che ci volete fare se sono matta proprio da legare?
Sophie-che ultimamente è andata in fissa con il Giappone e
sta cercando d'imparare qualche parola, con scarsi risultati.
Konnichi wa, per l'appunto.
|