Vento dell'Ovest - Capitolo 2
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Capitolo Secondo -
Vento
di Scoperte
Come
ogni mattina, dopo essersi vestita e aver preparato la colazione per
sé e per gli altri abitanti della casa, Beatrice si mise
davanti
al minuscolo specchio della sua stanzetta, per concedersi cinque minuti
solo per lei, dedicandosi ad un piccolo ma irrinunciabile rituale, che
le ricordava uno
dei rari momenti di
felicità
che aveva condiviso con sua madre Elena
finché era stata viva: spazzolarsi con cura i lunghi,
fulvi e ondulati capelli.
Negli ultimi tempi, però, aveva avuto sempre meno tempo a
disposizione per farlo, poiché, ogni giorno che passava, la
zia Assunta e la cugina Anna
Laura le assegnavano sempre più faccende
da sbrigare, con la scusa che lei e suo fratello erano ospiti a casa
loro e per questo andavano ripagate per la loro incredibile
generosità.
Per quanto potesse essere considerato generoso aver
relegato la ragazza
in una stanzetta che, fino a qualche mese prima, era stata una
stireria: piccola e angusta, fornita solo di un lettuccio, un
armadio fatiscente ed un tavolino tarlato posto
sotto ad una finestrella che dava ad ovest, garantendo un po’ di
luce solo nelle prime ore del pomeriggio.
L’unico
lusso concesso alla ragazza era stato il permesso di tenere con
sé
un paravento in seta persiana appartenuto alla bisnonna, ora chiuso e
addossato alla parete, e la
macchina per
cucire di sua madre, uno degli ultimi acquisti fatti prima che la
famiglia finisse in bancarotta e
fosse costretta a
chiedere asilo a parenti poco disposti ad offrirglielo.
Infatti, nonostante conoscesse bene l’indole meschina di sua
sorella Assunta, Lapo Tolomei aveva messo da parte l’orgoglio
e
l’aveva supplicata di accogliere in casa i suoi figli,
almeno finché non fosse riuscito a vendere tutte le
proprietà e ricavare il denaro necessario a
saldare i
debiti di gioco di Guido. La donna, vedova da lunga data, aveva
acconsentito malvolentieri, non tollerando né la condotta
dissoluta del nipote, né che Beatrice eclissasse la cugina
con
la
sua bellezza fresca e genuina.
Per diverso tempo, la ragazza aveva sperato che il babbo tornasse e li
riportasse a Firenze, nella loro bella casa nei pressi della chiesa di
Santa Maria del Fiore,
ma le cose non erano andate come avrebbe desiderato: il dispiacere d’aver
venduto la villetta all’Argentario e
la casa fiorentina, nella quale si era spenta sua moglie, avevano
dilaniato e consumato Lapo, tanto da portarlo alla morte senza nemmeno
avere occasione di vedere i suoi figli per l’ultima volta. E
così, nel giro di un mese, Beatrice si era ritrovata sola,
con un fratello
maggiore
pressoché assente ed una zia e una cugina che la odiavano e
la
rimproveravano per qualsiasi cosa.
Come se ciò non bastasse, avendo passato da un pezzo
l’età
dell’istruzione obbligatoria, le parenti le avevano
impedito persino di
andare a scuola, insistendo che
avrebbe potuto investire meglio il suo tempo nelle faccende domestiche.
Per fortuna della
giovane,
era però intervenuto il professor Rossiglione, amico di
vecchia data di suo padre, che si era offerto di
farle da insegnante
senza percepire nessun compenso, contando di portarla alla
maturità da privatista.
Improvvisamente, gli schiamazzi di Anna Laura che litigava con sua
madre - quel giorno, per sua sfortuna, si erano svegliate prima del
solito - provenienti
dal piano inferiore, riscossero Beatrice dai suoi pensieri,
ricordandole i suoi doveri di sguattera. Così,
dopo aver raccolto i suoi capelli in una treccia, si vestì e
si
affrettò
a
riordinare la sua stanza, lasciando che la brezza mattutina
rinfrescasse l’aria
di quel piccolo cubicolo. Fu indecisa se scendere o meno a preparare la
colazione a Guido, anche se poi decise di no: l’aveva
sentito distintamente rientrare intorno alle quattro del mattino,
ubriaco fradicio, che cantava una canzonaccia, pertanto fu certa che
quello stesse ancora dormendo come un sasso.
Mentre cercava di dare un aspetto dignitoso al suo letto sconquassato,
la ragazza sospirò: aveva sempre perdonato a suo fratello
qualunque guaio combinato, ma chiederle di scusarlo per aver
autorizzato quel viscido essere di Conrado de
Navarra a provarci con lei, per giunta in quel modo rozzo, era
decisamente troppo. Quando Guido le aveva ordinato di
essere carina con quel troglodita, Beatrice aveva pensato che
scherzasse, per poi ricredersi nello stesso momento in cui quello
aveva casualmente infilato le
sue
manacce nella scollatura e sotto la gonna. Al solo ricordo, le
salì un misto di rabbia e nausea che si accentuò
quando
lo sguardo le cadde sull’abito
lilla, adagiato sulla poltroncina e ormai era
completamente rovinato. E dire che ci aveva messo due mesi
per confezionarlo, non avendo così nemmeno il tempo per
cercare un modello per il cappotto nuovo, ed ora era da buttare!
Sbuffando, stava per uscire dalla stanza già preparandosi
mentalmente all’arringa che le avrebbe rivolto Anna Laura per
il
suo ritardo, quando
intravide il soprabito nero che sbucava dall’anta semiaperta
dell’armadio. Magari, se si fosse organizzata, avrebbe potuto
portarlo in lavanderia, così da restituirlo a Marcello
lavato e
stirato a dovere: era davvero il minimo dopo che lui era stato
così gentile con lei. Mentre imboccava le scale, al ricordo
del
misterioso, affascinante giovane che l’aveva aiutata e alla
prospettiva di un pomeriggio da passare insieme, un
sorriso le affiorò sulle labbra e
il suo malumore fu presto mitigato, dandole la forza necessaria ad
affrontare i due cerberi che l’aspettavano di sotto.
Non
appena Beatrice varcò la soglia della cucina, si
trovò
davanti Anna Laura che sorseggiava una mistura dall’odore
nauseabondo, sfogliando l’ultimo numero di una delle sue
riviste
scandalistiche preferite e segnando con una crocetta le foto di attori
e cantanti che avrebbe ritagliato in un secondo momento.
«Buongiorno
Anna Laura» la salutò, sforzandosi di non tapparsi
il naso
e chiedendosi chissà quale altro intruglio miracoloso avesse
comprato la cugina, che aveva una particolare tendenza ad abboccare a
qualsiasi televendita che promuoveva bizzarri prodotti che assicuravano
un fisico da top model. Non che fosse in carne, ma i promotori erano
così convincenti da essere certa che il suo corpo avrebbe
comunque ottenuto qualche beneficio. Fossero anche solo capelli
più splendenti e voluminosi, invece del suo ordinario
caschetto
opaco e floscio.
«Alla buon ora!» esordì quella, acida,
agitando
pericolosamente la mano che reggeva la tazza e aspergendo ancor di
più il tanfo in aria. «La contessina ha riposato
abbastanza?»
Beatrice si morse la lingua inghiottendo tutti gli improperi che stava
elaborando, visto che non aveva alcuna intenzione di farsi perforare i
timpani dagli strilli acuti della cugina, che, invece, si divertiva a
provocarla di proposito, tirando in ballo le sue lontane origini
nobiliari da parte di madre e contrapponendole alla condizione di
semi-schiavitù in cui era ridotta. Come se non fosse ovvio
che,
sotto sotto, Anna Laura avrebbe tanto voluto lei essere la figlia di
una qualche contessa. In fondo, anche se i titoli nobiliari non avevano
più alcun valore, avrebbe potuto comunque vantarsi e
sentirsi
superiore rispetto a tutte le sue amiche.
«Dov’è la zia?» chiese,
invece, la ragazza,
rendendosi conto solo in quel momento che non si era aggiunta nessuna
seconda voce ostile.
Dopo averle riservato un’occhiata di sufficienza,
l’altra
non si lasciò certo sfuggire l’occasione per darle
addosso
e le spiegò, perfida: «Aveva delle commissioni
urgenti da
fare ed è uscita. Quando torna dovrai sorbirti i suoi
rimproveri
per non averle fatto trovare la colazione pronta!»
«Ma un
vi siete alzate un po’ prestino, stamani? Poltrite sempre
fin’ alle dieci!»
borbottò Beatrice, non troppo forte perché la
sentisse,
ma abbastanza da concedersi un piccolo sfogo. Ripetere quelle parole
soltanto nella sua testa non le avrebbe dato la stessa soddisfazione.
Con la coda dell’occhio si assicurò che Anna Laura
avesse
ricominciato a leggere, smettendo quindi di infastidirla, e
cominciò a darsi da fare per preparare la spremuta per lei e
il
latte e cereali per sé. Tuttavia, la quiete durò
solo una
manciata di minuti, prima che la cugina riprendesse a punzecchiarla:
«Come è stata la festa di quell’oca di
Maria Luisa?
Non molto divertente, se sei tornata prima di tuo fratello... Credo di
aver fatto proprio bene a non voler venire».
«Guido
mi ci ha
trascinata. Lo sai che
non l’era
possibile dirgli di no» rispose Beatrice, dopo lunghi attimi
di silenzio, decisa a tagliare corto.
Anna Laura,
però, voleva sicuramente saperne di più,
poiché insistette: «È
stato quel maniaco di Navarra a strapparti il vestito?»
Stizzita, la ragazza smise di tagliare in due le arance e si
voltò quel tanto che bastava a lanciarle
un’occhiataccia,
certa che, al suo ritorno a casa, la cugina l’avesse spiata
prima
dalla finestra e poi dal corridoio, come faceva ogni volta.
«Secondo
te?»
le chiese, imprimendo in quelle due parole tutta la collera che
avvertì in quel momento e chiedendosi come si potesse essere
così perfidi da compiacersi delle disgrazie che da un anno
continuavano a caderle addosso, una dopo l’altra. Da brava
pettegola e abile spiona, anche Anna Laura era al corrente della corte,
autorizzata da Guido, che Navarra stava facendo a Beatrice. Sempre che
si potessero considerare tali le sconce e rozze attenzioni che lo
spagnolo le rivolgeva.
«Ho
solo tirato ad indovinare»
commentò l’altra,
con una pigra alzata di spalle e un ghigno che sottolineava tutto il
suo divertimento. «Però,
in qualche modo devei essertene liberata, visto che sei tornata con un
altro. Magari, è stato proprio lui ad aiutati con
Navarra».
Quell’osservazione così precisa lasciò
Beatrice
interdetta e le fece sospettare che, in realtà, alla festa
fosse
stato presente un qualche informatore fidato della cugina, ma le
bastò ascoltare ciò che quella aggiunse dopo per
dissipare ogni dubbio:
«Povera Bea, sei passata da quel cinghiale spagnolo ad un
pivellino sfigato...
dalla padella alla brace!»
Confusa,
la ragazza rimase a fissare a bocca aperta la cugina, che ricambiava
malignamente lo sguardo, non capendo dove volesse andare a parare.
Almeno finché il ricordo di Marcello non si
materializzò
nitidamente nella sua memoria.
«Veramente...» cominciò a dire, incerta,
prima di
venire zittita bruscamente da un gesto dall’altra.
«Solo
uno sfigato
non ha un’auto
per riaccompagnare a casa una ragazza» sentenziò
con sicurezza Anna
Laura, mostrandosi piuttosto compiaciuta di quella sua
personale convinzione. «Vi ho visto dalla finestra della
mia camera, siete tornati a piedi».
Tremando da capo a piedi per la rabbia e l’indignazione,
Beatrice
mise definitivamente da parte le arance si preparò ad
intimare
alla cugina di farsi gli affari suo, ma quella non glielo permise,
perché riattaccò con tono fastidiosamente
cantilenante: «Scommetto
che era pure acneico! Ah,
povera Bea che non ha mai fortuna con gli uomini, devi essere
davvero disperata per essergli corsa dietro. Speravi forse in un bacio
della buonanotte?»
«A
me non l’è
sembrato uno sfigato»
puntualizzò la ragazza, con uno scatto nervoso della testa. «È
stato molto gentile
ed educato. E poi, non
l’è
affatto acneico!»
L’altra, però, dovette trovare molto divertente la
sua
reazione, poiché scoppiò in una risata
così
fragorosa da scuoterla tutta.
«Ah, ah, ah! Sei davvero patetica!» la
schernì,
tamponandosi le lacrime con il dorso della mano. «Come puoi
credere che...»
«Non
son una bugiarda!»
la zittì Beatrice, il volto arrossato e le orecchie che le
ronzavano per la rabbia. «Marcello l’è
un gentiluomo
e anche un
bel giovane!
Lui l’è...
sul tu’ giornale?!»
Quella rivelazione stupì entrambe al punto che un verso
strozzato pose fine alla risata di Anna Laura e nella cucina
calò un silenzio di piombo.
«Che
cosa hai detto?» gracidò quest’ultima,
pallida e
sconvolta, spostando di continuo lo sguardo dalla cugina alla pagina
completamente crocettata. Tuttavia, Beatrice ammutolì,
troppo
turbata dalle foto del ragazzo che aveva notato solo allora: non
leggeva mai le riviste che circolavano in casa, pertanto ignorava sia
che
Marcello fosse così famoso. Per giunta, non avrebbe mai
creduto
che godesse di una tale popolarità da essere immortalato tra
gli
scatti di certi giornali. Chi era davvero, allora? Un attore di
fotoromanzi o
forse un cantante di una band emergente?
«Che stupidaggini ti stai inventando, piccola
stupida?»
Quell’insulto immeritato la riscosse immediatamente,
costringendola ad abbandonare le sue riflessioni per difendersi.
«Un
mi sto inventando nulla, l’è
tutto vero!»
«Smettila!» strillò Anna Laura,
zittendola
all’istante, gli occhi fuori dalle orbite e le guance, sempre
mortalmente pallide, tinte di una orribile sfumatura
violacea. «Sul serio speri che io creda che Marcello
Gentilini ti abbia riaccompagnata a casa?!»
«Sì,
perché
l’era
Marcello!» ribatté Beatrice, con tono ancor
più rabbioso. «Ieri ssera m’ha
detto lui stesso come
si chiamava!»
A quel punto, tacquero entrambe, squadrandosi in cagnesco.
«Tu vaneggi!»
decretò, infine, la cugina, alzandosi dalla sedia e
cominciando
a camminare su e giù per la stanza. Percorse
l’intero
perimetro almeno un paio di volte, gli occhi fissi sul pavimento
mormorando tra sé parole incomprensibili, per poi lanciarsi
in
un appassionato monologo: «Non è assolutamente
possibile che Gentilini si sia interessato ad una sciacquetta come te!
Tu non lo sai, ma è
uno dei più giovani e più scaltri imprenditori
della città,
schifosamente ricco e maledettamente bello. Forse si tratta dello
scapolo
più ambito di tutta Roma, quasi impossibile
da avvicinare, figurati parlargli!»
Fece una breve pausa per riprendere fiato e concluse con un misto di
abbattimento e irritazione: «Peccato che sia un gran misogino
e
guardi dall’alto in basso le donne come se fossero
spazzatura!
Frequenta solo quella gatta morta di Vittoria Farnese e davvero non so
cosa ci trovi in lei di tanto speciale...»
Da tutto quel fiume di parole che l’aveva investita, Beatrice
aveva capito due cose importanti: Marcello non era un personaggio dello
spettacolo, ma comunque un uomo di successo, e sua cugina Anna Laura
aveva un evidente debole per lui. Inoltre, il ritratto che aveva appena
sentito non coincideva affatto con l’impressione che le aveva
dato il ragazzo la sera precedente. Ciononostante, si guardò
bene dall’insistere, o peggio rivelare che aveva un
appuntamento
con lui in settimana.
«Be’,
direi che abbiamo chiarito la questione» commentò
improvvisamente Anna Laura, richiudendo le riviste e stringendosele al
petto. «Quando avrai finito, portami tutto di sopra, ho
deciso
che voglio fare colazione in camera!» annunciò
poi, con
uno sdegnoso cenno del capo.
In risposta, Beatrice si chiuse in un determinato mutismo e strinse
appena i pugni, ben consapevole che quel capriccio era la sua punizione
per aver detto una verità che la cugina non voleva
riconoscere.
Eppure, si ritrovò a riflettere qualche istante
più
tardi, forse era meglio non essere stata creduta, almeno nessuno le
avrebbe impedito di uscire quel martedì pomeriggio.
Improvvisamente, sentì crescere in lei una gran
curiosità
di capire davvero chi fosse Marcello, se il giovane buono e disponibile
che l’aveva aiutata o il freddo e distaccato uomo
d’affari
che aveva dipinto Anna Laura.
Mentre
tornava ad
occuparsi delle arance, recuperando il coltello che aveva lasciato
incuneato in una di esse, la ragazza rivolse distrattamente lo sguardo
oltre la porta della cucina, in direzione delle scale, dove
notò
una scena a metà tra l’esilarante e il grottesco:
sua
cugina intenta a sbaciucchiarsi avidamente un ritaglio di giornale.
Scuotendo la testa, Beatrice si rimese al lavoro, chiedendosi con un
sorrisetto chi tra le due fosse davvero la
più patetica.
***
Quando
Marcello richiuse le pagine del quotidiano, subito si
sollevò
l’odore familiare e pungente dell’inchiostro, che
costrinse
il giovane ad
arricciare le labbra in una smorfia di disgusto. Deluso
dall’assenza di una qualche notizia che annunciasse
l’arresto di Navarra, gettò il giornale sul
divano, il più lontano possibile da lui, per poi accomodarsi
sulla poltrona, con l’intenzione di dedicare due o tre ore al
libro che aveva lasciato in sospeso, circondato da file e file di
volumi che riempivano il rilassante silenzio della biblioteca. In
quel momento, dalla finestra appena
socchiusa, proveniva il melodioso cinguettio degli uccellini
appollaiati sugli alberi limitrofi e, di tanto in tanto, un piacevole
soffio del vento di inizio autunno.
Decisamente, era il suo nascondiglio preferito, una delle
poche
stanze in cui Tiberio, quando veniva a trovare i genitori, non riteneva
degna di essere ispezionata. Non appena il giovane aveva visto la
macchina del fratello parcheggiata nel piazzale, aveva deciso che
avrebbe trascorso il resto del pomeriggio lì dentro,
chiedendo
alla governante di non far entrare nessuno.
Tuttavia, Marcello ben presto dovette
cambiare i suoi programmi, poiché aveva appena appoggiato il
segnalibro sul tavolino, quando Vittoria e la sua esuberanza irruppero
nella stanza.
«Ciao, Marcellino!» esclamò, gaia,
facendo capolino dalla porta.
Non aspettandosi una sua visita così improvvisa, il ragazzo
sobbalzò e la fissò qualche secondo, prima di
borbottare:
«Meno male che avevo detto ad Ottavia di non voler essere
disturbato!»
«Sì, me l’ha detto»
lo rassicurò
lei, veleggiando verso di lui con un sorrisetto sornione, «ma
io
sono tua amica e per me certe regole non valgono, lo sai».
Istintivamente, Marcello alzò gli occhi al cielo, facendo
subito
scoppiare a ridere l’altra che, senza indugiare, si
accomodò sulla poltrona accanto. A quel punto, avendo
capito che i suoi programmi di lettura dovevano essere rinviati, il
ragazzo mise via il libro ed accavallò le gambe.
«Come mai sei venuta? C’è qualcosa che
non va, per
caso?» le chiese, non senza averla prima scrutata
attentamente.
Infatti, conosceva Vittoria da troppo tempo per non sospettare che,
dietro il suo avviso improvviso, si nascondesse qualcosa: fin da
bambina, non aveva mai esitato a correre da lui quando aveva un
problema.
«Be’, ecco...» iniziò lei,
incerta, diventando
improvvisamente triste. «A dire il vero, volevo scusarmi
con te per essere andata via dalla festa di Maria Luisa senza preavviso
e, soprattutto, senza averti salutato».
Perplesso, Marcello corrugò la fronte, stupito da
quell’aria fin troppo dimessa per una come Vittoria. In quel
momento, gli
tornò alla mente la breve discussione avuta con Gerardo e si
chiese se l’altra avesse già parlato con lui per
fare
pace.
«Non preoccuparti, non me la sono presa. Invece, credo che
Gerardo ci sia rimasto abbastanza male» commentò,
sondando
il terreno. Ogni volta che quei due discutevano, si trovava sempre
nella scomoda posizione dell’intermediario che doveva stare
molto
attento a ciò che diceva dell’uno
all’altra.
Mettendo su un cipiglio abbastanza allarmante, l’amica
posò lo sguardo su di lui e si sfregò le
labbra.
«Ti ha detto che abbiamo litigato, vero?»
domandò, tradendo una certa apprensione.
«Sì, sabato sera stesso» le
riferì Marcello,
lieto di non dover ricorrere a chissà che giri di parole per
farle capire che era a conoscenza dei retroscena. «Ieri
mattina
mi ha
telefonato per dirmi che si sarebbe preso un paio di giorni di ferie.
Sembrava ancora piuttosto provato».
«Non è venuto al lavoro..?»
In risposta, il ragazzo si limitò a scuotere brevemente la
testa e Vittoria si incupì ancora di più.
«Per caso, ti ha detto anche perché abbiamo
litigato?» si informò quest’ultima, con
fare
circospetto.
«No. Gliel’ho chiesto, ma non mi ha
risposto».
Immediatamente,
sugli occhi della giovane passò un’ombra di
tristezzacosì
intensa che Marcello temette fosse successo qualcosa di
irreparabile. Stava quasi per chiederle se andasse tutto bene, quando
quella attaccò, con una vena di incertezza nella voce:
«Be’, ecco... è cominciato tutto per
colpa
mia».
Si fermò un attimo, per attendere un cenno ad andare avanti
da
parte del suo interlocutore e, dopo che lo ebbe ottenuto,
proseguì: «Vedi, a Gerardo piace Maria
Luisa e... No, non fare quella faccia! Davvero non te ne sei mai
accorto?»
«Ad essere sincero, no» ammise il giovane,
perplesso e
sorpreso dalla rivelazione. Si ritrovò allora a considerare
che,
a conti fatti, non era la prima volta che ignorava una qualche trama
amorosa che si intrecciava sotto i suoi occhi. Solo, lo
stupì
che, in quel caso, si trattasse dell’amico che conosceva da
praticamente una vita; tuttavia, era anche vero che Gerardo non gli
aveva mai confidato nulla riguardo i suoi innamoramenti, mentre, al
contrario, Vittoria gli parlava dei suoi ancor prima che se ne rendesse
conto lei stessa.
«Sei sempre il solito» sbuffò la
ragazza, tradendo
però un sorriso, riportandolo a concentrarsi sulla
conversazione. «Comunque, stavo dicendo: a lui piace lei, ma
a
lei,
come ben sai, interessi tu, quindi gli ho solo consigliato di lasciar
perdere quella vacca
che non lo merita».
Nell’udire quella definizione, Marcello aggrottò
le sopracciglia, stupito.
«Gli hai detto proprio così?»
«Le parole non erano queste, ma il senso
sì»
tagliò corto l’altra, togliendosi i capelli dal
viso con
un gesto seccato.
«Vittoria, non è da te usare insulti...
sessisti»
osservò il ragazzo, ponderando bene le parole.
C’era
qualcosa in tutto quel discorso che non quadrava, come se
l’amica
gli stesse nascondendo qualcosa di importante, e Marcello lo percepiva
non tanto dalle sue parole, quanto più dai piccoli scatti
nervosi del corpo o dalle eccessive pause che stava mettendo nel
racconto.
«Sì, hai ragione, ma in questo caso sono costretta
ad andare contro i miei stessi principi» puntualizzò
Vittoria, lapidaria. «Gerardo non ha tutti i torti ad
essersela
presa, però, vedi, io
volevo solo fargli capire che sbaglia a sottovalutarsi. Non
può
sottomettersi ad una che lo tratterebbe come uno zerbino».
«Su questo mi trovi pienamente concorde. Gerardo è
davvero
troppo modesto» approvò il giovane, ben
consapevole della
scarsa autostima dell’amico, quando, invece, era davvero una
persona eccezionale.
«E dovrebbe cercarsi una ragazza che possa
apprezzare
davvero
tutte le sue innumerevoli qualità»
rincarò con
decisione la ragazza, incrociando le braccia sul petto e abbandonandosi
contro lo schienale della poltrona. «Se solo si
girasse un po’ intorno...» aggiunse dopo qualche
secondo,
sottovoce, forse diretta più a se stessa che a lui.
Quella
reticenza, però, non sfuggì a Marcello, anzi, lo
illuminò perfino sulla possibilità che Vittoria
stesse
alludendo ad una qualche sua amica interessata a Gerardo. Tuttavia,
c’era da dire che lei non sembrava molto contenta e questo
gli
parve piuttosto strano.
«Comunque, credo che stasera andrò da lui e gli
chiederò di fare pace» concluse improvvisamente la
giovane, dopo l’ennesima pausa, accompagnando le parole con
un
gran sospiro. A quel punto, il giovane arrivò alla
conclusione
che fosse semplicemente preoccupata che il loro amico potesse avercela
ancora con lei, pertanto si sentì in dovere di confortarla.
«Mi sembra un’ottima idea» la
incoraggiò,
sorridendole. Poi, si alzò e le chiese: «Sto
andando in
cucina per una tazza di tè, ne preparo una anche per
te?»
Subito,
le labbra di Vittoria si incurvarono all’insù e un
po’ di luce tornò a brillare nei suoi occhi.
«Oh,
sì. Molto volentieri» rispose, con la sua solita
allegria.
«Sai che non dico mai di no ad una tazza di tè.
Vuoi una
mano?»
«No, non preoccuparti, faccio subito» la
rassicurò il ragazzo, già quasi arrivato alla
porta.
Marcello gettò nella teiera due filtri di tè e
rimase ad
osservare l’acqua bollente che si tingeva di un
tenue colore
rossastro, assumendo tonalià più scure man mano
che
passava il tempo. Intanto, Vittoria si era protesa verso il vassoio,
annusando l’aroma che si espandeva nell’aria, come
faceva
fin da quando era piccola.
«Leandro non mi manda mai abbastanza Earl Grey, lo finisco
sempre
prima che mi spedisca il pacco successivo» disse, lasciando
che
le si increspasse appena la fronte.
«Probabilmente, tuo fratello è d’accordo
con me e
pensa che tu sia abbastanza vivace, anche senza un abuso di
teina».
Indispettita, la giovane riaprì di scatto gli occhi e
indirizzò all’amico un’occhiataccia che,
però, venne ignorata.
«Due
cucchiaini di zucchero e mezza fettina di limone.
Giusto?» le chiese Marcello, versando cautamente il liquido
fumante in due tazze di porcellana pregiatamente cesellata.
«Tu
sì che mi conosci. Bartolomeo, invece, si
ostina ad offrirmi il caffè!»
sospirò Vittoria, tornando compostamente seduta sulla
poltrona.
«Be’,
sono
vent’anni che ti sopporto. In fondo, Bartolomeo
l’hai
incontrato solo
l’anno scorso» le fece notare il ragazzo, tra il
serio e il divertito,
guadagnandosi un’altra occhiata obliqua, mentre le porgeva la
tazza.
«A proposito, dove si trova in questo momento?»
Prima di rispondere, l’amica si perse ad ammirare gli sbuffi
di
vapore che stava esalando la sua bevanda, giocherellando pigramente con
la fetta dell’agrume.
«Nelle Filippine. Ha detto che sta trovando molti soggetti
interessanti per le opere da presentare alla sua prossima
mostra»
spiegò, con una piccola smorfia. Quel pomeriggio, sembrava
essere turbata da gran parte degli argomenti che affrontavano
quotidianamente, anche quando con loro c’era Gerardo.
Infatti, si
affrettò a cambiare discorso: «Che cosa stavi
facendo
prima che ti interrompessi?»
Marcello masticò lentamente il pasticcino di frolla al cacao
e
scaglie di cocco che si era appena ficcato in bocca, concedendosi un
lungo istante per assaporarlo al meglio. Era tra i migliori che avesse
mai mangiato e, più tardi, avrebbe sicuramente fatto i
complimenti ad Annetta.
«Volevo concedermi un paio d’ore di lettura, prima
di
rimettermi a studiare in vista dell’imminente incontro con
Lord
Carter» le disse, tuffando di nuovo la mano nel piatto dei
biscotti. «Sono
un po’ indietro. Io e Gerardo ci siamo divisi il materiale da
passare in rassegna, così io mi sto occupando delle Sette Sorelle».
«Le
Sette Sorelle?
Ma non sono le compagnie petrolifere accusate
dell’omicidio di
Enrico Mattei? E Lord Carter non è il magnate che gestisce
la
maggior parte degli impianti idrocarburici del Mare del Nord?»
domandò Vittoria, all’improvviso spaventata.
«Già,
sono proprio loro e mi chiedo se mai si scoprirà cosa
è
successo davvero all’aereo di Mattei» fece
Marcello, con
una sconsolata alzata di spalle. «Per quanto riguarda Carter,
hai
ragione anche su di lui. Per ora, tutto ciò che sappiamo
è che sta facendo la corte alla British Petroleum,
partecipando
per loro conto alla negoziazione per comprare la Britoil, ma non ci
è chiaro che cosa voglia sul serio».
Impallidendo, la ragazza serrò le labbra e si
appoggiò in grembo le mani, ancora strette intorno alla
tazza.
«Sì, ho capito, ma cosa c’entrate voi
con Lord
Carter e le compagnie petrolifere? State pensando di comprare azioni o
roba simile?»
A quel punto, il giovane prese la teiera e le fece segno
all’amica se volesse dell’altro tè, ma
quella mosse
appena il capo, troppo concentrata su di lui; così Marcello
riempì di nuovo solo la propria tazza.
«No, a dire il vero, è stato proprio Carter a
contattarci,
chiedendoci se volessimo partecipare ad un investimento per la
costruzione di una nuova piattaforma per l’estrazione del
petrolio» le illustrò, cercando di spiegare la
faccenda
con parole semplici. «Notevoli interessi assicurati, a suo
parere».
Vittoria, invece, non sembrò dello stesso avviso,
perché,
non appena lui ebbe finito di parlare, subito scattò:
«Marcello, so che questo non è il mio ambito e che
non
capisco nulla di borsa, petrolio o tassi di interesse, ma... se dicessi
a te e Gerardo di lasciar perdere, c’è qualche
speranza
che mi ascoltereste?»
Vedendo che la ragazza sembrava davvero preoccupata per entrambi,
Marcello pensò bene di rassicurarla.
«Tranquilla, non abbiamo ancora firmato niente» le
disse,
appoggiando una mano sulle sue, talmente serrate intorno alla
porcellana che avrebbe potuto frantumarla da un momento
all’altro. «Inoltre, stando alle nostre ricerche,
Carter
non ci sembra molto... onesto».
Dopo che le ebbe riferito ciò, il giovane avvertì
la
tensione di Vittoria ridursi di molto e ne fu sollevato, nonostante si
sentì un po’ in colpa per averla fatta inquietare,
quando,
invece, avrebbe dovuto distrarla dai brutti pensieri che aveva e che,
purtroppo, solo in parte aveva condiviso con lui. Ne era certo: come
aveva già fatto Gerardo sabato scorso, anche lei gli stava
nascondendo qualcosa, tuttavia sentiva che non aveva senso insistere,
perciò pensò di passare a parlare di altro.
Gli venne in mente allora l’idea di chiedere
all’amica
qualche consiglio su cosa portare il martedì pomeriggio a
Beatrice, non avendo intenzione di presentarsi a mani vuote. Sapeva che
sarebbe stato rischioso mettere al corrente Vittoria della ragazza che
aveva conosciuto alla festa, ma, si disse per convincersi, prima o poi
lo sarebbe comunque venuto a sapere.
Quindi, preparandosi mentalmente all’interrogatorio che
avrebbe
subito di lì a breve, esordì: «Vedi,
Vittoria,
avrei bisogno di un consiglio, diciamo, per... una specie di
appuntamento con una ragazza».
L’effetto di quelle parole fu immediato: l’amica
drizzò la schiena e spalancò gli occhi, pieni di
una
curiosità che aspettava solo di essere soddisfatta.
«Chi è, la conosco? Come vi siete conosciuti?
Quando
sarebbe l’appuntamento?» chiese, senza prendere
fiato tra
una domanda e l’altra. Travolto da tutta quella esuberanza,
Marcello sbatté le palpebre, sbilanciandosi leggermente
all’indietro
e addossandosi allo schienale della poltrona. Proprio in
quell’istante, gli sembrò di aver sentito un
rumore
provenire dal giardino e si voltò istintivamente verso la
finestra. Rimase in attesa, ma quello non si ripeté.
«Non credo tu la conosca, almeno non di persona»
considerò, pensieroso, tornando a rivolgersi
all’amica,
che non sembrava aver notato nulla. «È la sorella
di Guido
Tolomei».
Non appena ebbe pronunciato quel nome, la giovane contrasse le labbra
in una smorfia di disappunto.
«Davvero ha una sorella? Spero non sia come lui».
«Per niente! Anzi, non vedeva l’ora di andaresene
da quella
bolgia» rimarcò Marcello, secco, quasi
offendendosi
lui al posto di Beatrice. «Ci siamo scontrati mentre io
scappavo
da Maria Luisa e lei da Conrado de Navarra».
Per la seconda volta, Vittoria assunse un’espressione
disgustata
e, agitandosi sulla poltrona, esclamò: «Navarra?!
Che cosa
ci faceva alle festa di Maria Luisa? E perché ce
l’aveva
con questa ragazza?» Poi, si fermò un attimo, come
se
stesse riflettendo su un particolare fondamentale del quale non era
ancora venuta a conoscenza e aggiunse: «A
proposito, lei
come si chiama?»
«Potresti farmi domande delle quali so la risposta, per
favore?» sbottò il giovane, esasperato,
sollevandosi con
uno scatto nervoso, anche se, alla fine, si rimise seduto. Avrebbe
davvero voluto sottrarsi a quell’interrogatorio
così
accanito, ma poi si ricordò che ancora non aveva ricevuto
alcun
consiglio, quindi decise di restare dov’era.
«Quanto sei noioso, non sai mai niente di
interessante» si
lamentò l’altra, per nulla scomposta.
«Almeno
conosci il nome della tua nuova amica?»
«Si chiama Beatrice».
«Beatrice»
ripeté Vittoria sottovoce, concentrata, come se potesse
suggerirle qualcosa in più sulla ragazza. «Un
bel nome. Sai, io credo che potresti banalmente portarle dei fiori,
visto che non passano mai di moda».
«Fiori?» le fece eco
il ragazzo, stupito di non averci pensato da solo.
«Be’,
se le piace cucinare, potresti anche optare per un mazzo di cime di
rapa»
lo punzecchiò l’amica, ridacchiando e prendendo un
biscotto con la frutta candita, il primo in tutto il pomeriggio. «Possono
tornare utili per un buon
minestrone».
Subito, Marcello avvertì le guance avvampare per la stizza,
ma
non replicò, poiché aveva appena avuto la
dimostrazione
che Vittoria si era rasserenata al punto tale da esserle tornato
l’appetito.
«Comunque, non è un appuntamento amoroso,
andremo solo a vedere le opere di Caravaggio nella basilica di
Sant’Agostino» ci tenne a precisare lui,
rilassandosi a sua
volta. «Mentre la riaccompagnavo a casa, mi ha raccontato che
le
manca molto Firenze, così ho pensato che fosse un gesto
carino
accompagnarla a visitare qualcosa che le interessa».
«Oh, ma io ho sempre saputo che, da qualche parte sotto
quella
scorza dura, si nascondeva un lato da tenerone»
ribatté
istantaneamente Vittoria, un sorriso sornione che andava da una parte
all’altra del volto, servendosi un altro dolcetto.
Tra la chiome dei pini filtrava una calda luce aranciata che conferiva
a tutto il giardino un particolare alone dorato, facendolo sembrare
quasi un bosco degli elfi. Continuando a parlare, Marcello e Vittoria
percorsero il viale acciottolato che attraversava una fitta e
lussureggiante distesa d’erba fino ai cancelli della villa.
«Posso strapparti la promessa che mi racconterai tutto
ciò
che succederà con Beatrice?» chiese lei,
speranzosa,
quando passarono accanto ad una grande fontana circolare di marmo,
decorata da graziose ninfee rosa.
«Come no» ribatté il giovane,
sarcastico. «Ci
sono già i giornalisti che, spesso e volentieri, se ne
escono
con domande inopportune sulla mia vita privata».
«Per questo hai deciso di rilasciare interviste solo a Il Sole 24 ORE e
simili?».
«Esatto».
«Ma io non sono una giornalista, sono la tua migliore amica,
quindi...»
Vittoria, però, non riuscì a terminare
ciò che
stava dicendo, perché venne stroncata dalla Matrona, che si
era
materializzata dal nulla, sbarrando loro la strada.
«Non avrai proprio un bel niente da raccontare,
perché non
andrai da nessuna parte!» sbraitò,
all’indirizzo del
figlio, senza degnare la ragazza nemmeno di una rapida occhiata.
Inaspettatamente, da dietro di lei sbucò un sogghignante
Tiberio, le gli occhi che brillavano di soddisfazione. Nonstante
fossero fratelli, lui e Marcello avevano solo una vaga somiglianza
fisica che sarebbe stata riscontrata solo da un osservatore molto
attento. Tiberio, infatti, aveva ereditato la media statura,
l’atteggiamento prevaricatore e le iridi color caramello
della
madre; invece, dal padre, solo i capelli castano scuro.
Quando se li trovò davanti sul sentiero, quasi come una
bislacca parodia delle fiere dantesche, Marcello impiegò
il tempo di un battito di ciglia per superare la sorpresa iniziale e
ricambiare l’occhiata ostile. Incrociò
le braccia sul petto e, in tono di sfida, ribatté:
«E con
quale autorità credi di impedirmelo, mamma? Sai, ho
passato i cinque anni da un pezzo, ormai».
«Taci, figlio ingrato!» lo zittì la
signora Claudia,
puntandogli contro un dito accusatorio. «Tiberio ha sentito
cosa
stai progettando di fare e mi ha raccontato tutto!»
«Che cos...?» cominciò il giovane, per
poi bloccarsi
subito. Pian piano, nella sua mente cominciò a farsi strada
il
sospetto che il rumore proveniente dal giardino che aveva sentito in
biblioteca non fosse stato solo frutto della sua immaginazione; la
conferma, però, arrivò quando notò il
ghigno sulla
faccia del fratello che si allargava a vista d’occhio.
«Come hai potuto mettere gli occhi sulla nipote di Assunta
Tolomei!» sbraitò la Matrona, richiamando
l’attenzione di Marcello e distogliendolo
dall’istinto di
avventarsi su quel traditore. «La loro è una
famiglia
disgraziata e, dopo tutto quelo che ho fatto per te, non puoi ripagarmi
in questa maniera!»
Dunque, notò con disgusto Marcello, sua madre conosceva
talmente
bene gli appartenenti alla Roma bene, o sedicenti tali, da non
risparmiare nemmeno la zia di Beatrice, chiunque lei fosse. In
considerazione di ciò e seccato da quel tono querulo, infimo
espediente che usava sempre sua madre quando voleva farlo sentire in
colpa, il giovane decise di troncare quella inutile conversazione e di
impiegare il suo tempo in maniera più proficua.
«Veramente,
ho solo riaccompagnato a casa quella ragazza, non ci ho amoreggiato. E
questo è tutto».
La signora Claudia, però, non doveva essere dello stesso
parere.
Infatti, contrasse il volto in una maschera di collera e, agitando i
pugni all’aria, perseverò a portare avanti le sue
argomentazioni.
«Tu
non hai idea di quello che ho passato, prima di arrivare qui,»
gridò, agitando le braccia freneticamente le braccia,
indicando
tutto ciò che la circondava, tanto che il figlio si chiese
se
quell’avverbio si riferisse nello specifico a Villa Aurelia
oppure alla posizione sociale che essa simboleggiava,
«perché quando sei nato hai trovato la strada per
il
successo già spianata... da me! Io non ti
permetterò di
mandare all’aria i miei sacrifici!»
Contando fino a dieci per non espoldere, Marcello si voltò
verso
Vittoria che, nonostante non fosse certo la prima volta che assisteva
alle terribili sceneggiate della Matrona, sembrava piuttosto in
difficoltà per essersi trovata in mezzo a quella diatriba
familiare. Senza contare, che sia Claudia, sia Tiberio avevano
tranquillamente fatto finta di non vederla: anche insultarla, in quella
circostanza, era di secondaria importanza.
«Mamma,
mi sembra davvero che tu stia esagerando» tagliò
corto il
giovane, prendendo l’amica per un polso. «Ora,
scusami, ma
devo accompagnare Vittoria, che ha tutto il diritto di poter
tornare a casa!»
Detto questo, la condusse via, superando la madre e sostando accanto al
fratello il tempo per sussurrargli, a denti stretti: «Con te
facciamo i conti dopo».
«A dire il vero, stavo tornando a casa da mia moglie e mie
figlia. Se non ti spiace, possiamo fare un’altra volta, che
ne
dici?» lo sbeffeggiò quello, di rimando, alzando
il mento
con fare tronfio. In risposta, Marcello assottigliò lo
sguardo e
passò oltre, prima che il suo autocontrollo andasse a farsi
benedire e cedesse alla voglia di tirare un pugno ben assestato a
quella faccia da schiaffi.
Talmente
era tanta la rabbia che aveva in corpo, che Marcello marciò
fino
al cancello senza dire una parola con le orecchie che fischiavano
così intensamente da coprire quasi qualunque suono
provenisse
dall’esterno.
«Scusami per il penoso spettacolo di prima, ma questa casa
assomiglia sempre di più ad un circo» disse infine
a
Vittoria, quando fu certo che i suoi parenti non potessero
più
sentirlo. Lei, però, scosse la testa.
«Non preoccuparti, tu non c’entri» lo
rassicurò, facendo dondolare la borsetta che aveva tra le
mani.
«Sono anni che li conosco».
In quel momento, calò un silenzio teso, interrotto solo dai
rombi e dai clacson delle automobili che trafficavano per la strada
poco lontana. Era ormai arrivato il crepuscolo e con esso
l’ora
di punta.
«Mia madre non accetta che io ascolti i suoi consigli e che
non
faccia niente per compiacerla» sospirò il giovane,
di
punto in bianco, lo sguardo che vagava sul prugno ormai ingiallito
oltre la spalla della ragazza. «Ma io ho già
scelto il
genitore da compiacere e non è lei».
Una delle bellezze di un’amicizia longeva e sincera come era
quella che lo univa a Gerardo e Vittoria era la possibilità
di
parlare con loro liberamente, senza dover per forza mettere in piedi
assurde giustificazioni al comportamento inopportuno di sua madre o di
suo fratello. Poteva confidarsi con loro e ascoltare le loro opinioni,
a volte molto illuminanti, come fu proprio quella che espresse la
giovane poco dopo.
«Se mi permetti, secondo me, lei ti vede come il figlio davvero
vincente, quindi si sente frustrata nel saperti così
distaccato.
Ecco perché si accanisce contro di te» gli disse,
con
dolcezza.
«Probabile che sia così, ma non può
decidere al
posto mio» replicò lui, risoluto. Era
inammissibile che la
Matrona, ad un passo dai venticinque anni, decidesse chi dovesse
frequentare il figlio. Non gli dispiaceva rivedere Beatrice e di certo
non si sarebbe lasciato fermare dalle paturnie di sua madre.
«Ci sentiamo domani?» gli domandò la
ragazza,
toccandogli appena una mano per richiamare la sua attenzione.
Ridestato, spostò lo sguardo su di lei ed annuì.
«Be’, allora... buona fortuna con Gerardo. Sono
certo che
non ti chiuderà la porta in faccia, è troppo
buono per
farlo» le disse, incoraggiante, ricordandosi dei suoi piani
per
la serata. Rincuorata da quelle parole, mentre attraversava il
cancello, Vittoria gli regalò un sorriso riconoscente.
***
Il pomeriggio del martedì successivo, Marcello si
avviò di
buon’ora verso la basilica di Sant’Agostino, tra le
mani un piccolo
omaggio floreale per Beatrice: un
discreto ed
elegante
mazzetto di gerbere bianche. Anche se non le aveva dato soddisfazione,
doveva riconoscere che Vittoria gli aveva
comunque dato un ottimo suggerimento.
Ovviamente, quando era uscito di casa, non aveva detto a nessuno dove
stava andando, anche se, a giudicare dall’occhiata in
cagnesco
che gli aveva lanciato la madre quando le era passato davanti al naso,
molto probabilmente lo aveva capito. Ciononostante, non aveva detto
mezza parola, lasciando alla sua espressione indignata il compito di
esprimere tutto il suo disappunto.
L’idea di passare qualche ora con Beatrice gli aveva infuso
una
insolita serenità, poiché ricordava quanto era
stato
piacevole parlare con lei, seppur temeva avrebbe fatto qualche gaffe,
dato che era la prima volta che usciva con una ragazza che non fosse
Vittoria. Non aveva mai avuto molte occasioni di interloquire con le
donne giovani, non perché non volesse scambiare opinioni con
loro o perché le reputasse esseri inferiori, come qualche
lingua
malevola vociferava alle sue spalle, bensì perché
non gli
era mai capitato di conoscerne di veramente interessanti.
Nell’ambito lavorativo, infatti, aveva a che fare quasi
eslcusivamente con altri uomini; la cerchia di persone che si trovava a
frequentare alle feste o nel corso di un evento mondano, invece, era
sempre piuttosto limitata e popolata per la maggior parte da soggetti
come Ascanio Colonna o Maria Luisa Foscari. Non era un tipo molto
socievole, questo lo riconosceva, per questo si era sempre fatto
bastare Gerardo e Vittoria, qualche vecchio collega
dell’università con cui era rimasto in contatto e
alcuni
dei ragazzi che frequentavano la palestra del signor Nardone.
Perso nelle sue riflessioni, Marcello svoltò meccanicamente
l’angolo e si ritrovò in piazza
Sant’Agostino,
dove la bianca
facciata dell’omonima chiesa, prendeva quasi tutta la
visuale e, lì sotto, seduta su uno scalino, con lo sguardo
rivolto verso il basso, scorse subito
Beatrice. Indossava un leggero vestito blu notte e sulle spalle aveva
poggiato un maglioncino sottile dello stesso colore; i capelli fulvi,
particolare che lo aveva aiutato ad individuarla a colpo
d’occhio, le
ricadevano lunghi e sciolti ai lati del volto. Senza nemmeno
accorgersene, il giovane sorrise e si avviò verso di lei.
«Buon
pomeriggio, Beatrice» la salutò, quando le fu
abbastanza vicino, domandandosi se fosse stato troppo formale.
Presa alla sprovvista, la ragazza alzò di scatto la testa,
ma, quando lo riconobbe, gli sorrise a sua volta.
«Ciao
Marcello.
Son contenta
che tu sia
venuto».
All’improvviso a corto di parole, non sapendo bene che cosa
dire, il ragazzo decise di trarsi
d’impaccio con una domanda neutra: «Sono in
ritardo, per caso?»
«No,
no.
Sono io che
son venuta prima, visto che non m’andava di restare ancora in casa con la mia cugina»
chiosò Beatrice, infastidita, arricciando il naso.
«Non andate d’accordo...?» le
domandò lui,
cercando di mantenersi sul vago. Sapeva davvero poco della sua famiglia
e si augurò che ne avesse una migliore della sua, anche se
bastava pensare a Guido per convincersi subito del contrario.
«Be’, l’è
un po’... invadente, per uscire ho dovuto rifilarle una scusa»
gli riferì la ragazza, lasciando intendere che il resto del
parentando non era poi tanto migliore del fratello. «A proposito, mi spiace di non aver
potuto portarti indietro il
soprabito, ma m’ha tenuto d’occhio finché non
son
uscita».
Sembrava
davvero dispiaciuta; tuttavia Marcello, che comprendeva bene la
situazione, vivendone una simile in prima persona, la
tranquillizzò: «Non
importa, me lo ridarai un’altra volta. Intanto, posso usarne
un altro».
In risposta, Beatrice accennò un sorriso di ringraziamento e
si
alzò dagli scalini, spolverandosi accuratamente la gonna
dell’abito.
Mentre la osservava, il giovane avvertì la sensazione di
avere qualcosa in mano e si ricordò del mazzetto di
genziane.
«Mh,
ecco... questi sono per te» le disse,
offrendoglieli con un gesto un po’ impacciato.
Sorpresa, lei sollevò il capo e
guardò prima i
fiori, poi lui, le guance che si tinsero di un discreto rossore.
«Oh,
grazie... Non avresti dovuto disturbarti!» si
affrettò a dire. «Son
bellissime, le gerbere
son tra i mie’ fiori preferiti».
«Mi fa piacere» commentò lui, sollevato
dalla
notizia. Le aveva scelte perché gli erano sembrati dei fiori
adatti ad una ragazza molto giovane, ma non avrebbe mai sperato che
potessero piacerle fino a tal punto.
Per qualche istante, i due giovani rimasero in silenzio, poi, Marcello
pensò che fosse carino fare la prima mossa ed invitarla ad
entrare nella chiesa. D’altra parte, nonostante non fosse un
veterano in ambito di
appuntamenti con le ragazze, poteva sempre affidarsi al buon senso, di
cui, per sua fortuna, non era sprovvisto.
«Allora,
vogliamo
entrare?» le domandò gentilmente, mostrandole la
via con un cenno del braccio. «Prego,
dopo di te».
«Oh,
certo»
rispose la ragazza, stringendo i fiori tra le dita e
precedendolo.
Marcello
la seguì, accorgendosi che stava sorridendo ancora una volta.
Gli interni, sfarzosi ma piuttosto cupi della basilica, così
incontrasto con il pomeriggio assolato che si erano lasciati alle
spalle, costrinsero i loro occhi ad impiegare un po’ di tempo
prima di abituarsi alla penombra; tuttavia, quando si trovarono davanti
alla Cappella Cavalletti, Marcello ammise a se stesso che, se non fosse
passato per quella momentanea cecità, non avrebbe potuto
capire
fino in fondo la meraviglia di quel quadro.
Custodito tra due colonne di marmo, il capolavoro di Caravaggio
destò subito l’interesse di Beatrice, che
osservava il dipinto con reverenziale ammirazione. Ciò non
sfuggì al giovane, il quale
istintivamente tornò a rivolgere lo sguardo verso la tela ed
ebbe la fugace, ma intensa sensazione che le
figure avessero preso a muoversi: la Madonna teneva in braccio
Gesù Bambino rivolto verso i
pellegrini, scalcinati e stanchi, con i piedi visibilmente sporchi e
gonfi, particolare che, all’epoca, aveva destato molto
scandalo
tra gli ecclesiastici. Erano così realisitici da sembrare
vivi.
Nonostante Marcello non fosse un grande cultore della storia
dell’arte, non avrebbe mai potuto negare
l’atmosfera aulica che si respirava lì davanti.
«L’è
qualcosa di
meraviglioso»
sussurrò Beatrice,
persa nella
contemplazione delle ombre sciolte dalla pennellata di luce
caravaggesca. «Un’atmosfera
unica. Lo
sai come faceva il Merisi a
dare
quest’effetto?»
Interrompendo la contemplazione del quadro, il giovane si
voltò verso di lei e
poi scosse con umiltà la
testa: «No,
in storia dell’arte sono un autentico ignorante, lo
ammetto».
«Dipingeva
con
pennellate nere ed intense, per poi segnare con il manico del pennello
i
punti dove avrebbe disegnato i volti e i massimi punti di luce.
Obbligava perfino i suo’
assistenti a tenere le fiaccole
accese in
determinate posizioni per avere il giusto
effetto luminoso. Per lui, la luce
era
tutto» spiegò lei, con un sospiro ammirato, le
iridi blu incollate al dipinto.
«In
poche parole, era uno schiavista» commentò
Marcello, alzando appena un sopracciglio.
«No»
rise Beatrice, scuotendo la testa e serrando i fiori contro il petto,
«solo un grande artista».
«Ti
piace molto Caravaggio?»
«È
il mi’
artista preferito. Una personalità affascinante,
con tante luci ed ombre, esattamente come i suoi
quadri».
Il giovane si concesse
un’altra occhiata alla tela, prima di notare: «Ne
parli davvero con tanto trasporto».
«Oh,
sì. Un altro artista che amo, anche se non
quanto il
Merisi, è l’altro Michelangelo, il
Buonarroti.
Un’altra personalità burrascosa e controversa»
gli spiegò la ragazza, facendo spallucce.
«Dunque,
ti
piacciono le persone difficili» replicò lui,
accigliandosi.
Beatrice,
però, si lascò sfuggire un piccolo sorriso e
cominciò a camminare lungo la navata, le dita che
accarezzavano
i petali delle gerbere.
«Be’,
mettiamola così»
iniziò, dopo che ebbero percorso un bel tratto.
«Penso d’avere
un debole per i bei tenebrosi».
«Non sono persone con cui è facile avere a che
fare»
ribatté, però, lui, fermandosi
all’improvviso, una
sottile nota di rimpianto nella voce. Si sentiva parte integrante della
categoria, non tanto per il “bello”, quanto
più per
il “tenebroso”, consapevole di avere un carattere
fatto
più di ombre, che di luci, esattamente come un quadro di
Caravaggio.
Senza smettere di solleticare i fiori, la ragazza si arrestò
a
sua volta, rivolgendogli un’intensa occhiata indagatrice.
«A volte, però, vale la pena provare, non credi?»
gli domandò, con una punta di dolcezza.
«Be’,
sì, però... » le rispose, non del tutto
sicuro. In
quel frangente, una piccola comitiva di turisti francese si frappose
tra di loro, interrompendo il contatto visivo. Quando anche
l’ultimo fu passato, scusandosi con Marcello in uno stentato
italiano, il giovane si rese conto che Beatrice, passando da un quadro
all’altro, era quasi giunta all’abside. In
confronto alla
maestosa architettura, la figura di lei sembrava ancora più
piccola, ma i capelli rossi e i fiori arancioni che teneva in mano le
permettevano di risaltare sullo sfondo e non fondersi nemmeno con la
massa scomposta dei turisti, come se appartenesse ad una dimesnsione a
sé. Fu allora che il ragazzo decise che voleva provare.
Animato da un nuovo proposito, la raggiunse in appena una manciata di
secondi e, quando le fu accanto, le chiese: «Beatrice...
ti piacerebbe visitare la Cappella
Sistina?»
Meravigliata dalla proposta, la ragazza si voltò verso di
lui e lo fissò a lungo, la bocca semi-aperta.
«La Cappella Sistina?
Quella Cappella
Sistina?»
«Sì,
direi che è proprio quella»
le confermò, sorridendo di fronte a quel genuino stupore.
«Hai detto che ti piace anche Buonarroti, credo sarebbe
bello, per te, vedere i suoi affreschi lì conservati. Che
cosa
ne
dici?»
Bastarono
quelle poche parole per renderla assolutamente raggiante, da sembrare
quasi rischiarare le penombra che li circondava.
«Oh,
ma certo!»
esclamò. «Però,
che io
sappia, non l’è
facile riuscire a vederla».
«In
realtà non è così impossibile. Basta
prenotarsi per tempo» osservò
Marcello.
«Se chiamo subito, dovrebbero darci
l’opportunità
di visitarla sotto Natale. Saresti d’accordo?»
L’espressione di pura gioia che si leggeva sul volto di
Beatrice rispose per lei.
Nonostante le ripetute opposizioni di Beatrice, che temeva di
disturbarlo, il giovane
insistette per accompagnarla a casa. Infatti, non avrebbe mai
lasciato una ragazza da sola per strada, per giunta
all’imbrunire, senza contare che non gli dispiaceva
trascorrere
un altro po’ di tempo in sua compagnia.
Il clima mite offrì loro una piacevole passeggiata, durante
la
quale Marcello poté studiare meglio Beatrice e
l’entusiasmo che l’animava quando parlava di opere
e
artisti: sembrava immergersi in un mondo tutto suo, dove
l’arte
diventava specchio e memoria di tutti i comportamenti umani, positivi o
negativi che fossero. Lui l’ascoltava con interesse, colpito
dalla sua preparazione e scoprendosi desideroso di sapere di
più
su quell’universo a cui, chissà per quale ragione,
non
aveva mai dedicato l’attenzione che meritava.
«Ti
dispiace
se ci salutiamo qui?» chiese la ragazza, quando ad un
centinaio di passi dalla
villa, lanciando un’occhiata sospettosa in direzione delle
finestre del secondo piano.
«C’è
forse qualche problema?» domandò il giovane,
vagamente sorpreso.
«Non vorrei che la mia cugina ci
vedesse: ha
la brutta abitudine di spiarmi» rispose lei, diventando cupa.
«Potrebbe farmi domande scomode».
Quel
comportamento gli ricordò immediatamente quello che aveva
spesso
Tiberio con lui, pertanto il ragazzo si limitò a farle un
solidale cenno d’assenso.
«Ehm...
per la Sistina...
ti fai sentire tu?» gli
chiese poi Beatrice, quasi sottovoce, torcendosi una ciocca ramata,
senza smettere di gettare alla villa sguardi circospetti. Forse,
rifletté Marcello, quella ragazza viveva in una condizione
perfino peggiore della sua.
«Ovviamente.
Non appena saprò qualcosa, te lo farò
sapere» le disse, con dolcezza. «Mi
lasci il tuo numero o anche il telefono è sotto
sorveglianza?» le chiese poi, con una punta di
curiosità.
Il giovane voleva cercare di capire quanta libertà avesse,
poiché, da ciò che aveva visto e sentito fino a
quel
momento, non gli sembrava che Beatrice vivesse in una famiglia molto
permissiva. Il profondo sospiro al quale lei si abbandonò
subito
dopo gli confermò quell’intuizione.
«Se chiami di mercoledì
mattina, ti risponderò io con
certezza.
Non c’è nessuno in quel momento, sono
sola» gli rispose, stringendo le spalle.
Marcello, allora, prese dalla tasca interna della giacca la
sua agendina e si frugò in quelle laterali per trovare una
penna, per poi porgere entrambe alla giovane.
Dopo
che lei gliele ebbe restituite, il ragazzo fece per
rimettere tutto a posto, perciò non si accorse di quanto
Beatrice gli si
fosse avvicinata. Fulminea, quella si alzò in punta di piedi
e gli
diede un leggerissimo bacio sulla guancia, lasciandolo un po’
disorientato.
«Grazie, Marcello. Per il
pomeriggio, per le gerbere...
per tutto» gli sussurrò, arrossendo appena sulle
guance,
prima di correre via, i lunghi capelli ramati che danzavano
nell’aria.
Per qualche istante, Marcello rimase immobile, portandosi
inconsciamente le dita nel punto che Beatrice gli aveva sfiorato con le
labbra.
Poteva quasi di sentirne ancora il calore.
***
Piena d’entusiasmo per il pomeriggio appena trascorso,
Beatrice
entrò in casa canticchiando, certa che se Anna Laura avesse
saputo con chi era uscita, certamente sarebbe
morta d’invidia.
Aveva appena cominciato a salire le scale con passo quasi saltellante,
quando
incrociò Guido che, tutto contento, scendeva di corsa.
Fisicamente non aveva molto in comune con lei: né bello,
né brutto, era scuro di capelli,
con gli occhi grigi e il viso affilato che non suscitava nemmeno un
minimo
della dolcezza che, invece, trapelava da quello della sorella. Il suo
fascino, poi, era abbastanza discutibile; ciononostante, per un motivo
o per un altro, era sempre attorniato da belle ragazze.
«Ciao,
Cicci. Come
mai sei così
felice?»
tubò, rivolto a Beatrice.
«Niente
di che. Ho
solo trovato queste belle gerbere
e dei bottoni perfetti per il mi’
vestito nuovo»
gli rispose Beatrice, sbrigativa, superandolo.
«Ah,
ragazza spensierata! Pensi ai ffiori
e ai tuo’
vestiti nuovi! Meno male che
ci son io a
lavorare per te».
Sorpresa da quell’affermazione, la ragazza si
bloccò a metà della rampa, voltandosi verso di
lui.
«Per
me?» ripeté, corrugando la fronte. «E cosa mai avrai
fatto di così
eccezionale, Guido?»
«Cicci,
ho messo a posto tutto e ho rimediato al tuo pasticcio
dell’altra
sera!»
esordì il giovane, sottolineando
l’eccezionalità dell’evento con un ampio
gesto del braccio. «Adesso l’è
sufficiente solo che
tu dica una
data!
Possibilmente entro i prossimi tre mesi. Sai, prima ti decidi e meglio
sarà. Magari, potrei spillargli ancora
qualche
altra lira...»
«Scusa, Guido, una
data per cosa?»
«Ma come per cosa! Ragazza
sbadata, ma è ovvio, per le tu’ nozze
con Conrado de
Navarra!»
***
La revisione di questo capitolo
non è stata editata.
La grafica del tititolo è opera mia.
Un grazie speciale va anche alla mia Anto che collabora
sempre con entusiasmo.
***
Anche questo capitolo
è stato riscritto, per renderlo più fluido e
concorde con i successivi.
Halley
S. C.
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