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Autore: Halley Silver Comet    15/02/2013    23 recensioni
Sullo sfondo degli eclettici Anni ’80 si intrecciano fiaba e realtà, traffici illeciti e misteri, pregiudizi e desideri di libertà, mettendo alla prova i quattro protagonisti.
Ci sarà ancora tempo per il tanto sospirato lieto fine?
Il ragazzo buttò fuori l’aria tutta insieme, mandando al diavolo i suoi buoni propositi di seguire i consigli della meditazione orientale o qualsiasi cosa fosse.
«Buongiorno a te, Vittoria».
Stropicciandosi gli occhi, la nuova arrivata si avvicinò al tavolo e si sedette di fronte a lui.
«Ti ho disturbato?» domandò, reprimendo faticosamente uno sbadiglio.
«No, figurati. Dubito che possa sentirmi più infastidito di così» sbottò il giovane, sarcastico: non ce l’aveva con l’amica, ma davvero cominciava a trovare insopportabile tutta quella scabrosa situazione.
A tale risposta, la sua interlocutrice lo fissò sorpresa, ma non aggiunse nulla, probabilmente intuendo l’inquietudine che lo logorava da dentro; ciononostante, Marcello un secondo più tardi si pentì di essersi rivolto a lei in quel modo poco gentile. In fondo, non era certo colpa di Vittoria se quello schifoso di Navarra aveva deciso di sequestrare Beatrice
.”
Genere: Commedia, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Vento dell'Ovest - Capitolo 2



- Capitolo Secondo -
Vento di Scoperte







Come ogni mattina, dopo essersi vestita e aver preparato la colazione per sé e per gli altri abitanti della casa, Beatrice si mise davanti al minuscolo specchio della sua stanzetta, per concedersi cinque minuti solo per lei, dedicandosi ad un piccolo ma irrinunciabile rituale, che le ricordava uno dei rari momenti di felicità che aveva condiviso con sua madre Elena finché era stata viva: spazzolarsi con cura i lunghi, fulvi e ondulati capelli.
Negli ultimi tempi, però, aveva avuto sempre meno tempo a disposizione per farlo, poiché, ogni giorno che passava, la zia Assunta e la cugina Anna Laura le assegnavano sempre più faccende da sbrigare, con la scusa che lei e suo fratello erano ospiti a casa loro e per questo andavano ripagate per la loro incredibile generosità.
Per quanto potesse essere considerato generoso aver relegato la ragazza in una stanzetta che, fino a qualche mese prima, era stata una stireria: piccola e angusta, fornita solo di un lettuccio, un armadio fatiscente ed un tavolino tarlato posto sotto ad una finestrella che dava ad ovest, garantendo un po di luce solo nelle prime ore del pomeriggio.
L
unico lusso concesso alla ragazza era stato il permesso di tenere con sé un paravento in seta persiana appartenuto alla bisnonna, ora chiuso e addossato alla parete, e la macchina per cucire di sua madre, uno degli ultimi acquisti fatti prima che la famiglia finisse in bancarotta e fosse costretta a chiedere asilo a parenti poco disposti ad offrirglielo.
Infatti, nonostante conoscesse bene l’indole meschina di sua sorella Assunta, Lapo Tolomei aveva messo da parte l’orgoglio
e l’aveva supplicata di accogliere in casa i suoi figli, almeno finché non fosse riuscito a vendere tutte le proprietà e ricavare il denaro necessario a saldare i debiti di gioco di Guido. La donna, vedova da lunga data, aveva acconsentito malvolentieri, non tollerando né la condotta dissoluta del nipote, né che Beatrice eclissasse la cugina con la sua bellezza fresca e genuina.
Per diverso tempo, la ragazza aveva sperato che il babbo tornasse e li riportasse a Firenze, nella loro bella casa nei pressi della chiesa di Santa Maria del Fiore, ma le cose non erano andate come avrebbe desiderato: il dispiacere d
aver venduto la villetta allArgentario e la casa fiorentina, nella quale si era spenta sua moglie, avevano dilaniato e consumato Lapo, tanto da portarlo alla morte senza nemmeno avere occasione di vedere i suoi figli per l’ultima volta. E così, nel giro di un mese, Beatrice si era ritrovata sola, con un fratello maggiore pressoché assente ed una zia e una cugina che la odiavano e la rimproveravano per qualsiasi cosa.
Come se ciò non bastasse, avendo passato da un pezzo l’età dell’istruzione obbligatoria, le parenti le avevano impedito persino di andare a scuola, insistendo che avrebbe potuto investire meglio il suo tempo nelle faccende domestiche. Per fortuna della giovane, era però intervenuto il professor Rossiglione, amico di vecchia data di suo padre, che si era offerto di farle da insegnante senza percepire nessun compenso, contando di portarla alla maturità da privatista.

Improvvisamente, gli schiamazzi di Anna Laura che litigava con sua madre - quel giorno, per sua sfortuna, si erano svegliate prima del solito - provenienti dal piano inferiore, riscossero Beatrice dai suoi pensieri, ricordandole i suoi doveri di sguattera. Così, dopo aver raccolto i suoi capelli in una treccia, si vestì e si affrettò a riordinare la sua stanza, lasciando che la brezza mattutina rinfrescasse l
aria di quel piccolo cubicolo. Fu indecisa se scendere o meno a preparare la colazione a Guido, anche se poi decise di no: laveva sentito distintamente rientrare intorno alle quattro del mattino, ubriaco fradicio, che cantava una canzonaccia, pertanto fu certa che quello stesse ancora dormendo come un sasso.
Mentre cercava di dare un aspetto dignitoso al suo letto sconquassato, la ragazza sospirò: aveva sempre perdonato a suo fratello qualunque guaio combinato, ma chiederle di scusarlo per aver autorizzato quel viscido essere di Conrado de Navarra a provarci con lei, per giunta in quel modo rozzo, era decisamente troppo. Quando Guido le aveva ordinato di essere carina con quel troglodita, Beatrice aveva pensato che scherzasse, per poi ricredersi nello stesso momento in cui
quello aveva casualmente infilato le sue manacce nella scollatura e sotto la gonna. Al solo ricordo, le salì un misto di rabbia e nausea che si accentuò quando lo sguardo le cadde sull’abito lilla, adagiato sulla poltroncina e ormai era completamente rovinato. E dire che ci aveva messo due mesi per confezionarlo, non avendo così nemmeno il tempo per cercare un modello per il cappotto nuovo, ed ora era da buttare!
Sbuffando, stava per uscire dalla stanza già preparandosi mentalmente all’arringa che le avrebbe rivolto Anna Laura per il suo ritardo, quando
intravide il soprabito nero che sbucava dall’anta semiaperta dell’armadio. Magari, se si fosse organizzata, avrebbe potuto portarlo in lavanderia, così da restituirlo a Marcello lavato e stirato a dovere: era davvero il minimo dopo che lui era stato così gentile con lei. Mentre imboccava le scale, al ricordo del misterioso, affascinante giovane che l’aveva aiutata e alla prospettiva di un pomeriggio da passare insieme, un sorriso le affiorò sulle labbra e il suo malumore fu presto mitigato, dandole la forza necessaria ad affrontare i due cerberi che l’aspettavano di sotto.

Non appena Beatrice varcò la soglia della cucina, si trovò davanti Anna Laura che sorseggiava una mistura dall’odore nauseabondo, sfogliando l’ultimo numero di una delle sue riviste scandalistiche preferite e segnando con una crocetta le foto di attori e cantanti che avrebbe ritagliato in un secondo momento.
«Buongiorno Anna Laura» la salutò, sforzandosi di non tapparsi il naso e chiedendosi chissà quale altro intruglio miracoloso avesse comprato la cugina, che aveva una particolare tendenza ad abboccare a qualsiasi televendita che promuoveva bizzarri prodotti che assicuravano un fisico da top model. Non che fosse in carne, ma i promotori erano così convincenti da essere certa che il suo corpo avrebbe comunque ottenuto qualche beneficio. Fossero anche solo capelli più splendenti e voluminosi, invece del suo ordinario caschetto opaco e floscio.
«Alla buon ora!» esordì quella, acida, agitando pericolosamente la mano che reggeva la tazza e aspergendo ancor di più il tanfo in aria. «La contessina ha riposato abbastanza?»
Beatrice si morse la lingua inghiottendo tutti gli improperi che stava elaborando, visto che non aveva alcuna intenzione di farsi perforare i timpani dagli strilli acuti della cugina, che, invece, si divertiva a provocarla di proposito, tirando in ballo le sue lontane origini nobiliari da parte di madre e contrapponendole alla condizione di semi-schiavitù in cui era ridotta. Come se non fosse ovvio che, sotto sotto, Anna Laura avrebbe tanto voluto lei essere la figlia di una qualche contessa. In fondo, anche se i titoli nobiliari non avevano più alcun valore, avrebbe potuto comunque vantarsi e sentirsi superiore rispetto a tutte le sue amiche.
«Dov’è la zia?» chiese, invece, la ragazza, rendendosi conto solo in quel momento che non si era aggiunta nessuna seconda voce ostile.
Dopo averle riservato un’occhiata di sufficienza, l’altra non si lasciò certo sfuggire l’occasione per darle addosso e le spiegò, perfida: «Aveva delle commissioni urgenti da fare ed è uscita. Quando torna dovrai sorbirti i suoi rimproveri per non averle fatto trovare la colazione pronta!»
«Ma un vi siete alzate un po’ prestino, stamani? Poltrite sempre fin’ alle dieci!» borbottò Beatrice, non troppo forte perché la sentisse, ma abbastanza da concedersi un piccolo sfogo. Ripetere quelle parole soltanto nella sua testa non le avrebbe dato la stessa soddisfazione.
Con la coda dell’occhio si assicurò che Anna Laura avesse ricominciato a leggere, smettendo quindi di infastidirla, e cominciò a darsi da fare per preparare la spremuta per lei e il latte e cereali per sé. Tuttavia, la quiete durò solo una manciata di minuti, prima che la cugina riprendesse a punzecchiarla: «Come è stata la festa di quell’oca di Maria Luisa? Non molto divertente, se sei tornata prima di tuo fratello... Credo di aver fatto proprio bene a non voler venire».
«Guido mi ci ha trascinata. Lo sai che non lera possibile dirgli di no» rispose Beatrice, dopo lunghi attimi di silenzio, decisa a tagliare corto.
Anna Laura, però, voleva sicuramente saperne di più, poiché insistette: «È stato quel maniaco di Navarra a strapparti il vestito?»
Stizzita, la ragazza smise di tagliare in due le arance e si voltò quel tanto che bastava a lanciarle un’occhiataccia, certa che, al suo ritorno a casa, la cugina l’avesse spiata prima dalla finestra e poi dal corridoio, come faceva ogni volta. 

«Secondo te?» le chiese, imprimendo in quelle due parole tutta la collera che avvertì in quel momento e chiedendosi come si potesse essere così perfidi da compiacersi delle disgrazie che da un anno continuavano a caderle addosso, una dopo l’altra. Da brava pettegola e abile spiona, anche Anna Laura era al corrente della corte, autorizzata da Guido, che Navarra stava facendo a Beatrice. Sempre che si potessero considerare tali le sconce e rozze attenzioni che lo spagnolo le rivolgeva.

«Ho solo tirato ad indovinare» commentò l’altra, con una pigra alzata di spalle e un ghigno che sottolineava tutto il suo divertimento. «Però, in qualche modo devei essertene liberata, visto che sei tornata con un altro. Magari, è stato proprio lui ad aiutati con Navarra».
Quell’osservazione così precisa lasciò Beatrice interdetta e le fece sospettare che, in realtà, alla festa fosse stato presente un qualche informatore fidato della cugina, ma le bastò ascoltare ciò che quella aggiunse dopo per dissipare ogni dubbio:
«Povera Bea, sei passata da quel cinghiale spagnolo ad un pivellino sfigato... dalla padella alla brace!»
Confusa, la ragazza rimase a fissare a bocca aperta la cugina, che ricambiava malignamente lo sguardo, non capendo dove volesse andare a parare. Almeno finché il ricordo di Marcello non si materializzò nitidamente nella sua memoria.
«Veramente...» cominciò a dire, incerta, prima di venire zittita bruscamente da un gesto dall’altra.
«Solo uno sfigato non ha unauto per riaccompagnare a casa una ragazza» sentenziò con sicurezza Anna Laura, mostrandosi piuttosto compiaciuta di quella sua personale convinzione. «Vi ho visto dalla finestra della mia camera, siete tornati a piedi».
Tremando da capo a piedi per la rabbia e l’indignazione, Beatrice mise definitivamente da parte le arance si preparò ad intimare alla cugina di farsi gli affari suo, ma quella non glielo permise, perché riattaccò con tono fastidiosamente cantilenante:
«Scommetto che era pure acneico! Ah, povera Bea che non ha mai fortuna con gli uomini, devi essere davvero disperata per essergli corsa dietro. Speravi forse in un bacio della buonanotte?»
«A me non l’è sembrato uno sfigato» puntualizzò la ragazza, con uno scatto nervoso della testa. «È stato molto gentile ed educato. E poi, non l’è affatto acneico!» 
L’altra, però, dovette trovare molto divertente la sua reazione, poiché scoppiò in una risata così fragorosa da scuoterla tutta.
«Ah, ah, ah! Sei davvero patetica!» la schernì, tamponandosi le lacrime con il dorso della mano. «Come puoi credere che...»
«Non son una bugiarda!» la zittì Beatrice, il volto arrossato e le orecchie che le ronzavano per la rabbia. «Marcello l’è un gentiluomo e anche un bel giovane! Lui l’è... sul tu’ giornale?!»
Quella rivelazione stupì entrambe al punto che un verso strozzato pose fine alla risata di Anna Laura e nella cucina calò un silenzio di piombo.
«Che cosa hai detto?» gracidò quest’ultima, pallida e sconvolta, spostando di continuo lo sguardo dalla cugina alla pagina completamente crocettata. Tuttavia, Beatrice ammutolì, troppo turbata dalle foto del ragazzo che aveva notato solo allora: non leggeva mai le riviste che circolavano in casa, pertanto ignorava sia che Marcello fosse così famoso. Per giunta, non avrebbe mai creduto che godesse di una tale popolarità da essere immortalato tra gli scatti di certi giornali. Chi era davvero, allora? Un attore di fotoromanzi o forse un cantante di una band emergente?
«Che stupidaggini ti stai inventando, piccola stupida?»
Quell’insulto immeritato la riscosse immediatamente, costringendola ad abbandonare le sue riflessioni per difendersi.
«Un mi sto inventando nulla, l’è tutto vero!»
«Smettila!» strillò Anna Laura, zittendola all’istante, gli occhi fuori dalle orbite e le guance, sempre mortalmente pallide, tinte di una orribile sfumatura violacea. «Sul serio speri che io creda che Marcello Gentilini ti abbia riaccompagnata a casa?!»
«Sì, percl’era Marcello!» ribatté Beatrice, con tono ancor più rabbioso. «Ieri ssera m’ha detto lui stesso come si chiamava!»
A quel punto, tacquero entrambe, squadrandosi in cagnesco.
«Tu vaneggi!»
decretò, infine, la cugina, alzandosi dalla sedia e cominciando a camminare su e giù per la stanza. Percorse l’intero perimetro almeno un paio di volte, gli occhi fissi sul pavimento mormorando tra sé parole incomprensibili, per poi lanciarsi in un appassionato monologo: «Non è assolutamente possibile che Gentilini si sia interessato ad una sciacquetta come te! Tu non lo sai, ma è uno dei più giovani e più scaltri imprenditori della città, schifosamente ricco e maledettamente bello. Forse si tratta dello scapolo più ambito di tutta Roma, quasi impossibile da avvicinare, figurati parlargli!»
Fece una breve pausa per riprendere fiato e concluse con un misto di abbattimento e irritazione: «Peccato che sia un gran misogino e guardi dall’alto in basso le donne come se fossero spazzatura! Frequenta solo quella gatta morta di Vittoria Farnese e davvero non so cosa ci trovi in lei di tanto speciale...»
Da tutto quel fiume di parole che l’aveva investita, Beatrice aveva capito due cose importanti: Marcello non era un personaggio dello spettacolo, ma comunque un uomo di successo, e sua cugina Anna Laura aveva un evidente debole per lui. Inoltre, il ritratto che aveva appena sentito non coincideva affatto con l’impressione che le aveva dato il ragazzo la sera precedente. Ciononostante, si guardò bene dall’insistere, o peggio rivelare che aveva un appuntamento con lui in settimana. 

«Be’, direi che abbiamo chiarito la questione» commentò improvvisamente Anna Laura, richiudendo le riviste e stringendosele al petto. «Quando avrai finito, portami tutto di sopra, ho deciso che voglio fare colazione in camera!» annunciò poi, con uno sdegnoso cenno del capo.
In risposta, Beatrice si chiuse in un determinato mutismo e strinse appena i pugni, ben consapevole che quel capriccio era la sua punizione per aver detto una verità che la cugina non voleva riconoscere. Eppure, si ritrovò a riflettere qualche istante più tardi, forse era meglio non essere stata creduta, almeno nessuno le avrebbe impedito di uscire quel martedì pomeriggio. Improvvisamente, sentì crescere in lei una gran curiosità di capire davvero chi fosse Marcello, se il giovane buono e disponibile che l’aveva aiutata o il freddo e distaccato uomo d’affari che aveva dipinto Anna Laura. 

Mentre tornava ad occuparsi delle arance, recuperando il coltello che aveva lasciato incuneato in una di esse, la ragazza rivolse distrattamente lo sguardo oltre la porta della cucina, in direzione delle scale, dove notò una scena a metà tra l’esilarante e il grottesco: sua cugina intenta a sbaciucchiarsi avidamente un ritaglio di giornale. Scuotendo la testa, Beatrice si rimese al lavoro, chiedendosi con un sorrisetto chi tra le due fosse davvero la più patetica.
***

Quando Marcello richiuse le pagine del quotidiano, subito si sollevò l’odore familiare e pungente dell’inchiostro, che costrinse il giovane ad arricciare le labbra in una smorfia di disgusto. Deluso dall’assenza di una qualche notizia che annunciasse l’arresto di Navarra, gettò il giornale sul divano, il più lontano possibile da lui, per poi accomodarsi sulla poltrona, con l’intenzione di dedicare due o tre ore al libro che aveva lasciato in sospeso, circondato da file e file di volumi che riempivano il rilassante silenzio della biblioteca. In quel momento, dalla finestra appena socchiusa, proveniva il melodioso cinguettio degli uccellini appollaiati sugli alberi limitrofi e, di tanto in tanto, un piacevole soffio del vento di inizio autunno.
Decisamente, era il suo nascondiglio preferito, una delle poche stanze in cui Tiberio, quando veniva a trovare i genitori, non riteneva degna di essere ispezionata. Non appena il giovane aveva visto la macchina del fratello parcheggiata nel piazzale, aveva deciso che avrebbe trascorso il resto del pomeriggio lì dentro, chiedendo alla governante di non far entrare nessuno.
Tuttavia, Marcello ben presto dovette cambiare i suoi programmi, poiché aveva appena appoggiato il segnalibro sul tavolino, quando Vittoria e la sua esuberanza irruppero nella stanza.
«Ciao, Marcellino!» esclamò, gaia, facendo capolino dalla porta.
Non aspettandosi una sua visita così improvvisa, il ragazzo sobbalzò e la fissò qualche secondo, prima di borbottare: «Meno male che avevo detto ad Ottavia di non voler essere disturbato!»
«Sì, me l’ha detto» lo rassicurò lei, veleggiando verso di lui con un sorrisetto sornione, «ma io sono tua amica e per me certe regole non valgono, lo sai».
Istintivamente, Marcello alzò gli occhi al cielo, facendo subito scoppiare a ridere l’altra che, senza indugiare, si accomodò sulla poltrona accanto. A quel punto, avendo capito che i suoi programmi di lettura dovevano essere rinviati, il ragazzo mise via il libro ed accavallò le gambe.
«Come mai sei venuta? C’è qualcosa che non va, per caso?» le chiese, non senza averla prima scrutata attentamente. Infatti, conosceva Vittoria da troppo tempo per non sospettare che, dietro il suo avviso improvviso, si nascondesse qualcosa: fin da bambina, non aveva mai esitato a correre da lui quando aveva un problema.
«Be’, ecco...» iniziò lei, incerta, diventando improvvisamente triste. «A dire il vero, volevo scusarmi con te per essere andata via dalla festa di Maria Luisa senza preavviso e, soprattutto, senza averti salutato».
Perplesso, Marcello corrugò la fronte, stupito da quell’aria fin troppo dimessa per una come Vittoria. In quel momento, gli tornò alla mente la breve discussione avuta con Gerardo e si chiese se l’altra avesse già parlato con lui per fare pace.
«Non preoccuparti, non me la sono presa. Invece, credo che Gerardo ci sia rimasto abbastanza male» commentò, sondando il terreno. Ogni volta che quei due discutevano, si trovava sempre nella scomoda posizione dell’intermediario che doveva stare molto attento a ciò che diceva dell’uno all’altra. 
Mettendo su un cipiglio abbastanza allarmante, l’amica posò lo sguardo su di lui e si sfregò le labbra. 
«Ti ha detto che abbiamo litigato, vero?» domandò, tradendo una certa apprensione.
«Sì, sabato sera stesso» le riferì Marcello, lieto di non dover ricorrere a chissà che giri di parole per farle capire che era a conoscenza dei retroscena. «Ieri mattina mi ha telefonato per dirmi che si sarebbe preso un paio di giorni di ferie. Sembrava ancora piuttosto provato».
«Non è venuto al lavoro..?»
In risposta, il ragazzo si limitò a scuotere brevemente la testa e Vittoria si incupì ancora di più.
«Per caso, ti ha detto anche perché abbiamo litigato?» si informò quest’ultima, con fare circospetto.
«No. Gliel’ho chiesto, ma non mi ha risposto».
Immediatamente, sugli occhi della giovane passò un’ombra di tristezzacosì intensa che Marcello temette fosse successo qualcosa di irreparabile. Stava quasi per chiederle se andasse tutto bene, quando quella attaccò, con una vena di incertezza nella voce: «Be’, ecco... è cominciato tutto per colpa mia».
Si fermò un attimo, per attendere un cenno ad andare avanti da parte del suo interlocutore e, dopo che lo ebbe ottenuto, proseguì: «Vedi, a Gerardo piace Maria Luisa e... No, non fare quella faccia! Davvero non te ne sei mai accorto?»
«Ad essere sincero, no» ammise il giovane, perplesso e sorpreso dalla rivelazione. Si ritrovò allora a considerare che, a conti fatti, non era la prima volta che ignorava una qualche trama amorosa che si intrecciava sotto i suoi occhi. Solo, lo stupì che, in quel caso, si trattasse dell’amico che conosceva da praticamente una vita; tuttavia, era anche vero che Gerardo non gli aveva mai confidato nulla riguardo i suoi innamoramenti, mentre, al contrario, Vittoria gli parlava dei suoi ancor prima che se ne rendesse conto lei stessa.
«Sei sempre il solito» sbuffò la ragazza, tradendo però un sorriso, riportandolo a concentrarsi sulla conversazione. «Comunque, stavo dicendo: a lui piace lei, ma a lei, come ben sai, interessi tu, quindi gli ho solo consigliato di lasciar perdere quella vacca che non lo merita».
Nell’udire quella definizione, Marcello aggrottò le sopracciglia, stupito.
«Gli hai detto proprio così?»
«Le parole non erano queste, ma il senso sì» tagliò corto l’altra, togliendosi i capelli dal viso con un gesto seccato.
«Vittoria, non è da te usare insulti... sessisti» osservò il ragazzo, ponderando bene le parole. C’era qualcosa in tutto quel discorso che non quadrava, come se l’amica gli stesse nascondendo qualcosa di importante, e Marcello lo percepiva non tanto dalle sue parole, quanto più dai piccoli scatti nervosi del corpo o dalle eccessive pause che stava mettendo nel racconto.
«Sì, hai ragione, ma in questo caso sono costretta ad andare contro i miei stessi principi»
puntualizzò Vittoria, lapidaria. «Gerardo non ha tutti i torti ad essersela presa, però, vedi, io volevo solo fargli capire che sbaglia a sottovalutarsi. Non può sottomettersi ad una che lo tratterebbe come uno zerbino».
«Su questo mi trovi pienamente concorde. Gerardo è davvero troppo modesto» approvò il giovane, ben consapevole della scarsa autostima dell’amico, quando, invece, era davvero una persona eccezionale.
«E dovrebbe cercarsi una ragazza che possa apprezzare davvero tutte le sue innumerevoli qualità» rincarò con decisione la ragazza, incrociando le braccia sul petto e abbandonandosi contro lo schienale della poltrona. «Se solo si girasse un po’ intorno...» aggiunse dopo qualche secondo, sottovoce, forse diretta più a se stessa che a lui.
Quella reticenza, però, non sfuggì a Marcello, anzi, lo illuminò perfino sulla possibilità che Vittoria stesse alludendo ad una qualche sua amica interessata a Gerardo. Tuttavia, c’era da dire che lei non sembrava molto contenta e questo gli parve piuttosto strano.
«Comunque, credo che stasera andrò da lui e gli chiederò di fare pace» concluse improvvisamente la giovane, dopo l’ennesima pausa, accompagnando le parole con un gran sospiro. A quel punto, il giovane arrivò alla conclusione che fosse semplicemente preoccupata che il loro amico potesse avercela ancora con lei, pertanto si sentì in dovere di confortarla.
«Mi sembra un’ottima idea» la incoraggiò, sorridendole. Poi, si alzò e le chiese: «Sto andando in cucina per una tazza di tè, ne preparo una anche per te?»
Subito, le labbra di Vittoria si incurvarono all’insù e un po’ di luce tornò a brillare nei suoi occhi.
«
Oh, sì. Molto volentieri» rispose, con la sua solita allegria. «Sai che non dico mai di no ad una tazza di tè. Vuoi una mano?»
«No, non preoccuparti, faccio subito» la rassicurò il ragazzo, già quasi arrivato alla porta.


Marcello gettò nella teiera due filtri di tè e rimase ad osservare l’acqua bollente che si tingeva di un tenue colore rossastro, assumendo tonalià più scure man mano che passava il tempo. Intanto, Vittoria si era protesa verso il vassoio, annusando l’aroma che si espandeva nell’aria, come faceva fin da quando era piccola.
«Leandro non mi manda mai abbastanza Earl Grey, lo finisco sempre prima che mi spedisca il pacco successivo» disse, lasciando che le si increspasse appena la fronte.
«Probabilmente, tuo fratello è d’accordo con me e pensa che tu sia abbastanza vivace, anche senza un abuso di teina».
Indispettita, la giovane riaprì di scatto gli occhi e indirizzò all’amico un’occhiataccia che, però, venne ignorata.
«
Due cucchiaini di zucchero e mezza fettina di limone. Giusto?» le chiese Marcello, versando cautamente il liquido fumante in due tazze di porcellana pregiatamente cesellata.
«Tu sì che mi conosci. Bartolomeo, invece, si ostina ad offrirmi il caffè!» sospirò Vittoria, tornando compostamente seduta sulla poltrona.
«Be’, sono vent’anni che ti sopporto. In fondo, Bartolomeo l’hai incontrato solo l’anno scorso» le fece notare il ragazzo, tra il serio e il divertito, guadagnandosi un’altra occhiata obliqua, mentre le porgeva la tazza. «A proposito, dove si trova in questo momento?»
Prima di rispondere, l’amica si perse ad ammirare gli sbuffi di vapore che stava esalando la sua bevanda, giocherellando pigramente con la fetta dell’agrume.
«Nelle Filippine. Ha detto che sta trovando molti soggetti interessanti per le opere da presentare alla sua prossima mostra» spiegò, con una piccola smorfia. Quel pomeriggio, sembrava essere turbata da gran parte degli argomenti che affrontavano quotidianamente, anche quando con loro c’era Gerardo. Infatti, si affrettò a cambiare discorso: «Che cosa stavi facendo prima che ti interrompessi?»
Marcello masticò lentamente il pasticcino di frolla al cacao e scaglie di cocco che si era appena ficcato in bocca, concedendosi un lungo istante per assaporarlo al meglio. Era tra i migliori che avesse mai mangiato e, più tardi, avrebbe sicuramente fatto i complimenti ad Annetta.
«Volevo concedermi un paio d’ore di lettura, prima di rimettermi a studiare in vista dell’imminente incontro con Lord Carter» le disse, tuffando di nuovo la mano nel piatto dei biscotti.
«Sono un po’ indietro. Io e Gerardo ci siamo divisi il materiale da passare in rassegna, così io mi sto occupando delle Sette Sorelle».
«Le Sette Sorelle? Ma non sono le compagnie petrolifere accusate dell’omicidio di Enrico Mattei? E Lord Carter non è il magnate che gestisce la maggior parte degli impianti idrocarburici del Mare del Nord?» domandò Vittoria, all’improvviso spaventata.
«Già, sono proprio loro e mi chiedo se mai si scoprirà cosa è successo davvero all’aereo di Mattei» fece Marcello, con una sconsolata alzata di spalle. «Per quanto riguarda Carter, hai ragione anche su di lui. Per ora, tutto ciò che sappiamo è che sta facendo la corte alla British Petroleum, partecipando per loro conto alla negoziazione per comprare la Britoil, ma non ci è chiaro che cosa voglia sul serio».
Impallidendo, la ragazza serrò le labbra e si appoggiò in grembo le mani, ancora strette intorno alla tazza.
«Sì, ho capito, ma cosa c’entrate voi con Lord Carter e le compagnie petrolifere? State pensando di comprare azioni o roba simile?»
A quel punto, il giovane prese la teiera e le fece segno all’amica se volesse dell’altro tè, ma quella mosse appena il capo, troppo concentrata su di lui; così Marcello riempì di nuovo solo la propria tazza.
«No, a dire il vero, è stato proprio Carter a contattarci, chiedendoci se volessimo partecipare ad un investimento per la costruzione di una nuova piattaforma per l’estrazione del petrolio» le illustrò, cercando di spiegare la faccenda con parole semplici. «Notevoli interessi assicurati, a suo parere».
Vittoria, invece, non sembrò dello stesso avviso, perché, non appena lui ebbe finito di parlare, subito scattò: «Marcello, so che questo non è il mio ambito e che non capisco nulla di borsa, petrolio o tassi di interesse, ma... se dicessi a te e Gerardo di lasciar perdere, c’è qualche speranza che mi ascoltereste?»
Vedendo che la ragazza sembrava davvero preoccupata per entrambi, Marcello pensò bene di rassicurarla.
«Tranquilla, non abbiamo ancora firmato niente» le disse, appoggiando una mano sulle sue, talmente serrate intorno alla porcellana che avrebbe potuto frantumarla da un momento all’altro. «Inoltre, stando alle nostre ricerche, Carter non ci sembra molto... onesto».
Dopo che le ebbe riferito ciò, il giovane avvertì la tensione di Vittoria ridursi di molto e ne fu sollevato, nonostante si sentì un po’ in colpa per averla fatta inquietare, quando, invece, avrebbe dovuto distrarla dai brutti pensieri che aveva e che, purtroppo, solo in parte aveva condiviso con lui. Ne era certo: come aveva già fatto Gerardo sabato scorso, anche lei gli stava nascondendo qualcosa, tuttavia sentiva che non aveva senso insistere, perciò pensò di passare a parlare di altro.
Gli venne in mente allora l’idea di chiedere all’amica qualche consiglio su cosa portare il martedì pomeriggio a Beatrice, non avendo intenzione di presentarsi a mani vuote. Sapeva che sarebbe stato rischioso mettere al corrente Vittoria della ragazza che aveva conosciuto alla festa, ma, si disse per convincersi, prima o poi lo sarebbe comunque venuto a sapere.
Quindi, preparandosi mentalmente all’interrogatorio che avrebbe subito di lì a breve, esordì: «Vedi, Vittoria, avrei bisogno di un consiglio, diciamo, per... una specie di appuntamento con una ragazza».
L’effetto di quelle parole fu immediato: l’amica drizzò la schiena e spalancò gli occhi, pieni di una curiosità che aspettava solo di essere soddisfatta.
«Chi è, la conosco? Come vi siete conosciuti? Quando sarebbe l’appuntamento?» chiese, senza prendere fiato tra una domanda e l’altra. Travolto da tutta quella esuberanza, Marcello sbatté le palpebre, sbilanciandosi leggermente all’indietro e addossandosi allo schienale della poltrona. Proprio in quell’istante, gli sembrò di aver sentito un rumore provenire dal giardino e si voltò istintivamente verso la finestra. Rimase in attesa, ma quello non si ripeté.
«Non credo tu la conosca, almeno non di persona» considerò, pensieroso, tornando a rivolgersi all’amica, che non sembrava aver notato nulla. «È la sorella di Guido Tolomei».
Non appena ebbe pronunciato quel nome, la giovane contrasse le labbra in una smorfia di disappunto.
«Davvero ha una sorella? Spero non sia come lui».
«Per niente! Anzi, non vedeva l’ora di andaresene da quella bolgia» rimarcò Marcello, secco, quasi offendendosi lui al posto di Beatrice. «Ci siamo scontrati mentre io scappavo da Maria Luisa e lei da Conrado de Navarra».
Per la seconda volta, Vittoria assunse un’espressione disgustata e, agitandosi sulla poltrona, esclamò: «Navarra?! Che cosa ci faceva alle festa di Maria Luisa? E perché ce l’aveva con questa ragazza?» Poi, si fermò un attimo, come se stesse riflettendo su un particolare fondamentale del quale non era ancora venuta a conoscenza e aggiunse:  «A proposito, lei come si chiama?»
«Potresti farmi domande delle quali so la risposta, per favore?» sbottò il giovane, esasperato, sollevandosi con uno scatto nervoso, anche se, alla fine, si rimise seduto. Avrebbe davvero voluto sottrarsi a quell’interrogatorio così accanito, ma poi si ricordò che ancora non aveva ricevuto alcun consiglio, quindi decise di restare dov’era.
«Quanto sei noioso, non sai mai niente di interessante» si lamentò l’altra, per nulla scomposta. «Almeno conosci il nome della tua nuova amica?»
«Si chiama Beatrice».
«Beatrice» ripeté Vittoria sottovoce, concentrata, come se potesse suggerirle qualcosa in più sulla ragazza. «Un bel nome. Sai, io credo che potresti banalmente portarle dei fiori, visto che non passano mai di moda».
«Fiori?» le fece eco il ragazzo, stupito di non averci pensato da solo.
«Be’
, se le piace cucinare, potresti anche optare per un mazzo di cime di rapa» lo punzecchiò l’amica, ridacchiando e prendendo un biscotto con la frutta candita, il primo in tutto il pomeriggio. «Possono tornare utili per un buon minestrone».
Subito, Marcello avvertì le guance avvampare per la stizza, ma non replicò, poiché aveva appena avuto la dimostrazione che Vittoria si era rasserenata al punto tale da esserle tornato l’appetito.
«Comunque, non è un appuntamento amoroso, andremo solo a vedere le opere di Caravaggio nella basilica di Sant’Agostino» ci tenne a precisare lui, rilassandosi a sua volta. «Mentre la riaccompagnavo a casa, mi ha raccontato che le manca molto Firenze, così ho pensato che fosse un gesto carino accompagnarla a visitare qualcosa che le interessa».
«Oh, ma io ho sempre saputo che, da qualche parte sotto quella scorza dura, si nascondeva un lato da tenerone» ribatté istantaneamente Vittoria, un sorriso sornione che andava da una parte all’altra del volto, servendosi un altro dolcetto.


Tra la chiome dei pini filtrava una calda luce aranciata che conferiva a tutto il giardino un particolare alone dorato, facendolo sembrare quasi un bosco degli elfi. Continuando a parlare, Marcello e Vittoria percorsero il viale acciottolato che attraversava una fitta e lussureggiante distesa d’erba fino ai cancelli della villa.
«Posso strapparti la promessa che mi racconterai tutto ciò che succederà con Beatrice?» chiese lei, speranzosa, quando passarono accanto ad una grande fontana circolare di marmo, decorata da graziose ninfee rosa.
«Come no» ribatté il giovane, sarcastico. «Ci sono già i giornalisti che, spesso e volentieri, se ne escono con domande inopportune sulla mia vita privata».
«Per questo hai deciso di rilasciare interviste solo a Il Sole 24 ORE e simili?».
«Esatto».
«Ma io non sono una giornalista, sono la tua migliore amica, quindi...»
Vittoria, però, non riuscì a terminare ciò che stava dicendo, perché venne stroncata dalla Matrona, che si era materializzata dal nulla, sbarrando loro la strada.
«Non avrai proprio un bel niente da raccontare, perché non andrai da nessuna parte!» sbraitò, all’indirizzo del figlio, senza degnare la ragazza nemmeno di una rapida occhiata. Inaspettatamente, da dietro di lei sbucò un sogghignante Tiberio, le gli occhi che brillavano di soddisfazione. Nonstante fossero fratelli, lui e Marcello avevano solo una vaga somiglianza fisica che sarebbe stata riscontrata solo da un osservatore molto attento. Tiberio, infatti, aveva ereditato la media statura, l’atteggiamento prevaricatore e le iridi color caramello della madre; invece, dal padre, solo i capelli castano scuro.
Quando se li trovò davanti sul sentiero, quasi come una bislacca parodia delle fiere dantesche, Marcello
impiegò il tempo di un battito di ciglia per superare la sorpresa iniziale e ricambiare l’occhiata ostile. Incrociò le braccia sul petto e, in tono di sfida, ribatté: «E con quale autorità credi di impedirmelo, mamma? Sai, ho passato i cinque anni da un pezzo, ormai».
«Taci, figlio ingrato!» lo zittì la signora Claudia, puntandogli contro un dito accusatorio. «Tiberio ha sentito cosa stai progettando di fare e mi ha raccontato tutto!»
«Che cos...?» cominciò il giovane, per poi bloccarsi subito. Pian piano, nella sua mente cominciò a farsi strada il sospetto che il rumore proveniente dal giardino che aveva sentito in biblioteca non fosse stato solo frutto della sua immaginazione; la conferma, però, arrivò quando notò il ghigno sulla faccia del fratello che si allargava a vista d’occhio.
«Come hai potuto mettere gli occhi sulla nipote di Assunta Tolomei!» sbraitò la Matrona, richiamando l’attenzione di Marcello e distogliendolo dall’istinto di avventarsi su quel traditore. «La loro è una famiglia disgraziata e, dopo tutto quelo che ho fatto per te, non puoi ripagarmi in questa maniera!»
Dunque, notò con disgusto Marcello, sua madre conosceva talmente bene gli appartenenti alla Roma bene, o sedicenti tali, da non risparmiare nemmeno la zia di Beatrice, chiunque lei fosse. In considerazione di ciò e seccato da quel tono querulo, infimo espediente che usava sempre sua madre quando voleva farlo sentire in colpa, il giovane decise di troncare quella inutile conversazione e di impiegare il suo tempo in maniera più proficua.
«Veramente, ho solo riaccompagnato a casa quella ragazza, non ci ho amoreggiato. E questo è tutto».
La signora Claudia, però, non doveva essere dello stesso parere. Infatti, contrasse il volto in una maschera di collera e, agitando i pugni all’aria, perseverò a portare avanti le sue argomentazioni.

«
Tu non hai idea di quello che ho passato, prima di arrivare qui,» gridò, agitando le braccia freneticamente le braccia, indicando tutto ciò che la circondava, tanto che il figlio si chiese se quell’avverbio si riferisse nello specifico a Villa Aurelia oppure alla posizione sociale che essa simboleggiava, «perché quando sei nato hai trovato la strada per il successo già spianata... da me! Io non ti permetterò di mandare all’aria i miei sacrifici!»
Contando fino a dieci per non espoldere, Marcello si voltò verso Vittoria che, nonostante non fosse certo la prima volta che assisteva alle terribili sceneggiate della Matrona, sembrava piuttosto in difficoltà per essersi trovata in mezzo a quella diatriba familiare. Senza contare, che sia Claudia, sia Tiberio avevano tranquillamente fatto finta di non vederla: anche insultarla, in quella circostanza, era di secondaria importanza.

«Mamma, mi sembra davvero che tu stia esagerando» tagliò corto il giovane, prendendo l’amica per un polso. «Ora, scusami, ma devo accompagnare Vittoria, che ha tutto il diritto di poter tornare a casa!»
Detto questo, la condusse via, superando la madre e sostando accanto al fratello il tempo per sussurrargli, a denti stretti: «Con te facciamo i conti dopo».
«A dire il vero, stavo tornando a casa da mia moglie e mie figlia. Se non ti spiace, possiamo fare un’altra volta, che ne dici?» lo sbeffeggiò quello, di rimando, alzando il mento con fare tronfio. In risposta, Marcello assottigliò lo sguardo e passò oltre, prima che il suo autocontrollo andasse a farsi benedire e cedesse alla voglia di tirare un pugno ben assestato a quella faccia da schiaffi.

Talmente era tanta la rabbia che aveva in corpo, che Marcello marciò fino al cancello senza dire una parola con le orecchie che fischiavano così intensamente da coprire quasi qualunque suono provenisse dall’esterno.
«Scusami per il penoso spettacolo di prima, ma questa casa assomiglia sempre di più ad un circo» disse infine a Vittoria, quando fu certo che i suoi parenti non potessero più sentirlo. Lei, però, scosse la testa.
«Non preoccuparti, tu non c’entri» lo rassicurò, facendo dondolare la borsetta che aveva tra le mani. «Sono anni che li conosco».
In quel momento, calò un silenzio teso, interrotto solo dai rombi e dai clacson delle automobili che trafficavano per la strada poco lontana. Era ormai arrivato il crepuscolo e con esso l’ora di punta.
«Mia madre non accetta che io ascolti i suoi consigli e che non faccia niente per compiacerla» sospirò il giovane, di punto in bianco, lo sguardo che vagava sul prugno ormai ingiallito oltre la spalla della ragazza. «Ma io ho già scelto il genitore da compiacere e non è lei».
Una delle bellezze di un’amicizia longeva e sincera come era quella che lo univa a Gerardo e Vittoria era la possibilità di parlare con loro liberamente, senza dover per forza mettere in piedi assurde giustificazioni al comportamento inopportuno di sua madre o di suo fratello. Poteva confidarsi con loro e ascoltare le loro opinioni, a volte molto illuminanti, come fu proprio quella che espresse la giovane poco dopo.
«Se mi permetti, secondo me, lei ti vede come il figlio davvero vincente, quindi si sente frustrata nel saperti così distaccato. Ecco perché si accanisce contro di te» gli disse, con dolcezza.
«Probabile che sia così, ma non può decidere al posto mio» replicò lui, risoluto. Era inammissibile che la Matrona, ad un passo dai venticinque anni, decidesse chi dovesse frequentare il figlio. Non gli dispiaceva rivedere Beatrice e di certo non si sarebbe lasciato fermare dalle paturnie di sua madre.
«Ci sentiamo domani?» gli domandò la ragazza, toccandogli appena una mano per richiamare la sua attenzione. Ridestato, spostò lo sguardo su di lei ed annuì.
«Be’, allora... buona fortuna con Gerardo. Sono certo che non ti chiuderà la porta in faccia, è troppo buono per farlo» le disse, incoraggiante, ricordandosi dei suoi piani per la serata. Rincuorata da quelle parole, mentre attraversava il cancello, Vittoria gli regalò un sorriso riconoscente.

***

Il pomeriggio del martedì successivo, Marcello si avviò di buon’ora verso la basilica di Sant’Agostino, tra le mani un piccolo omaggio floreale per Beatrice: un
discreto ed elegante mazzetto di gerbere bianche. Anche se non le aveva dato soddisfazione, doveva riconoscere che Vittoria gli aveva comunque dato un ottimo suggerimento.
Ovviamente, quando era uscito di casa, non aveva detto a nessuno dove stava andando, anche se, a giudicare dall’occhiata in cagnesco che gli aveva lanciato la madre quando le era passato davanti al naso, molto probabilmente lo aveva capito. Ciononostante, non aveva detto mezza parola, lasciando alla sua espressione indignata il compito di esprimere tutto il suo disappunto. 
L’idea di passare qualche ora con Beatrice gli aveva infuso una insolita serenità, poiché ricordava quanto era stato piacevole parlare con lei, seppur temeva avrebbe fatto qualche gaffe, dato che era la prima volta che usciva con una ragazza che non fosse Vittoria. Non aveva mai avuto molte occasioni di interloquire con le donne giovani, non perché non volesse scambiare opinioni con loro o perché le reputasse esseri inferiori, come qualche lingua malevola vociferava alle sue spalle, bensì perché non gli era mai capitato di conoscerne di veramente interessanti.  Nell’ambito lavorativo, infatti, aveva a che fare quasi eslcusivamente con altri uomini; la cerchia di persone che si trovava a frequentare alle feste o nel corso di un evento mondano, invece, era sempre piuttosto limitata e popolata per la maggior parte da soggetti come Ascanio Colonna o Maria Luisa Foscari. Non era un tipo molto socievole, questo lo riconosceva, per questo si era sempre fatto bastare Gerardo e Vittoria, qualche vecchio collega dell’università con cui era rimasto in contatto e alcuni dei ragazzi che frequentavano la palestra del signor Nardone.
Perso nelle sue riflessioni, Marcello svoltò meccanicamente l’angolo e si ritrovò in piazza Sant’Agostino, dove la bianca facciata dell’omonima chiesa, prendeva quasi tutta la visuale e, lì sotto, seduta su uno scalino, con lo sguardo rivolto verso il basso, scorse subito Beatrice. Indossava un leggero vestito blu notte e sulle spalle aveva poggiato un maglioncino sottile dello stesso colore; i capelli fulvi, particolare che lo aveva aiutato ad individuarla a colpo d’occhio, le ricadevano lunghi e sciolti ai lati del volto. Senza nemmeno accorgersene, il giovane sorrise e si avviò verso di lei.
«Buon pomeriggio, Beatrice» la salutò, quando le fu abbastanza vicino, domandandosi se fosse stato troppo formale.
Presa alla sprovvista, la ragazza alzò di scatto la testa, ma, quando lo riconobbe, gli sorrise a sua volta.
«Ciao Marcello. Son contenta che tu sia venuto». 
All’improvviso a corto di parole, non sapendo bene che cosa dire, il ragazzo decise di trarsi d’impaccio con una domanda neutra:
«Sono in ritardo, per caso?»
«No, no. Sono io che son venuta prima, visto che non m’andava di restare ancora in casa con la mia cugina» chiosò Beatrice, infastidita, arricciando il naso.
«Non andate d’accordo...?» le domandò lui, cercando di mantenersi sul vago. Sapeva davvero poco della sua famiglia e si augurò che ne avesse una migliore della sua, anche se bastava pensare a Guido per convincersi subito del contrario.
«Be’, l’è un po’... invadente, per uscire ho dovuto rifilarle una scusa» gli riferì la ragazza, lasciando intendere che il resto del parentando non era poi tanto migliore del fratello. «A proposito, mi spiace di non aver potuto portarti indietro il soprabito, ma m’ha tenuto d’occhio finché non son uscita».

Sembrava davvero dispiaciuta; tuttavia Marcello, che comprendeva bene la situazione, vivendone una simile in prima persona, la tranquillizzò: «Non importa, me lo ridarai un’altra volta. Intanto, posso usarne un altro».
In risposta, Beatrice accennò un sorriso di ringraziamento e si alzò dagli scalini, spolverandosi accuratamente la gonna dell’abito.

Mentre la osservava, il giovane avvertì la sensazione di avere qualcosa in mano e si ricordò del mazzetto di genziane.
«Mh, ecco... questi sono per te» le disse, offrendoglieli con un gesto un po’ impacciato.
Sorpresa, lei sollevò il capo e guardò prima i fiori, poi lui, le guance che si tinsero di un discreto rossore.
«Oh, grazie... Non avresti dovuto disturbarti!» si affrettò a dire. «Son bellissime, le gerbere son tra i mie’ fiori preferiti».
«Mi fa piacere» commentò lui, sollevato dalla notizia. Le aveva scelte perché gli erano sembrati dei fiori adatti ad una ragazza molto giovane, ma non avrebbe mai sperato che potessero piacerle fino a tal punto.
Per qualche istante, i due giovani rimasero in silenzio, poi, Marcello pensò che fosse carino fare la prima mossa ed invitarla ad entrare nella chiesa. D’altra parte, nonostante non fosse un veterano in ambito di appuntamenti con le ragazze, poteva sempre affidarsi al buon senso, di cui, per sua fortuna, non era sprovvisto. 
«Allora, vogliamo entrare?» le domandò gentilmente, mostrandole la via con un cenno del braccio. «Prego, dopo di te».
«Oh, certo» rispose la ragazza, stringendo i fiori tra le dita e precedendolo. Marcello la seguì, accorgendosi che stava sorridendo ancora una volta.

Gli interni, sfarzosi ma piuttosto cupi della basilica, così incontrasto con il pomeriggio assolato che si erano lasciati alle spalle, costrinsero i loro occhi ad impiegare un po’ di tempo prima di abituarsi alla penombra; tuttavia, quando si trovarono davanti alla Cappella Cavalletti, Marcello ammise a se stesso che, se non fosse passato per quella momentanea cecità, non avrebbe potuto capire fino in fondo la meraviglia di quel quadro.
Custodito tra due colonne di marmo, il capolavoro di Caravaggio destò subito l’interesse di Beatrice, che osservava il dipinto con reverenziale ammirazione. Ciò non sfuggì al giovane, il quale istintivamente tornò a rivolgere lo sguardo verso la tela ed ebbe la fugace, ma intensa sensazione che le figure avessero preso a muoversi: la Madonna teneva in braccio Gesù Bambino rivolto verso i pellegrini, scalcinati e stanchi, con i piedi visibilmente sporchi e gonfi, particolare che, all’epoca, aveva destato molto scandalo tra gli ecclesiastici. Erano così realisitici da sembrare vivi.
Nonostante Marcello non fosse un grande cultore della storia dell’arte, non avrebbe mai potuto negare l’atmosfera aulica che si respirava lì davanti.
«L’è qualcosa di meraviglioso» sussurrò Beatrice, persa nella contemplazione delle ombre sciolte dalla pennellata di luce caravaggesca. «Un’atmosfera unica. Lo sai come faceva il Merisi a dare quest’effetto?»
Interrompendo la contemplazione del quadro, il giovane si voltò verso di lei
e poi scosse con umiltà la testa: «No, in storia dell’arte sono un autentico ignorante, lo ammetto».
«Dipingeva con pennellate nere ed intense, per poi segnare con il manico del pennello i punti dove avrebbe disegnato i volti e i massimi punti di luce. Obbligava perfino i suo’ assistenti a tenere le fiaccole accese in determinate posizioni per avere il giusto effetto luminoso. Per lui, la luce era tutto» spiegò lei, con un sospiro ammirato, le iridi blu incollate al dipinto.
«In poche parole, era uno schiavista» commentò Marcello, alzando appena un sopracciglio.
«No» rise Beatrice, scuotendo la testa e serrando i fiori contro il petto, «solo un grande artista».
«Ti piace molto Caravaggio?»
«È il mi’ artista preferito. Una personalità affascinante, con tante luci ed ombre, esattamente come i suoi quadri».
Il giovane si concesse un’altra occhiata alla tela, prima di notare: «Ne parli davvero con tanto trasporto».
«Oh, sì. Un altro artista che amo, anche se non quanto il Merisi, è l’altro Michelangelo, il Buonarroti. Un’altra personalità burrascosa e controversa» gli spiegò la ragazza, facendo spallucce.
«Dunque, ti piacciono le persone difficili» replicò lui, accigliandosi.
Beatrice, però, si lascò sfuggire un piccolo sorriso e cominciò a camminare lungo la navata, le dita che accarezzavano i petali delle gerbere.
«
Be’, mettiamola così» iniziò, dopo che ebbero percorso un bel tratto. «Penso d’avere un debole per i bei tenebrosi».
«Non sono persone con cui è facile avere a che fare» ribatté, però, lui, fermandosi all’improvviso, una sottile nota di rimpianto nella voce. Si sentiva parte integrante della categoria, non tanto per il “bello”, quanto più per il “tenebroso”, consapevole di avere un carattere fatto più di ombre, che di luci, esattamente come un quadro di Caravaggio.
Senza smettere di solleticare i fiori, la ragazza si arrestò a sua volta, rivolgendogli un’intensa occhiata indagatrice.
«A volte, però, vale la pena provare, non credi?» gli domandò, con una punta di dolcezza.
«Be’, sì, però... » le rispose, non del tutto sicuro. In quel frangente, una piccola comitiva di turisti francese si frappose tra di loro, interrompendo il contatto visivo. Quando anche l’ultimo fu passato, scusandosi con Marcello in uno stentato italiano, il giovane si rese conto che Beatrice, passando da un quadro all’altro, era quasi giunta all’abside. In confronto alla maestosa architettura, la figura di lei sembrava ancora più piccola, ma i capelli rossi e i fiori arancioni che teneva in mano le permettevano di risaltare sullo sfondo e non fondersi nemmeno con la massa scomposta dei turisti, come se appartenesse ad una dimesnsione a sé. Fu allora che il ragazzo decise che voleva provare.
Animato da un nuovo proposito, la raggiunse in appena una manciata di secondi e, quando le fu accanto, le chiese:  
«Beatrice... ti piacerebbe visitare la Cappella Sistina?»
Meravigliata dalla proposta, la ragazza si voltò verso di lui e lo fissò a lungo, la bocca semi-aperta.
«La Cappella Sistina? Quella Cappella Sistina?»
«Sì, direi che è proprio quella» le confermò, sorridendo di fronte a quel genuino stupore. «Hai detto che ti piace anche Buonarroti, credo sarebbe bello, per te, vedere i suoi affreschi lì conservati. Che cosa ne dici?»
Bastarono quelle poche parole per renderla assolutamente raggiante, da sembrare quasi rischiarare le penombra che li circondava.
«
Oh, ma certo!» esclamò. «Però, che io sappia, non l’è facile riuscire a vederla».
«In realtà non è così impossibile. Basta prenotarsi per tempo» osservò Marcello. «Se chiamo subito, dovrebbero darci l’opportunità di visitarla sotto Natale. Saresti d’accordo?»
L’espressione di pura gioia che si leggeva sul volto di Beatrice rispose per lei.

Nonostante le ripetute opposizioni di Beatrice, che temeva di disturbarlo, il giovane insistette per accompagnarla a casa. Infatti, non avrebbe mai lasciato una ragazza da sola per strada, per giunta all’imbrunire, senza contare che non gli dispiaceva trascorrere un altro po’ di tempo in sua compagnia.
Il clima mite offrì loro una piacevole passeggiata, durante la quale Marcello poté studiare meglio Beatrice e l’entusiasmo che l’animava quando parlava di opere e artisti: sembrava immergersi in un mondo tutto suo, dove l’arte diventava specchio e memoria di tutti i comportamenti umani, positivi o negativi che fossero. Lui l’ascoltava con interesse, colpito dalla sua preparazione e scoprendosi desideroso di sapere di più su quell’universo a cui, chissà per quale ragione, non aveva mai dedicato l’attenzione che meritava.
«Ti dispiace se ci salutiamo qui?» chiese la ragazza, quando ad un centinaio di passi dalla villa, lanciando un’occhiata sospettosa in direzione delle finestre del secondo piano.
«C’è forse qualche problema?» domandò il giovane, vagamente sorpreso.
«Non vorrei che la mia cugina ci vedesse: ha la brutta abitudine di spiarmi» rispose lei, diventando cupa. «Potrebbe farmi domande scomode».
Quel comportamento gli ricordò immediatamente quello che aveva spesso Tiberio con lui, pertanto il ragazzo si limitò a farle un solidale cenno d’assenso.
«Ehm... per la Sistina... ti fai sentire tu?» gli chiese poi Beatrice, quasi sottovoce, torcendosi una ciocca ramata, senza smettere di gettare alla villa sguardi circospetti. Forse, rifletté Marcello, quella ragazza viveva in una condizione perfino peggiore della sua.
«
Ovviamente. Non appena saprò qualcosa, te lo farò sapere» le disse, con dolcezza. «Mi lasci il tuo numero o anche il telefono è sotto sorveglianza?» le chiese poi, con una punta di curiosità. Il giovane voleva cercare di capire quanta libertà avesse, poiché, da ciò che aveva visto e sentito fino a quel momento, non gli sembrava che Beatrice vivesse in una famiglia molto permissiva. Il profondo sospiro al quale lei si abbandonò subito dopo gli confermò quell’intuizione.
«Se chiami di mercoledì mattina, ti risponderò io con certezza. Non c’è nessuno in quel momento, sono sola» gli rispose, stringendo le spalle.
Marcello, allora, prese dalla tasca interna della giacca
la sua agendina e si frugò in quelle laterali per trovare una penna, per poi porgere entrambe alla giovane. Dopo che lei gliele ebbe restituite, il ragazzo fece per rimettere tutto a posto, perciò non si accorse di quanto Beatrice gli si fosse avvicinata. Fulminea, quella si alzò in punta di piedi e gli diede un leggerissimo bacio sulla guancia, lasciandolo un po’ disorientato.
«Grazie, Marcello. Per il pomeriggio, per le gerbere... per tutto» gli sussurrò, arrossendo appena sulle guance, prima di correre via, i lunghi capelli ramati che danzavano nell’aria.
Per qualche istante, Marcello rimase immobile, portandosi inconsciamente le dita nel punto che Beatrice gli aveva sfiorato con le labbra.
Poteva quasi di sentirne ancora il calore.
***

Piena d’entusiasmo per il pomeriggio appena trascorso, Beatrice entrò in casa canticchiando, certa che se Anna Laura avesse saputo con chi era uscita, certamente sarebbe morta d’invidia.
Aveva appena cominciato a salire le scale con passo quasi saltellante, quando incrociò Guido che, tutto contento, scendeva di corsa. Fisicamente non aveva molto in comune con lei: né bello, né brutto, era scuro di capelli, con gli occhi grigi e il viso affilato che non suscitava nemmeno un minimo della dolcezza che, invece, trapelava da quello della sorella. Il suo fascino, poi, era abbastanza discutibile; ciononostante, per un motivo o per un altro, era sempre attorniato da belle ragazze.
«Ciao, Cicci. Come mai sei così felice?» tubò, rivolto a Beatrice.
«Niente di che. Ho solo trovato queste belle gerbere e dei bottoni perfetti per il mi’ vestito nuovo» gli rispose Beatrice, sbrigativa, superandolo.
«Ah, ragazza spensierata! Pensi ai ffiori e ai tuo’ vestiti nuovi! Meno male che ci son io a lavorare per te».
Sorpresa da quell’affermazione, la ragazza si bloccò a metà della rampa, voltandosi verso di lui.
«Per me?» ripeté, corrugando la fronte. «E cosa mai avrai fatto di così eccezionale, Guido?»
«Cicci, ho messo a posto tutto e ho rimediato al tuo pasticcio dell’altra sera!» esordì il giovane, sottolineando l’eccezionalità dell’evento con un ampio gesto del braccio. «Adesso l’è sufficiente solo che tu dica una data! Possibilmente entro i prossimi tre mesi. Sai, prima ti decidi e meglio sarà. Magari, potrei spillargli ancora qualche altra lira...»
«Scusa, Guido, una data per cosa?»
«Ma come per cosa! Ragazza sbadata, ma è ovvio, per le tu’ nozze con Conrado de Navarra!»





***
La revisione di questo capitolo non è stata editata.
La grafica del tititolo è opera mia.
Un grazie speciale va anche alla mia Anto che collabora sempre con entusiasmo.
***


Anche questo capitolo è stato riscritto, per renderlo più fluido e concorde con i successivi.
Halley S. C.

  
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