Sono una deficiente
Sono una
deficiente, perdonatemi. Pensavo di avere finito. Lo giuro,
ne ero convinta, e mi sentivo felice per avercela
fatta prima della fine della scuola e delle vacanze.
Ma -
mancava
un capitolo.
Scussaaaaaaaaaate Y____Y
XII.
[Pavia;
Ventuno Novembre 2006, 17.58]
Il tempo è sempre lo stesso in
ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna
di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento
proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un
unico istante vissuto da milioni di anime – quel
tempo era un freddo pomeriggio di fine Novembre, imbiancato da un velo di nebbia
soffusa che sembrava addormentare ogni cosa sotto una patina di sogno. Pensavo
che quello strato bianco, perlaceo, sbiadito, potesse trasformarsi in un
incantesimo millenario e preservare ciò che copriva dalla consunzione del tempo
e del cambiamento.
Seduta sulla panchina fredda di
granito ancora bagnata dalla condensa appesa nell’aria, aspettando qualcosa,
qualcuno che non sarebbe mai arrivato, o, forse, semplicemente scappando un
po’ dalla finitezza di certe situazioni, guardai l’orologio con una svogliatezza
casuale. Il campanile della chiesetta si alzava davanti ai miei occhi e batteva
le sei di pomeriggio, ma il quadrante del mio orologio segnava ancora le cinque
e cinquantotto. Il mio orologio era giusto. Sicuramente. Era regolato non solo
da una perfetta media tra le ore esterne, ma anche dalle mie contingenze e dai
miei ritmi naturali. Ormai quell’ora, che non cambiava di nemmeno un secondo da
anni, era entrata a far parte delle mie percezioni sino a condizionare i miei
risvegli ed ogni altra azione della mia giornata; non come
quel Ich che una volta si perse
nella città, perché era sehr
früh am
Morgen.
In quel momento, in quel
precisissimo istante, io non ero schiava di nessun concetto e di nessuna idea.
Pensavo a una cosa pazzesca, banale da una parte,
enorme dall’altra, abbastanza vasta da riempire le sale del mondo. Pensavo di
stare vivendo quel minuto, quel minuto preciso, quei canonici sessanta secondi,
in una maniera che mi sembrava individuale e personale, quasi intima, immersa
nella solitudine della nebbia evanescente del mio paese, eppure, senza nemmeno
accorgermi di rompere un guscio inesistente, condividevo con miliardi
di altre persone la stessa irrefrenabile corsa verso
il futuro, lo stesso inesprimibile slancio verso la vita, la stessa transizione
fino alla morte.
Non era una concezione
pessimista, o macabra, o distorta. Era una cosa semplice e
perfettamente naturale, tanto chiara da non sconvolgermi nemmeno un po’.
C’era un’idea che legava me e, inconsapevolmente, tutta l’umanità, tutto
l’Universo – ed era il Tempo. Il minuto. Quel minuto: le cinque e cinquantotto.
Io non so se il Tempo sia solo
la percezione umana di una coscienza dilatata all’infinito, o
un’insieme di segmenti quantificabili posti uno
accanto all’altro fino all’eternità, o un’impressione di esistenza intrinseca
della nostra mente, non conosco nemmeno il modo in cui il resto del mondo
concepisce il Tempo, se esista un Tempo, dieci Tempi, mille
Tempi, tanti Tempi quante sono anime che vivono, e respirano, e avvertendo la
loro esistenza si delimitano in una sfera temporale definita. So solo che si
potrebbe bloccare un istante e trovare al suo interno la perennità, così come si
potrebbe scoprire l’universo dentro ad un atomo
infinitesimale. Allora sapevo anche che quel minuto cristallizzato nella mia
testa avrebbe potuto produrre migliaia di risvolti
inaspettati.
C’era una cosa che mi stupiva.
Io ero seduta tranquilla ed infreddolita sulla mia panchina,
semplicemente immersa in pensieri insignificanti – eppure, in quello stesso
istante, sei miliardi di persone stavano vivendo sensazioni, emozioni,
patimenti del tutto diversi dai miei. Forse semplicemente indifferenze lontane
dalla mia atarassia. Era una sorta di humanitas tutta particolare.
Credo che questo meccanismo
gigantesco sia regolato da una “Legge dei Contrasti”, una sorta di bilanciamento
per ognuno. Non so se si chiami Giustizia o semplicemente Compensazione, ma
senza contrari non c’è progresso. Mi sembrava plausibile che qualcuno
condividesse i miei pensieri nello stesso momento in cui io li formulavo un po’
annebbiati e pieni di sonno e noia, come se ogni meditazione, ogni introspezione
potesse viaggiare attorno al mondo attraverso il vento e toccare un milione di
menti separate.
Probabilmente, in un angolo del
pianeta, un’amicizia cominciava ed un’altra si spezzava; qualcuno portava il
lutto, qualcuno ricominciava a vivere nel coraggio; qualcuno moriva, qualcuno
nasceva; qualcuno si innamorava, qualcuno si
dimenticava la passione; qualcuno viveva incubi abissali e solitudini
incolmabili, qualcuno contemplava un paesaggio nell’assoluto isolamenti se
stesso; e tutto ciò accadeva proprio lì, in quell’ora qualsiasi di un giorno
qualsiasi di Novembre, col suo autunno, con la sua nebbia, con la sua empatia e
coi suoi pensieri dirompenti.
[Thinkin' Shift]
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