Il
telefono ovviamente era stato requisito e portato nel bagno, dove ora
si
sentiva lo scrosciare intenso dell’acqua della doccia. Me ne stavo
spaparanzata
sul letto, udivo i tuoni in lontananza che squarciavano il cielo e
pensavo.
Pensai
a quello che stava succedendo.
Ricordai
i primi giorni a Londra, quando mi ero appena trasferita in via
definitiva. Mi
ricordai del caos della Tube, del mio piccolo appartamento a soqquadro,
delle
corse per arrivare in tempo in ufficio.
Sembrava
una vita diversa da quella che avevo ora.
La
fine del vecchio anno si avvicinava inesorabile e mai mi ero sentita
così
ansiosa che ciò non accadesse. Ero partita decisa con l’intenzione di
mettere
fine a quella specie di tresca che si era instaurata tra me e il
calciatore –
cliente, tra l’altro – e di metterlo immediatamente al corrente
dell’appuntamento con James.
Avevo
fallito su entrambi i fronti.
Mi
alzai in piedi decisa ad ignorare quei pensieri che avrebbero
altrimenti finito
per mandarmi ai pazzi, così cominciai a girare per la stanza a grandi
passi,
cercando qualsiasi cosa da fare. Fuori era buio e le verdi campagne del
Sussex
venivano illuminate di tanto in tanto da uno sporadico lampo che
squarciava il
cielo.
Raggiunsi
il davanzale e vi posai le mani sopra.
Mi
cadde lo sguardo sui vestiti di Simone abbandonati malamente sulla
sedia lì
accanto, accartocciati come giornali vecchi. Sbuffai e roteai gli occhi
al
cielo, per poi cominciare a piegargli i pantaloni e tentaredi lisciarli
il più
possibile.
Neanche
fossi sua madre, mamma mia. Gli ci voleva la balia ventiquattr’ore al
giorno!
Non
appena afferrai il maglioncino a righe firmato Ralph Lauren, una
zaffata di
profumo mi assalì le narici ed io rimasi completamente pietrificata.
Era la
stessa, identica fragranza di quella notte, di quando smise la maschera
del
calciatore arrogante, di quando aveva, per un attimo, fatto crollare il
muro.
Senza
pensarci, lo avvicinai alle narici, quasi guidata da quell’odore pieno
di
ricordi.
«Stai annusando
il mio maglione?»
mi sorprese la voce di Simone ed io sobbalzai per lo spavento.
Si
era mosso furtivo, quasi come una pantera. Non mi ero minimamente
accorta che
la porta del bagno si fosse aperta.
Presa
in contropiede, strinsi tra le mani l’indumento incriminato.
Dovevo
inventarmi una scusa alla svelta, oppure avrei segnato la mia fine.
Secoli e
secoli di prese in giro made in Simone Sogno.
Non
sarei sopravvissuta alla prima settimana.
«Certo che no!» sbottai,
forse un po’ troppo forte. «Stavo
solo controllando che fosse 100% cotone. Sai, queste cose sintetiche
possono
far irritare la pelle…»
e cominciai a rigirare il maglione tra le mani.
Simone
mi fissò esterrefatto. «Davvero
pensi che me la beva?»
Ovviamente
no. Certo, Mr. Furbetto non poteva credere alla cazzata del secolo.
Sbuffai e
lanciai il maglione sulla poltrona. «Credi quello che vuoi,» tagliai
corto, pur di non dargliela vinta.
Era
chiaro che avessi mentito, ma per principio non gli avrei mai dato
ragione. Si
era trattato solo di una debolezza, di qualcosa di incontrollato. Non
si
sarebbe mai più verificato un evento del genere, questo era certo.
Voltai
lo sguardo per incrociare il suo e mi accorsi solo in quell’istante il
mini-mini-mini-davveromini asciugamano, praticamente un insulto agli
asciugamani, fissato alla vita di Simone. Era ciò che avrebbe dovuto
coprirgli
il Santonoré, ma che falliva
miseramente il suo intento.
Ovviamente
lui ghignò soddisfatto, come se lo avesse fatto di proposito.
Lo
ha fatto di proposito.
Ma
va?
«Vorresti un
assaggino di Simo tuo, eh?»
ridacchiò soddisfatto, slacciandosi lentamente il nodo. «Basta una
parola, e lo lascio cadere…»
L’Ormone
si svegliò d’improvviso, pregandomi in ginocchio di parlare.
Tentai
di fare forza su me stessa, perché lo avevo accontentato fin troppo,
impelagandomi in quell’incresciosa situazione.
«Tieni a freno
il fagiolino laggiù,» gli intimai
tagliente.
Lui
mi fissò stupito e si risistemò l’asciugamano. «È tornata la Regina Delle Nevi,» asserì. «Sei più
divertente dopo un orgasmo.»
Linciai
Simone con uno sguardo che avrebbe incendiato mezza foresta pluviale. «Dobbiamo
parlare, se ben ricordi.»
Fu
allora che Simone, in barba al suo corpo ancora umido della doccia, si
spaparanzò sul letto, incrociando le braccia dietro la nuca e
fissandomi
sorridente. «Parliamo,
allora. Anche se con questo,»
e indicò il suo corpo. «Potremmo
fare molto altro.»
Roteai
gli occhi al cielo e mi sedetti sulla sponda opposta del letto, il più
lontano
possibile da lui.
Per
non cadere in tentazione.
Amen.
Rimanemmo
però in un imbarazzante silenzio. Avrei dovuto trovare le parole adatte
per
quello, per introdurre la faccenda di James e spiegare il perché
continuassi ad
oscillare tra l’uno e l’altro senza mai decidere.
«Dobbiamo
smetterla,»
cominciai, decisa. Simone arcuò un sopracciglio. «Smettere con tutto questo, col
vederci al di fuori delle questioni che riguardano l’ufficio,» precisai.
Lui
scrollò le spalle. «Pensavo
fossero degli extra concessi dalla Abbott&Abbott.»
«Cretino!» ringhiai. «Fai il serio
per un momento.»
Simone
allora tornò quella persona che di rado riuscivo a scorgere. Quella di
quando
c’era il padre, di quando doveva affrontare le sue partite, quel
ragazzo che
forse era il vero Simone Sogno.
«Va bene,» disse
solamente, con un tono menefreghista. «Per me possiamo anche far finta
che non sia
successo nulla. Sai quante
volte l’ho fatto.»
Rimasi
estremamente delusa da quella sua risposta.
Certo
non mi sarei aspettata i pianti disperati o i vani tentativi di
concedergli una
seconda occasione, ma quella risposta fu uno schiaffo in piena faccia.
È
evidente che ti ha soltanto
usata.
Lo
sapevo, eppure ci rimasi male.
Una
strana sensazione di fastidio cominciò ad impossessarsi del mio corpo,
e non
riuscii a sopprimerla. Avevo voglia di urlargli addosso, di dirgli
quanto
potesse essere immaturo e stupido questo suo comportamento, però mi
feci forza
e tacqui. In fondo era ciò che volevo: separarmi da Simone.
«Perfetto,» sentenziai. «Allora non ha
alcuna importanza se ti dico che a Capodanno andrò alla villa di James,» buttai fuori
in un sol colpo.
Era
una granata pronta ad esplodere, me lo suggerì lo sguardo di fuoco del
calciatore.
Strinse
la mascella. «Fai
come cazzo ti pare.»
Mi
presi quella piccola rivincita e nel frattempo riuscii finalmente a
confessargli
quel piccolo “segreto” di James, se così si poteva chiamare.
«Mi farò vedere
al locale prima della mezzanotte. Me l’ha promesso,» spiegai,
arrivando poi al punto in cui avrei dovuto convincerlo ad andare
comunque,
altrimenti Sofia mi avrebbe ammazzata.
Simone
scrollò le spalle e si alzò dal letto con stizza. «Non devi dirlo
a me. È mia sorella che ci tiene.»
Camminò
lungo tutta la stanza, soffermandosi davanti una cassettiera. Ne prese
un bel
pigiama lungo, di seta sembrava, e cominciò a slacciarsi l’asciugamano
in vita.
Stavo
per fermarlo, o almeno per coprirmi gli occhi, quando la stoffa umida
cadde sul
pavimento di parquet.
Cercai
di non far indugiare il mio sguardo sulle natiche sode o su quelle
spalle nude
e possenti. Ovviamente fallii su tutta la linea.
Simone
indossò i boxer puliti che aveva afferrato dal comò e il pigiama,
sempre
dandomi la schiena, senza parlare. Non c’era nulla da dire e
nient’altro da
aggiungere. Finalmente avevo ottenuto ciò che volevo, una pausa da
tutto quel
tornado di avvenimenti che mi aveva travolta.
«Ho promesso a
Sofia che dovrai esserci al locale la notte del 31,» aggiunsi,
sperando non mi lanciasse qualcosa in faccia.
Lui
si limitò ad indossare la maglia del pigiama che gli spettinò ancora di
più
quei capelli ribelli che si ritrovava, poi mi sorrise. «Ti pare che mi
possa perdere un’occasione per rimorchiare?»
Assottigliai
lo sguardo. «C’è
sempre quel piccolo accordo di non correre dietro alle gonnelle fino a
processo
concluso…»
gli ricordai.
«Ovviamente
esclusa la tua, di gonnella,»
commentò lapidario.
«Io porto i
pantaloni,»
replicai.
Rimanemmo
in silenzio a fissarci reciprocamente, senza aggiungere altro. C’era
della
tensione irrisolta tra di noi, che era sfociata in qualcosa di fisico e
penosamente immaturo. Ci ero cascata un paio di volte, ci eravamo
divertiti,
okay. Ora basta, sarei tornata alla realtà.
Stai
convincendo me, oppure te
stessa?
Entrambi.
Dovevo
farlo per forza, altrimenti non sarei sopravvissuta. Era troppo
difficile per
me relazionarmi a qualcuno, figurarsi un calciatore che aveva ancora il
cervello di un quattordicenne.
Simone
si infilò sotto le coperte, voltandosi dalla parte opposta alla mia.
«Non mi hai
ancora detto cos’è questo luogo,» gli chiesi, cercando di fare un
po’ di conversazione.
Mi
serviva una distrazione per non pensare al fatto che avremmo passato la
notte
insieme, di nuovo, dormendo e basta.
Lo
sentii sbuffare annoiato. «È
una pensione. Cosa c’è da capire?»
In
quel momento lo avrei volentieri preso a cuscinate. «Grazie, genio!
Intendevo perché tua nonna ti riserva questa stanza. Ci porti forse le
tue
giraffone preferite? È una sottospecie di bordello non autorizzato?» ipotizzai.
Simone
si voltò di scatto e mi fissò malissimo. «Nonna Eleonor è una donna
rispettabile,»
ringhiò.
Alzai
le mani in segno di scuse. «Stavo
solo scherzando, calmati.»
Il
calciatore allora distese i nervi e posò la testa sul palmo, con
l’avambraccio
piegato. Mi fissava con quegli occhi neri così dannatamente espressivi.
Sembravano scuri tanto quanto il cielo di quella notte.
«Non è un luogo
di perdizione come pensi tu,»
iniziò sospirando, poi si distese a guardare il soffitto. «Diciamo che i
primi tempi in cui divenni famoso, non sopportavo tutta la pressione
che mi
faceva Gabriele, i giornalisti, l’allenatore e i fans. Allora, di tanto
in
tanto, prendevo la macchina e mi rifugiavo qui ad Aton, da nonna
Eleonor. È una
sorta di scappatoia dalla realtà. Soddisfatta?»
No.
Non ero per nulla soddisfatta.
Il
vedere questo Simone mi rendeva
ancor
più inquieta rispetto a quando l’avevo conosciuto. Sarebbe stato tutto
più
semplice se lui fosse stato quello proprio ciò che appariva. Invece no.
Quando
tirava fuori questo suo lato più maturo, lo detestavo.
«Non era la
storia che mi aspettavo,»
ammisi, delusa.
Simone
sbuffò. «Trai
sempre conclusioni affrettate e spari giudizi su tutti prima di
conoscerli,» mi ammonì
subito.
Stava
cominciando a farmi la morale?
«Non è vero!» protestai.
Fu
allora che incrociai di nuovo il suo sguardo. «Allora credi ciò che vuoi. Non
fai altro che sparare sentenze su qualsiasi persona tu conosca. Sei
proprio un
avvocato nell’anima.»
«Perché forse
tu non sei viziato e arrogante? Non sei un bambino capriccioso e
immaturo?
Correggimi se sbagli,»
lo pungolai.
C’era
un limite a tutto. Voleva la guerra? Beh, l’avrebbe avuta.
«Non ti
correggo, è vero. E ne vado fiero,» asserì sicuro. Era
stramaledettamente insopportabile questa sua arroganza e spavalderia.
«Sei
irrecuperabile,»
sbuffai.
«E te sei
lunatica.»
Sgranai
gli occhi esterrefatta. «Prego?»
«L.U.N.A.T.I.C.A.» sillabò lui. «Significa che
cambi idea ogni tre secondi, che sei volubile come un’ape.»
«So cosa
significa, idiota. E poi che c’entra l’ape?»
Simone
ghignò. «Voli
di fiore in fiore,»
alluse maliziosamente.
Rimasi
a fissarlo con gli occhi socchiusi che mandavano saette intimidatorie.
Come si
permetteva di appellarmi a quel modo? Lui che cambiava ragazza più
spesso di
quanto si lavasse i denti!
«Senti chi
parla,»
lo apostrofai.
«Beh, io almeno
lo ammetto. Tu fai tutta la santarellina, poi mi usi e mi getti via.
Hai
spezzato il mio tenero cuoricino, sai?» ridacchiò.
«Certo, come
no,»
bofonchiai.
Simone
allora si chinò a terra e raccolse un oggetto che poi mi porse. Era il
mio
telefono cellulare.
«L’hai
sterilizzato?»
gli chiesi con una smorfia.
Lui
ridacchiò. «Tranquilla,
se avessi qualche malattia te la saresti già beccata.»
Era
un ovvia allusione a quello che avevamo fatto, ma la sottoscritta era
superiore
e avrebbe sorvolato.
Per
ora.
Afferrai
il cellulare e lessi i cinque messaggi che lampeggiavano sul display a
cristalli liquidi. Si trattava di due chiamate perse da Celeste, una da
Sofia e
ben due messaggi in segreteria. Chiamai il 42050 e li ascoltai.
Simone
non la smetteva di fissarmi divertito.
Il
primo messaggio mi fece sussultare all’improvviso. Era la voce di James.
Ciao
spaghetti-girl! Dove sei
finita? Ho provato al tuo appartamento, ma Celeste mi ha risposto che
avresti
passato la notte fuori. Nemmeno lei sapeva dove ti trovassi. Stai per
caso
facendo la vagabonda? Sentii una risata imbarazzata.
Chiamami
appena senti questo
messaggio
Poi ci fu il bip che segnalava la fine
della telefonata.
Simone
grugnì infastidito. «Ma
non ti scoccia la sua pedanteria?» commentò. «Si accolla…»
Lo
linciai con un’occhiataccia. «Almeno
lui dimostra che ci tiene, a differenza di qualcun altro,» sibilai,
alludendo ovviamente al suo comportamento perennemente menefreghista.
Simone
alzò un sopracciglio e indicò il telefono. «Davvero vorresti uno che ti
scassa le palle continuamente come Mr. Avvocatuncolo?» mi chiese
esterrefatto.
Ignorai
quel pensiero e ascoltai il secondo messaggio.
Era
Cel questa volta.
Amica!
Si può sapere che fine hai
fatto? Leonardo sta vagando da ore e ore su e giù per la cucina perché
il
frigorifero è vuoto. Credo che andremo a cena fuori, tu cosa fai?
Chiamami.
Mi
sentii in colpa per non aver avvertito la mia migliore amica, ma più di
tutto
sentii una rabbia montarmi dentro perché era unicamente colpa di quel
marmocchio infantile che ora sedeva accanto a me.
«Devo fare
alcune telefonate,»
dissi perentoria, alzandomi dal letto e dirigendomi verso il corridoio.
«Ed è
necessario uscire dalla stanza?»
mi chiese lui sospettoso.
Ignorai
palesemente quel commento infimo. Posai la mano sulla maniglia della
grande
porta laccata di bianco e mi precipitai all’ingresso.
Simone
si alzò a sedere sul materasso e mi fissò ombroso. «Detesto quando
fai così,»
mugugnò.
«Così come?» chiesi
dubbiosa, prima di accostare l’infisso.
Simone
sospirò. «Quando
mi nascondi le cose.»
Ignorai
quella punta di delusione che lentamente si stava facendo strada nel
mio petto
e non gli risposi. Mi limitai a socchiudere l’uscio e ad avvicinare il
cellulare all’orecchio prima di voltare le spalle alla stanza numero 6.
Meglio
così, tanto avete tagliato
i ponti giusto?
Giustissimo.
Finii
il mio giro di telefonate quando ormai l’orologio da polso segnava
mezzanotte e
ventitré. Dopo un lungo e umido sbadiglio, decisi che era venuto il
momento di
meritarmi un po’ di riposo, così rientrai nella stanza prenotata da
Simone e mi
diressi verso il grande letto matrimoniale.
Avremmo
dovuto dormire insieme, a quanto pareva, ma questa volta non fui tanto
polemica.
Per
ovvi motivi.
Soppressi
i pensieri del mio Cervello e mi tolsi il maglione, optando per la
maglietta a
maniche lunghe che indossavo sotto e un paio di culotte post-ciclo che
mettevo
unicamente per spaventare eventuali maniaci.
Simone
dormiva profondamente.
Mi
mossi furtiva e scostai le coperte per poi prepararmi ad una lunga
notte di
sonno. Dovevo ammettere che il caso che stavo seguendo mi stava
succhiando
parecchie energie, per non contare i litigi estenuanti con Simone a
causa di
James, della sua famiglia, poi di nuovo James, Leonardo, Sebastian e
tutto il
mondo contro cui litigava ogni giorno.
Posai
la testa sul cuscino e mi rivolsi verso di lui. Era di schiena, ma
anche se non
potevo vederlo riuscii ad immaginare perfettamente il suo volto
rilassato.
L’avevo visto dormire tante di quelle volte da quando condividevamo lo
stesso
appartamento, eppure quel pensiero non mi fece vergognare.
Sapevo
di doverla pensare diversamente, anzi, di non dover pensare affatto.
Purtroppo
mi aveva fatto qualcosa quel marmocchio, una specie di macumba.
È
riuscito a scavarsi un piccolo
rifugio dentro di te.
Sì,
ma devo riuscire a farlo sloggiare.
«Possibile che
devi essere così?» sussurrai.
Allungai
una mano soltanto per stiracchiarmi, per distendere la schiena che era
completamente annodata a causa della tensione di quei giorni. Rivolsi
lo
sguardo al soffitto e chiusi gli occhi. Immediatamente si materializzò
davanti
al mio viso il volto sorridente di James.
Il
mio cuore cominciò a battere all’impazzata e forse quello fu un chiaro
segno di
come si sarebbero svolte le cose di lì in futuro.
James
era davanti a me, era l’uomo della mia vita. Lo sapevo, ne ero certa.
Anche
se Simone dormiva nel mio stesso letto, anche se le sue mani erano
state in
punti del mio corpo che avevo permesso a pochi di raggiungere, anche se
quando
ero con lui, spesso e volentieri il resto del mondo si fermava, anche
se tutto
questo mi legava profondamente a lui, sapevo
che il mio futuro era con James.
Era
come quando leggevo un libro e sapevo già come sarebbe andato a finire.
La
mia storia era già scritta, mancava solamente la parte centrale.
Aprii
nuovamente gli occhi, sentendo che la stanchezza volava via con la
stessa
velocità con cui mi aveva appesantito le membra. Tutta la stanza
profumava di
Simone. Sentivo il suo odore sul cuscino, sulle federe, ormai anche su
di me.
E
lo detestavo.
«Non riesco
nemmeno a dormire. Bene,»
bofonchiai acida.
«Se non la
smetti di cianciare, non riesco nemmeno io,» brontolò il calciatore.
Sussultai
a quella risposta perché non mi aspettavo che fosse sveglio. In quel
preciso
istante desiderai sotterrarmi, scavarmi una tomba e poi seppellirmi al
suo
interno.
«Scusa,» dissi
solamente, mortificata.
Sentii
Simone agitarsi nel letto e poi voltarsi nella mia direzione, aprendo
quei
meravigliosi pozzi scuri che erano i suoi occhi d’ebano.
«Non puoi
cambiarmi, se è questo che intendevi prima,» disse sicuro.
«Cosa?»
Sbuffò.
«Prima
mi hai chiesto perché devo essere così.
Ebbene, non voglio cambiare. Mi piace come sono e non intendo
modificare nulla.
La perfezione ormai è insita nel mio stesso essere. O prendi tutto il
pacchetto, o niente.»
La
risposta era fin troppo ovvia. «Credo
che opterò per il “niente”, grazie. Buonanotte,» tagliai corto.
Simone
allora grugnì infastidito da quella mia imposizione, poi avvertii le
sue mani
che si facevano strada, senza alcun timore, verso i miei fianchi.
Spalancai
gli occhi e lo fissai furibonda. «Che cazzo
pensi di fare?» lo ammonii.
«Dormo, mi
sembra ovvio,»
commentò lui, sbadigliando subito dopo.
Mi
beai di tutta la sua giugulare, fino alle tonsille. «E queste?» ringhiai,
indicando le sue manone avvinghiate
attorno ai miei fianchi coperti appena da quelle culotte in puro stile
Bridget
Jones.
«Sono abituato
a dormire con un corpo di donna schiacciato contro. Anche se il tuo non
può
nemmeno avvicinarsi a quello di Francine o Bernadette… per stavolta mi
accontento,»
sorrise.
Ovviamente
si meritò un ceffone ben assestato su quell’enorme testone.
«Ahi! Ahi!
Okay!»
protestò, alzando le mani. «Pensavo
fosse un premio d’addio.»
«Ti do un
calcio come regalo, va bene?»
lo minacciai. «Rimani
al tuo posto.»
Simone
non la finiva di fissarmi con quel solito ghigno arrogante in volto, ma
io
tentai di ignorarlo.
«E ora dormi,» ordinai.
«Va bene,
mammina,»
ridacchiò lui.
Il
giorno dopo mi ritrovai stretta in una morsa d’acciaio, completamente
spalmata
contro il corpo di Simone.
Maledetto
moccioso.
***
«Dove passerai
il capodanno, eh, Ven?»
domandò la voce acuta e petulante di Yuki.
Stavo
riordinando delle pratiche per conto di Mr. Abbott quando me l’ero
ritrovata
alle spalle come un avvoltoio pronto a colpire.
O
a nutrirsi della tua carcassa.
«Con degli
amici,»
risposi distrattamente.
Era
incredibile la quantità di doppie copie che ogni cartelletta conteneva,
così mi
era stato chiesto di ridurre drasticamente la quantità di carta
straccia e
mettere un po’ d’ordine nell’archivio.
«Io sono
invitata ad un party a Londra, alta società... non puoi capire,» sospirò,
sistemandosi i capelli dietro le orecchie elfiche.
«Mh…» commentai
distrattamente.
«Chissà, magari
riesco ad incrociare James.»
Sussultai
a quel nome e mi voltai alla ricerca degli occhi a mandorla della
Giapponese. «Come?»
Lei
sorrise melliflua. «Pensi
davvero che, essendo la sua assistente, lui abbia dei favoritismi nei
tuoi
confronti?»
ridacchiò. «Mio
padre ha detto che Jamie è uno dei rampolli della famiglia Abbott,
erede di
quasi tutto il patrimonio della famiglia. Ergo, un pesce appetibile per
i
Nakatomo.»
Ovviamente
si riferiva alla sua facoltosa famiglia.
Cercai
di sorvolare, anche perché per un attimo avevo avuto il sentore che la
ragazza
conoscesse il mio segreto.
«Auguri,» smozzicai,
tornando ad occuparmi delle pratiche.
Fare
finta di niente era il mio secondo mestiere. Sapevo nascondere le mie
paure e i
miei sentimenti fin quasi a credere di non provarli nemmeno. La tecnica
del
“muro” funzionava alla perfezione in questi casi delicati.
Il
problema sorgeva quando tale barriera veniva abbattuta.
«E con il
calciatore come ti va?»
s’impicciò la Giapponese.
Sbuffai
infastidita. «Simone
è un mio cliente, come devo ripetertelo?» ringhiai. «シモーヌは私のクライアントである. Va meglio?»
Yuki sgranò gli occhi ed io
mi presi una
piccola rivincita. Sapevo sì e no quattro parole in Giapponese, ma
quello che
mi premeva di più era fargliela pagare.
Ringraziai mentalmente Mrs.
Chiaki – la
donna delle pulizie del vecchio palazzo –, che mi aveva costretta a
seguire un
corso on-line soltanto per comunicarle ogni volta di non allagare il
bagno.
Altri due tirocinanti
entrarono nella
stanza per accatastare altre pratiche da riordinare.
«Non finirò mai!» sbuffai incredula.
Carl sogghignò. «Il signor Abbott ha specificato di
farle
riordinare a te,» disse.
Per quale motivo dovevo
essere punita in
questo modo? Possibile che avessi dato una così cattiva impressione a
quel
meeting prima di Natale?
«Okay,» sospirai. Ormai era più che certo
che
quella sera sarei rientrata non prima delle 21.00.
Yuki mi lasciò finalmente
al mio lavoro,
portandosi dietro anche quelle altre due iene che mi avevano appioppato
tutte
quelle cartelle.
Frugai nella tasca della
giacca e afferrai
il cellulare.
Rimasi interdetta a fissare
lo schermo a
cristalli liquidi, indecisa se scrivere o meno l’SMS. Cominciai a
digitare:
faccio
tardi in ufficio. non ci sono per
cena.
L’idea
iniziale era quella di mandarlo a Simone, visto che l’ultima volta mi
era
venuto a raccattare direttamente in ufficio, eppure mi bloccai.
Come
conti di tagliare i ponti se
continui a cercarlo?
Perfettamente
logico.
Cambiai
il numero del destinatario e lo inviai a Celeste, sapendo che la mia
migliore
amica avrebbe avvertito tutti per mio conto. A cena erano stati
invitati anche
Sofia e Ruben, con nonna Annunziata, ma purtroppo avevo quel compito da
portare
a termine prima della fine dell’anno.
«Casi del 2009
a noi! Vi riordinerò come Dio comanda!» minacciai il plico di fogli.
L’orologio
indicava le 20.35 quando notai che il mucchio di scartoffie da
riordinare era
diminuito soltanto della metà. Inspirai profondamente e tentai di non
urlare.
Di quel passo mi sarei dovuta portare il lavoro a casa, e non era mia
intenzione.
«Si può?» mi chiese una
voce, facendomi voltare.
James
mi sorrise sulla soglia dell’ufficio ed io mi sentii molto più
sollevata.
«Certo,» gli dissi
esausta. «Sto
finendo questo noiosissimo riordinamento di pratiche.»
L’avvocato
mi si avvicinò e diede uno sguardo al cassetto di metallo dove erano
archiviate, in ordine alfabetico, tutte i vecchi casi risolti dallo
studio.
«Zio August ti
ha messo ai lavori forzati, eh?»
ridacchiò.
Io
sorrisi di rimando. «Sarà
una specie di punizione per non avergli risposto in modo adeguato
l’ultima
volta. L’avrò sicuramente deluso.»
James
avvicinò il suo dito indice alla punta del mio naso, accarezzandola. «Secondo me ti
sta mandando un segnale,»
disse sicuro. «Zio
August non fa mai nulla per caso.»
Guardai
esterrefatta le cartelle tra le mie mani, poi notai le fotocopie da
buttare che
avevo accatastato in un angolo della stanza.
Vuoi
vedere che…?
«Potrebbe
essere un suggerimento per il nostro caso!» trillai eccitata, tuffandomi a
pesce su quei fogli e cominciando a controllarli.
James
si sedette sul pavimento accanto a me, con le gambe incrociate.
Sembravamo dei
ragazzini con dei Lego.
«Grayson contro
Lawsheld?»
chiese lui, mostrandomi un foglio.
Scossi
la testa. «Lei
si era inventata tutto, è bastato un semplice esame delle urine,» dissi.
Continuammo
a cercare. Dopo quello che mi aveva detto Jamie, ero più che sicura che
tra
queste vecchie scartoffie ci fosse un caso analogo a quello di Simone.
Magari
sarei riuscita a risolverlo da sola, prendendomi quasi tutto il merito.
«Mc Pherson e
Carlson contro Yewitt?»
domandò ancora.
«Non penso,» sospirai. «Dobbiamo
trovare qualcosa di molto simile, che riguardi due persone
potenzialmente
famose.»
James
smise per un attimo di cercare e mi guardò. «Il giudice ha approvato il test
di paternità. Con l’inizio dell’anno Mr. Simone dovrà presentarsi in
clinica e
depositare il suo DNA.»
Non
mi aspettai quella notizia, ma tutto sommato era di buon auspicio.
«Bene!» esclamai,
posando le pratiche “inutili” in una pila diversa da quelle ancora
“utili”.
James
abbassò lo sguardo. «Già.
Sarebbe fin troppo facile se il test risultasse negativo,» commentò.
Tentai
di carpire qualcosa da quel suo comportamento. «Lo abbiamo richiesto noi, o
sbaglio?»
L’avvocato
annuì e cominciò a riordinare i documenti all’interno della
cartelletta. «Sì, è la prima
cosa da fare per togliersi ogni dubbio. Certo che…» e lasciò la
conversazione a metà.
La
pendola nel corridoio suonò le 21.30.
«Si è fatto
tardi,»
concluse infine James, alzandosi da terra e tendendomi una mano per
aiutarmi a
venir fuori da quel mare di carta stampata.
«Devo finire
qui,»
spiegai, mostrandogli l’archivio in disordine. «Non posso lasciare tutto in
questo modo. Tuo zio mi ucciderà!» sospirai.
L’avvocato
sorrise e si accucciò vicino a me. «Metterò io una buona parola per
te,»
e mi strizzò l’occhiolino.
Sorrisi
di rimando, forse un po’ nervosa. Anche se mi sarei voluta abbandonare
all’abbraccio malizioso degli occhi di James, avevo come qualcosa che
mi
pizzicava dietro l’orecchio. Non sapevo se si trattasse di irritazione
cutanea,
rosolia, zecche o quanto altro ma era davvero fastidiosa.
«Grazie
dell’offerta, ma preferisco finire,» dissi gentilmente.
James
non rimase per nulla deluso dall’essere metaforicamente respinto, anzi.
«Ci conto per
il 31,»
mi ricordò, posandomi una mano sulla guancia e spostando un ciuffo di
capelli
dietro l’orecchio. Si chinò quasi impercettibilmente a sfiorare le mie
labbra,
poi, in un fruscio di vestiti si alzò ed uscì dalla stanza
dell’archivio.
Rimasi
a fissare la porta da cui era appena uscito il giovane avvocato mentre
il mio
cervello registrava gli ultimi eventi. Dapprima mi soffermai ancora su
ciò che
era appena successo. Portai due dita alle labbra e vi sentii impresso
sopra il
calore di quelle di James.
Non
sapevo se fossi innamorata o meno, se quello si potesse in qualche modo
definire infatuazione, quello che era certo è che ne sentivo
profondamente la
mancanza.
C’era
un lato di James di cui non potevo fare a meno. Quella sua gentilezza,
i suoi
modi riservati, l’essere sempre cauto e accorto.
E
allora perché Simone?
Lasciai
scivolare via il pensiero del calciatore, prima che potessi in qualche
modo
crucciarmi più del dovuto. Era finita? Okay, perfetto.
Ci
avrei messo una pietra sopra.
Tanto
nemmeno a lui sembravo interessare. Era stato solo un gioco. Una cosa
stuzzicante.
«Bene,
mettiamoci al lavoro!»
esclamai, continuando a frugare nei vecchi casi giudiziari.
Non
mi accorsi nemmeno del tempo che passò, persa tra un Geoffrey Hummel –
donnaiolo incallito – che era riuscito a dimostrare che Miss Van Hauten
non
solo aspettava il figlio di un altro, ma che tal Tizio
non era altri che suo fratello, quando il cellulare cominciò
a vibrare insistentemente.
Cercai
di recuperarlo in mezzo al caos che regnava su quel pavimento, quando
vidi
comparire sul display il nome di Simone, ribattezzato amorevolmente Pisellino sul mio BlackBerry.
Sentii
il cuore farmi una specie di mezza capriola all’indietro.
Inspirai
forte, poi espirai e premetti il tasto “Ignora chiamata” tornando al
mio solito
impiego. L’orologio segnava le 21.55 e la pila di scartoffie non
sembrava
diminuire.
Continuai
imperterrita ad esaminare documento per documento.
Brrr
Brrr Brrr
Il
telefono ricominciò a vibrare e a muoversi per tutto il pavimento, con
più
insistenza di prima.
Guarda
se quel decerebrato capisce che deve piantarla di tormentarmi!
Magari
è solo preoccupato…
Il
mio buon senso mi mise in guardia. Più di una volta lo avevo giudicato
male e
se si fosse trattata dell’ennesima volta? Se davvero stesse chiamando
solo per
sentire se stavo bene?
Decisi
di dargli un terzo tentativo.
Ignorai
nuovamente il telefono, stavolta lasciandolo squillare a vuoto. Nel
frattempo
mi saltò all’occhio un documento interessante:
Sanders
vs Hardy
Il
giorno 09 – 10 – 2003, il giudice Henry Mills ha
liberato da ogni obbligo e vincolo di parentela Mr. Kevin Micheal
Hardy,
giocatore professionista di golf, nei confronti di miss Samantah
Juliett
Sanders, attrice riconosciuta all’Albert Hall.
Dopo
aver invalidato il test di paternità, richiesto
dagli avvocati dell’accusa, a causa
di
un’anomalia genetica presente nel corredo di Mr. Hardy e assente in
quella del
feto, il giudice Mills ha così dichiarato chiuso il caso di dubbia
paternità
Sanders-Hardy.
[…]
Era
un buon inizio da cui partire. Mi tenni a mente di chiedere a Simone o
a Sofia
se casualmente la loro famiglia soffrisse di una particolare anomalia
genetica,
o qualsiasi particolare che potesse essere utile ai fini del caso.
Brrr
Brrr Brrr
Ecco
la terza telefonata.
Ora
dovresti rispondere,
mi suggerì il caro e acuto Cervello.
Afferrai
il BlackBerry con stizza, poi premetti il tasto Rispondi. «Che c’è!» ringhiai,
infastidita da quella serie di telefonate a raffica che mi avevano
distratta
proprio quando il caso mi aveva fatto trovare quel documento così
importante.
All’altro
capo del telefono, però, mi rispose una vocina esitante. «Z-Zia Vennie?» cinguettò una
voce di bambina.
Sgranai
gli occhi quando mi resi conto che si trattava di Susanna.
Porca
di una tro… ta.
«C-Ciao tesoro…» smozzicai
imbarazzata. Cosa diavolo ci faceva col telefono di quel babbeo di
Simone?
La
bambina sembrò ritrovare più serenità. «Zio Simo mi ha detto di
telefonarti,»
mormorò tranquilla. «Mentre
ti viene a prendere ha detto di tenerti compagnia.»
«A p-prendere?» domandai
confusa.
Udii
una voce in sottofondo che sembrava suggerire le battute alla piccola. «Sì. Ha detto,» e qui finse
di imitare la voce di Simone. Tentativo buffo, aggiungerei. «Possibile che debba star via fino a
quest’ora? Cosa
vuole che le diano, la medaglia? Ora la trascino fuori di lì!»
Sorrisi
per l’intraprendenza di Susanna e me la immaginai con le guance
arrossate e
l’espressione concentrata nell’imitare alla perfezione la voce del suo
giovane
zio.
«E ti ho
telefonato per farti compagnia, mentre zio Simeone
viene a prenderti!» ridacchiò.
Mi
scappò una risata genuina. «SimEone,
eh?»
Susanna
allora riempì quella telefonata con il suono squillante della sua voce,
di
quella risata dolce che possiedono soltanto i bambini.
«Da quanto
tempo è uscito?»
le domandai, così da evitare tutto quel trambusto e tornarmene a casa
per conto
mio.
Susanna
rimase in silenzio per un po’, probabilmente rifletteva. «Da tanto
tempo. Tu non rispondevi e zia Sofi ha continuato telefonarti. Ha detto
“se
vede il numero di zio Simo, risponderà di sicuro!”» e lì aveva
imitato la voce della giovane Sogno.
«Capisco,» risposi,
maledicendo quella testaccia dura del calciatore. Che bisogno c’era di
venirmi
a prendere? In fondo avevo avvertito che avrei fatto tardi. «Allora che mi
racconti, piccola Susy?»
le chiesi, ingannando l’attesa.
Tanto
era più che sicuro che di lì a poco Simone avrebbe sfondato la porta a
suon di
testate.
O
l’avrebbe buttata giù a colpi
di arroganza.
O
di vanteria.
...perché
non di narcisismo?
La
voce della piccola mi riportò alla realtà. «Quando avrò un cuginetto?» mi domandò a
bruciapelo.
Cosa
intendeva per “cugino”?
Cosa
potrebbe mai intendere una
bambina di cinque anni, genio?
Gli
occhi mi si spalancarono e divennero grandi come piattini da caffè. «Direi che è un
po’ presto per zia Sofi e zio Ruben, no? Sono giovani…»
La
piccola ridacchiò. «No
zio Puré e zia Fofi!»
ripeté stupita. «Io
voglio un cuginetto da te e da Simeone,» e continuò a
ridere storpiando tutti i nomi.
Il
sangue mi si gelò nelle vene. Premesso che per una bambina così piccola
era del
tutto fuori luogo che si pensasse a quella parola che iniziava per S…
Ti
ha chiesto un cuginetto, non
le analisi ginecologiche.
Finsi
di ridere. «Vedremo,
vedremo…»
Vedremo un corno!
«Tu fai ridere zio Simone!» disse
sinceramente la piccola Sofi.
Rimasi
spiazzata da quell’affermazione, ma non potei approfondire perché udii
distintamente qualcuno bussare alla porta dell’ufficio.
«Tesoro, credo
sia arrivato. Ci vediamo a casa!» dissi alla piccola.
«Dai un bacio a
zio Simone. L’ho visto tritte tritte.»
Quella
sensazione di disagio andò aumentando. «Te lo prometto.» E riagganciai
la chiamata.
Mi
alzai dallo scomodo pavimento e mi diressi verso il portone. La prima
immagine
che mi si presentò davanti, attraverso la porta a vetri, fu un Simone
dall’aria
scocciata con indosso un enorme giaccone di piume d’oca, un paio di
pantaloni
della tuta e, calcato sulla testa, un berretto di pelo con le orecchie
svolazzanti.
Da
dove è uscito? Dal paese di
Oz?
Era
troppo buffo.
Soffocai
una risata nel vederlo e tentai anche di non farmi scorgere, ma i suoi
occhi
scuri mi beccarono subito.
«Muoviti che mi
sto congelando!»
Picchiettò sul vetro.
«Arrivo!» sghignazzai,
recandomi alla porta e sbloccando la serratura.
Non
appena Simone entrò all’interno dello studio Abbott&Abbott,
emise un
sospiro di sollievo che gli fece sbuffare una nuvola di fiato dalle
labbra
intorpidite.
«Cazzo, si gela
lì fuori!»
imprecò.
«Se ti fossi
vestito più adeguatamente…»
commentai, guardando soprattutto le ciabatte a forma di animale.
Lui
sbuffò. «Avevo
fretta, va bene? Ti rendi conto di che ore sono? Potevi portarti il
sacco a
pelo già che c’eri…»
Scrollai
le spalle. «Devo
lavorare, sono indietro con le pratiche,» spiegai, tornando nella sala
dell’archivio e tentando di dare almeno un po’ d’ordine a quelle
scartoffie.
Simone
mi seguì incuriosito. In fondo, che io sapessi, non era mai entrato nel
palazzo
ed ora si trovava ad esplorare quel luogo “inospitale” che denigrava
giorno per
giorno ma che gli avrebbe salvato il culo.
«Allora…» bofonchiò,
appoggiato allo stipite della porta.
Mi
voltai squadrandolo minacciosa. «Metto in ordine, poi possiamo
andare,»
dissi.
Lui
continuò a fissare le pareti interessato. «È l’ufficio del finocchio
inglese, questo?»
chiese ghignando.
E
te pareva che non mettesse in mezzo Jamie. «No. È un archivio, come vedi.» Gli indicai i
mobili dai grandi cassettoni che contenevano tutte le vecchie pratiche
archiviate.
Passò
qualche minuto di silenzio che adoperai per finire di impilare i
documenti da
rivedere. Rimisi apposto tutti quelli che non mi sarebbero stati di
alcuna
utilità.
Dopo
cinque o sei sbuffi, Simone parlò di nuovo. «Dov’è?»
«Dov’è cosa?» domandai.
Il
calciatore roteò gli occhi annoiato. «La tana del coniglio! L’ufficio
di quel rammollito, dove sta?»
Alle
volte era davvero scortese e fastidioso. Insopportabile.
«Quanto sei
palloso, mamma mia!»
sbottai, gettando le ultime cartelle nel mucchio e camminando stizzita
verso
l’ufficio del mio collega – non che capo.
Sentii
i suoi passi dietro le spalle.
Aprii
la porta girando la chiave ed entrai. Tutto era in ordine, compresa la
cancelleria sulla scrivania in mogano.
«Soddisfatto?» brontolai.
Simone
si guardò intorno incuriosito, quasi come un appassionato d’arte alla
sua prima
mostra di Dalì. Sondò il terreno con attenzione, studiando tutti i
particolari,
addirittura sfiorando i contorni dei mobili con la punta delle dita.
Quelle
dita sottili e affusolate.
Capaci
di fare grandi magie.
«Conclusioni?» insistetti,
incrociando le braccia al petto.
Simone
si fermò di fronte alla scrivania, poi mi sorrise – anzi, ghignò –
prima di
buttare tutto a terra con un semplice movimento del braccio.
«Che diav- …?» imprecai
sconcertata, ma Simone colmò brevemente la distanza tra di noi,
tirandomi per
la giacca e gettandomi di peso sul tavolo di legno.
Il
suo corpo mi fu sopra in pochi secondi, così come quelle
mani sulla vita della gonna.
«È da una vita
che sogno di farlo qui sopra,»
disse, poi si avventò sulle mie labbra.
Okay, potete ufficialmente uccidemi *si offre volontaria come tributo!*
(HG quotes).
Scherzi a parte, HO AGGIORNATO! 1) Perché ho iniziato a scrivere il
capitolo 2O e quindi tento sempre di mantenere uno o due capitoli di
distanza per quando ci sono giorni di "magra" e 2) Perché è quasi
Pasqua e mi pareva brutto XD
Tra un pochito vado a rispondere alle recensioni arretrate, che sono
TANTERRIME *.*, dovrei farlo volta per volta, ma sono pigra #js
Comunque! Insomma questi due sono un continuo tira e molla, ma alla
fine dei conti finiscono sempre per avvinghiarsi l'uno all'altro come
polipetti! E come biasimarli? Sono così pucci-pucci. Dunque, spero
proprio che questo con questo capitolo mi sia guadagnata la vostra
clemenza #spero e che mi diate un po' di respiro!
UHAAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH (tranne nessa e rosie che sono le mie stalker
personali :3)
Bai Bai!
Alla prossima!
Non dimenticate di passare qui dove vi aspetta l'ultimo capitolo
di Come in un Sogno (manca solo l'epilogo #sob).
Basiotti! E auguri per chi è credente (io no LOL) <3
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